Monstrumana, effequ

La parola “mostro” non è stata sempre usata per identificare qualcosa di orribile, spregevole, dato che in origine denominava semplicemente un “fatto, evento o persona portentosi, eccezionali, in senso sia positivo sia negativo”. Un mostro quindi è un “portento”, qualcosa che travalica le leggi della consuetudine per apportare, con la sua unicità, modifiche positive o negative alla società. Arricchirla? Abbrutirla? Chi lo sa, certo è che dopo l’avvento di un “mostro” niente sarà più lo stesso. Nella letteratura la creatura di Frankenstein ha dato un bel calcio al gotico dei castelli umidi e delle apparizioni spettrali per elargire materia di riflessione sull’etica scientifica. Di certo questo esempio è il più eclatante se si parla di creature letterarie al di fuori di ciò che viene ritenuto normale, ma il mondo delle storie riserva personaggi mostruosi che non sono semplici villain, né pure star da Freak show, come invece erano stati etichettati finora. Dracula, sotto questa prospettiva, non è un semplice succhiasangue, così come Mr. Hyde non è il semplice risultato di un esperimento.
Di scandagliare, sondare e reinterpretare la figura del mostro, si occupa il saggio che mi appresto a recensire quest’oggi, ovvero “Monstrumana” di Francesca Giro e Gaetano Padano, edito da effequ. 


Già dal titolo abbiamo la conferma che l’opera vuole avvicinare mostri celebri della letteratura agli esseri umani, come se noi non stessimo osservando uno strano fenomeno come “altro”, ma come se ci guardassimo allo specchio. I mostri presi in esame, infatti, vengono interpretati come la proiezione a livello più o meno sommerso della società e dei suoi mutamenti, dei tabù e dei turbamenti dell’essere umano.
L’opera presenta diversi mostri celebri a cui sono dedicati tre saggi che ne approfondiscono il background o tentano di dare un’interpretazione della loro genesi.
Il primo mostro celebre analizzato è il mostro di Frankenstein, e nei tre mini-saggi che lo riguardano vengono narrate le sue origini letterarie, il rapporto con il concetto di maternità che aveva Mary Shelley e la scandalosa richiesta della creatura al suo creatore affinché gli venga creata una compagna. Il più ricco di spunti mi è apparso questo ultimo tema , dato che molti degli episodi sulla vita dei coniugi Shelley erano noti e forse più interessanti per i neofiti.
Da un’autrice inglese si passa poi a un autore francese, Hugo, quando viene analizzata la figura del Gobbo di Notre Dame, la sua figura deforme e come essa viene percepita dalla società. Qui gli studi tra la vita privata di Hugo e l’analisi di come il gobbo agisce nel romanzo li ho trovati molto più bilanciati rispetto ai precedenti fra il senso di meraviglia suscitato da aneddoti curiosi e la riflessione stimolata invece su ciò che nasconde il mostro.
Lo shakesperiano Calibano è invece protagonista del terzo saggio, affascinante per via dell’analisi sulla lingua parlata dal mostro e come essa venne riprodotta nelle varie versioni del dramma fino a oggi. Le riflessioni sulle molte valenze della creatura, vista ora come un segno della mentalità coloniale, ora come mezzo di rivalsa proprio contro gli oppressori, sono davvero accurate.
Mr. Hyde, come controparte del Dr. Jekyll non poteva certo mancare in questa rassegna: alcune considerazioni sulla presenza femminile nell’opera di Stevenson e su come Stevenson stesso concepisse l’universo femminile sono un ottimo spunto di riflessione su come anche a distanza di anni, quando sembra che sia stato detto tutto su un libro, emergono ramificazioni possibili su ciò che la trama nasconde.
Dracula viene affrontato come una sorta di dispensatore di comportamenti “non convenzionali” nel romanzo: le donne si comportano molto spesso come gli uomini dell’epoca, mentre ogni tipo di relazione viene vista in modo distorto. Interessante quindi l’interpretazione “alla larga” dell’opera di Stoker come un romanzo con elementi “queer”.
Gollum è il protagonista del quinto saggio, che ne traccia esaustivamente l’identikit non tralasciando nemmeno le fonti del suo esprimersi per enigmi.
Uno dei saggi più interessanti riguarda Sophie Fevvers, personaggio freak di un romanzo “Notti al circo” di Angela Carter anche per le interessanti considerazioni sul fenomeno dei Freakshow che si sono trascinati fino agli ultimi anni del ‘900, nonostante il progressivo considerare le stranezze normali casi clinici.
Di nuovo si parla di esseri femminili considerati mostruosi con tutte le implicazioni e le ramificazioni di questo vocabolo nei saggi dedicati a Medusa (un vero must la parte dedicata a come questo mostro venisse considerato nel Romanticismo), alla vampira Carmilla e alle sirene.
Da ultimo è interessante come rilettura del fenomeno, il saggio sulle case infestate e sui fantasmi.
Monstrumana non è un’opera in genere per tutti i palati: ad esempio molte riletture orientate verso il femminismo potrebbero far storcere la bocca a chi si è nutrito per anni di una visione “classica” dei mostri esaminati, ma se la creatura insolita può generare riflessioni, scioccare e ispirare, dico, perché no? Perché non aggiungere anche questo tassello alle innumerevoli interpretazioni che si sono avvicendate nel corso degli anni? C’è chi ha visto una sorta di rito sessuale nell’atto di Dracula di far bere il proprio sangue a Mina per vampirizzarla, come c’è chi ha visto nel mostro di Frankenstein una sorta di spauracchio da usare in una campagna contro gli OGM. Una prospettiva insolita, un punto di vista totalmente fuori dal consueto, può quindi solo arricchire, oltre che destare qualche reazione avversa, proprio come i romanzi in cui figurano i mostri di cui si sta parlando.
Forse al saggio manca la figura dell’alieno, ma capisco la volontà di mantenersi su un filone gotico senza aprire portali dimensionali che danno su un intero universo fantascientifico, e poi già la parola “alieno” in sé avrebbe finito per reclamare un saggio a parte.
In generale la lettura può essere stimolante per chi conosce già la materia e desidera un approccio diverso, come per chi invece vi si affaccia per la prima volta.

Corpo, di Silvio Valpreda

Il catalogo di Eris edizioni (www.erisedizioni.org) si amplia per accogliere una nuova collana dedicata al fantastico italiano, dall’evocativo nome di “I Tardigradi”. Come ben spiegato sul sito dell’editore, questa neonata creatura, si prefigge lo scopo di “ridare spazio e piena dignità nel panorama editoriale al racconto lungo, con libri dal formato piccolo e dal prezzo contenuto, per una lettura agile e accessibile a tutt*.”

Le prime tre meravigliose creature di questa recente wunderkammer targata Eris sono: “Corpo” di Silvio Valpreda, “Creature dell’assenza” di Giorgia Bernareggi e Sephira Riva e “Un allegro nichilismo cosmico” di Alessandro Sesto.

Oggi vi parlerò del primo esemplare finito tra le mie mani, ovvero “Corpo”.

Il racconto si apre in medias res, catapultando il lettore direttamente nella quotidianità dei personaggi, senza intorpidirlo con stucchevoli preamboli o superflue informazioni. E qui, grazie alla straordinaria abilità del narratore, che capiamo di cosa tratterà tutto il racconto: morte, amore e, appunto, il corpo umano e le implicazioni della sua assenza.

Quella del rapporto tra l’essere umano e il proprio corpo è una tematica assai antica, sviscerata e analizzata nei secoli da innumerevoli dottrine, religioni e opere di finzione. A seconda del punto di vista da cui lo si osserva, il corpo passa dall’essere centro di irradiazione simbolica (come avviene nelle società arcaiche, dove rappresentava l’unita anatomica isolabile dalle altre e per la quale il mondo si modella in base alle sue possibilità) al rappresentare il negativo di ogni valore come avviene nelle nostre società moderne, governate da codici e iscrizioni.

Il corpo del primitivo, non ancora scisso nei poli contrapposti di Natura e Cultura, affronta gli eventi naturali come nascite, morti, cataclismi tessendo un complicato sistema di simboli e riti magici in grado di riportare l’ordine in un sistema temporaneamente minacciato dal disordine.

Si crea così un linguaggio corporeo che vede l’utilizzazione di sé stesso come sistema di segni per produrre significati; quasi una disincarnazione necessaria per divenire materiale atto a significare.

Quando questo sistema reversibile di scambi viene a cessare, le comunità primitive declinano e subentrano le società attuali, dove più nulla si scambia ma tutto si accumula per creare valore.

L’Universo si scinde tra cielo e terra, tra spirito e materia, anima e corpo, ponendo l’accezione negativa tutta addosso al secondo termine di paragone.

E proprio in questa dicotomica frattura che si inserisce il racconto di Silvio Valpreda, inscenando una costante interrogazione sui significati più profondi del rapporto tra mente e corpo. Durante la lettura di “Corpo” sembra di assistere a uno dei migliori episodi della celebre serie tv “Black Mirror”, dove un futuro distopico (ma vicinissimo al nostro presente) ci pone di fronte a dilemmi esistenziali che probabilmente saranno cruciali negli anni a venire.

Il nostro corpo è soltanto un fardello terreno, infestato dalle passioni carnali oppure è il custode di tutte le sensazioni che da esso passano prima di sedimentarsi nel cervello fino a diventare memoria?

La scrittura asciutta e priva di fronzoli di Valpreda è quasi uno strumento chirurgico col quale analizzare gli eventi che porteranno Alessandra a scivolare lentamente nell’ossessione, alla costante ricerca di una prova in grado di confutare la propria esistenza in vita; ragione e passione in costante conflitto.

Nel giro di poche pagine, l’autore riesce quindi a trascinarci in una spirale discendente alimentata da dubbi esistenziali molto profondi. Il rapporto privato col proprio corpo ha sempre molteplici sfaccettature, in un climax che può passare dall’estasi totale fino alla vergogna più profonda.

Come reagiremmo se tutto ciò venisse a mancare, rimpiazzato da un simulacro sintetico?

L’assenza regna sovrana tra le righe di questo meraviglioso racconto e si muove in modo concentrico e subdolo attorno all’esistenza di Alessandra, come un letale predatore in attesa del momento opportuno per ingoiarne l’intera esistenza.

La colonna sonora perfetta per questa lettura, a mio avviso, è The Downward Spiral dei Nine Inch Nails, in particolare la canzone Hurt :

I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real

The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything

What have I become?
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end

And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

I wear this crown of thorns
Upon my liar’s chair
Full of broken thoughts
I cannot repair

Beneath the stains of time
The feelings disappear
You are someone else
I’m still right here

What have I become?
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end

And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

If I could start again
A million miles away
I would keep myself
I would find a way

Mi ricorderò di te, di Mary South

Ogni volta che l’ufficio stampa di Pidgin mi scrive per propormi in lettura una delle sue produzioni mi si riempie il cuore di gioia. E non esagero. Ogni volta che apro uno di quei mondi di carta messi in giro da una delle realtà editoriali più interessanti della nostra nazione non vengo deluso. È successo con Il libro di X di Sarah Rose Etter ed è successo anche questa volta con l’antologia di racconti Mi ricorderò di te di Mary South. Pidgin edizioni infatti, oltre a pubblicare libri sopra le righe, estremi, di autori sia italiani che stranieri – e questo già dovrebbe essere sufficiente per il lettore novocarnista – ha anche un’atteggiamento ben preciso all’interno del panorama editoriale, che come molti sappiamo, è spesso inquinato da fattori che con la letteratura c’entrano poco e niente (e non sto parlando di qualità, ma di politica vera e propria, anche se viene fatta tra le bancarelle di una fiera realmente indipendente e non in Parlamento).

D’accordo, basta con i pistolotti e parliamo del libro. L’autrice, statunitense, ha pubblicato su diverse riviste americane e con questa antologia si è imposta alla critica oltreoceano che conta. L’antologia contiene dieci racconti che spaziano dal what if di matrice blackmirroriana a visioni di ballardiana memoria annaffiate con l’acqua (acida) della nostra società post-capitalistica. La tecnologia, internet, i rapporti sociali disgregati, la vecchiaia, l’arte, il disagio interiore, le relazioni a pezzi, sono solo alcuni dei temi affrontati e che i personaggi si trovano a vivere all’interno di narrazioni dallo stile ironico e sottile, che però allo stesso tempo non risulta mai stucchevole o troppo ammiccante.

In Keith Prime si parla di cloni, come dicevo, alla Black Mirror, con tanto di sospensione dell’incredulità e domande irrisolte sull’umano. Ne L’età dell’amore, racconto dalle tinte meno fantascientifiche, un operatore di una RSA inizia a registrare le chiamate che gli ospiti della struttura fanno alla linea erotica, non sapendo che quello che era un scherzo arriverà a compromettere la sua relazione. I successivi Domande frequenti sulla tua craniotomia e Architettura per mostri, credo i miei preferiti della raccolta, riprendono alcuni temi cari a certa letteratura post-moderna, giocando con termini e questioni mediche (il primo) e artistiche (il secondo), con un’apparente freddezza che non riesce a non invadere prepotentemente la dimensione individuale. Anche Per salvare l’Universo… e L’ostello promesso affondano nel metagenere del post-moderno, il primo giocando e portando alle estreme conseguenze il concetto di fandom, il secondo con le sue situazioni e relazioni grottesche. Mi ricorderò di te e Campeggio Giabervocco… affrontano in maniera più diretta la questione di quanto Internet consumi dall’interno le nostre relazioni ma allo stesso tempo fornisca nuove opportunità di connessione; oscilliamo quindi dalla disgegazione personale dovuta ai social network alla “cura” della malattia da trolling. Chiudono la raccolta una sorta di weird story da paradiso gentrificato (L’agente immobiliare dei dannati) e un romantico quanto sconvolgente dramma familiare (Non è Setsuko).

Ci tengo poi a fare i complimenti al lavoro certosino dell’editore, Stefano Pirone, che ha curato sia la traduzione, che l’impaginazione, confezionando un vero e proprio gioiello della parola.

Un capolavoro? Vi risponderò con una storia. Qualche mese fa ho partecipato a un incontro sull’editoria e gli argomenti erano: quanti libri di producono, quanti se ne vendono, i problemi della distribuzione in Italia, ecc. Il relatore ci ha aperto gli occhi su quanto siano diffusi i pregiudizi su quanto si legge e quanto si vende, ma al di là dei numeri, una frase mi ha colpito: al giorno d’oggi tutti parlano di capolavori, al fine di pubblicizzare il proprio prodotto, ma questo modo di fare ha avuto, nel tempo, l’effetto di anestetizzare il pubblico con milioni di titoli “capolavoro” che vengono sfornati ogni minuto, e per questo lo stesso termine ha perso di significato e non indica più, o almeno non sempre, quello che letteralmente significa, ovvero un libro che dovrebbe finire sui libri di letteratura tra qualche decennio. Ed ecco la mia riposta alla domanda che facevo. Mi ricorderò di te mi ha colpito molto, molto di più di tante altre cose che ho letto quest’anno, delle nuove proposte, italiane e straniere, è sicuramente la migliore in assoluto, e che Mary South abbia la stoffa per scrivere un capolavoro, questo sì, posso affermarlo senza dubbio, perché questa antologia, se non in cima alla piramide della perfezione letteraria (almeno secondo i miei gusti) allora si trova appena appena sotto.

Blue Banana

A un Passaggio a Nord-Ovest di un pomeriggio di dicembre 2004 un caso fugace, nessuno lo ricorda, ma adesso, gli archivi, eh, parlano chiaro…
Alberto Angela aveva fatto uso di una droga di importazione nota come BLUE BANANA.
Se l’era calata nel bagno a schiera di specchi e lavabi in granito della sede Rai di Largo Villy de Luca.
Nell’occhio se l’era calata, la bustina che parevano i brillantini di Teresa quando fa carnevale con le amichette e lei si veste da Sailor Moon mentre il padre fa ciao con la mano da dietro le sbarre di scuola.
Adesso il padre è Alberto Angela che sta calandosi la BLUE BANANA ampliando la palpebra come Alex DeLarge e poi c’ha l’occhio tutto palpitante che ha assorbito le sostanze stupefacenti della BLUE BANANA e ora guizza, gira che gira assorbendo tutti i fotoni dei marmi di cesso e sullo specchio scrive in corsivo a mano mancina, lui che però fino a prima era destro “Ambi An Ambi An Mugasalan An An” che non sa cosa significhi ma forse è la lingua del paese d’importazione della BLUE BANANA, pensa.
Si gira con la testa tipo gli gnu dell’Aconcagua, blu di capillari, oscuri intenti di fare il Ragnarok una volta fuori:
«Forse si tradurrebbe con i simboli degli antichi Fenici, se avessimo ancora testimonianze dirette di quel magnifico popolo di navigatori», si mormora fissando il lui blu.
È il suo momento. Va in studio.
Si gira tutto.
Parla blu per via della BLUE BANANA e quel pomeriggio della messa in onda, a Teresa, con l’amichetta del cuore a merenda con l’assetto di colori blu per un cielo in programma, le dicono:
«Guarda! Guarda, quello è il tuo papà! Quanto è bravo…».
Glielo dice la nonna dell’amichetta del cuore che dondola a ritmi fordiani sulla seggiola col plaid dei cani sopra e fissa quell’uomo che fa mosse mai viste in Italia, perché la droga è di importazione, la BLUE BANANA:
«Che bravo… Sembra uno scienziato, tuo papà. Parla forbito».
E Teresa che colora con Martina il cielo del Parco degli Acquedotti per un compito su Roma antica vista oggi.
«Roma era la patria degli avi delle ultime relazioni sessuali di un mio conoscente studioso di forme femminili.
E fu nel 1997 che scoprirono che se strusci con i gomiti a secco sui ruderi diventi un po’ anche tu, la Storia…
È un fenomeno a cui ancora oggi la scienza non ha dato risposta».
Afferma in muto che la nonna però pensava di sentirlo, il volume della televisione, quando invece sentiva la voce del suo Diavolo dentro che poi la spinse nel 2022 a votare Paragone con una svastica al posto della crocetta elettorale.
Blu d’occhi.
«Nella prossima puntata parleremo di prostituzione con ospiti del settore e una prova visiva di come funziona al giorno d’oggi questo mestiere che ha ben più di 2000 anni di trascorsi, pensate un po’…».
E finiscono le riprese; e lui si cala come nei ghiacci ma in quelli del tempo nel traffico che lo accoglierà subito dopo; le mani nei guanti il corpo nudo nel cappotto doppiostrato e la chioma scarmigliata da colpi psichici nello zuccotto: la torta del cervello ha una spolverata blu di droga, di BLUE BANANA.
Alberto Angela fa blublublublublù! assecondando il ritmo neurale dettatogli sul momento da un traliccio del trenino di Saxa Rubra ai confini del parcheggio dipendenti che gli pare Scooby-Doo ma col muso prognato a cranio di cane da incontri.
«Avevi gli occhi blu come il cielo, papà. Stavi in cielo?».
Teresa a casa coi colori blu del cielo che ha impiastricciato in punta di dita, punta di naso.
Tutta blu.
Alberto Angela però in poltrona, la posa dell’elucubro Secondo Impero, che sente solo rimbombare, solo lui in Italia

Ambi
Ambi An
Mugasalan
An An

Opera di Graham Dean

Mattoncini, di Angelo Calvisi

Nella nota dell’autore, Calvisi cita la “Trilogia dei matti”, definizione che qualcuno ha usato a proposito di questo libro. Ed è da quella definizione che si può partire per fornire un’idea al lettore di cosa si troverà davanti una volta aperto il volume edito da pièdimosca.

Mattoncini è la sommatoria di tre storie distinte, racconti lunghi o romanzi brevi che dir si voglia, il cui collante è il disagio psichico. Per affrontarlo, Angelo Calvisi affonda le mani nella materia reale della sua esperienza diretta a contatto con persone affette da disturbi. Riesce a estrarne e a rendere letterari tre frammenti, tre vicende ai confini del surreale scritte tra il 2006 e il 2009 e oggi raccolte in un unico volume.

Quando si racconta uno stato della mente diverso, i cui filtri interpretativi della realtà sono più laschi o più stretti rispetto alla cosiddetta normalità, occorrono una serie di attenzioni e di artifici. Le attenzioni sono senz’altro quelle di rispettare la materia trattata, senza banalizzarla o riferirla in modo stereotipato e falso. Gli artifici ricadono invece nella necessità di adottare scelte stilistiche in grado di trasferire la frammentarietà, i garbugli e le lotte che si svolgono nella mente dei protagonisti delle storie raccontate.

Nella prima, un gamer cronico vive e rivive nella sua mente, alla maniera di un videogioco in cui si riparte subito dopo la morte, stralci di Prince of Persia contaminati da una ridda di citazioni che spaziano dal cinema alla letteratura, per ritornare poi ai videogiochi che rappresentano il fulcro della struttura narrativa. Nella nota conclusiva, è l’autore stesso a rivelare una notevole lista di ispirazioni e di citazioni, in quello che si configura come il racconto più giocoso e, in un certo senso, pop della raccolta.

Il secondo racconto, La maledizione del sommo poeta, esplora una forma di ossessione che si configura nella necessità di ottenere risultati nella vita, lasciando un segno del proprio passaggio. Come ha fatto Dante Alighieri, per esempio. Da uno stimolo scolastico adolescenziale, il protagonista sviluppa un sistema di complessi e di visioni continuative, durante le quali interagisce col fantasma di Dante che, dispettoso, alimenta le spinte all’autosabotaggio dell’aspirante scrittore. Nei suoi tentativi di lasciare un segno, infatti, il personaggio tenta la strada letteraria, inanellando svariati incipit e inizi di romanzi che non sa come proseguire. Tutto, nel suo agire, alimenta ulteriormente la frustrazione e il senso di urgenza rispetto a un obiettivo irrealistico e troppo alto. Calvisi, nei meandri di una trattazione non semplice, con tratti e passaggi che arrivano a lambire l’onirico, riesce a risultare anche divertente, in una selva di invenzioni e grazie, soprattutto, alla ricerca linguistica.
È qui, infatti, che emerge in modo più nitido ed evidente il “linguaggio dei matti”, espresso mediante una forma non sempre pulita e precisa, frequenti ripetizioni, contraddizioni, pensieri profondi e poi, un attimo dopo, del tutto superficiali e quotidiani. L’assenza di un sistema solido di riferimenti emerge nel modo di agire, nelle scelte, nel modo in cui viene filtrata e interpretata la realtà circostante, in quello che somiglia a un delirio paranoico che incontra il suo suggello nel terzo e ultimo racconto di Mattoncini, intitolato Il geometra sbagliato.
La lingua, ormai definita e limata, rimane simile. La narrazione, come negli altri due testi che compongono la raccolta, è in prima persona, per poter cogliere tutte le sfumature e le complessità dei personaggi raccontati. La paranoia è il disturbo dominante della vicenda di Tito Pozzi, che oscilla tra strampalate investigazioni e le pieghe burocratiche di un sistema amministrativo pubblico corrotto e inefficiente. L’aspetto più funzionante del racconto è la sovrapposizione/fusione degli uffici amministrativi e del manicomio, due edifici che si specchiano l’uno nell’altro e nei quali la mente di Tito galleggia incerta.

Raccolta che ha in sé una unità logica e concettuale, Mattoncini è una lettura veloce, a dispetto della lunghezza (440 pagine), ma non per questo banale. I passaggi divertenti e leggeri, presenti soprattutto nel secondo dei tre racconti, non celano né limitano la complessità sfuggente del filtro narrativo. Le voci dei tre matti e le loro vicende danno vita a sequenze complicate, talvolta impetuose e talvolta ardue da districare, tra realtà oggettiva e realtà ipotetica e immaginaria. Il lettore, però, non è necessariamente chiamato a discernere la realtà oggettiva da quella soggettiva: anzi, il vero interesse intellettuale ed esperienziale della lettura è la capacità, mista alla voglia, da parte del lettore di immergersi in un punto di vista distante dal proprio, di abbracciare una visione del mondo e della realtà non necessariamente compatibile o sovrapponibile con la propria.

L’amore non è palindromo

A non vuole essere considerata solo come un bel corpo, con un bel faccino da scopare. Dice che è una delle cose più deprimenti che deve affrontare ogni giorno. Perché la gente, si chiede, non riesce a capire che c’è altro oltre a un buco da riempire? Che dovrei fare per essere considerata più di un mero oggetto sessuale? A. va a scuola con B. che la mamma definisce un ragazzo sensibile. B. non è un brutto ragazzo, anche se lui si descriverebbe così. B. vede A. come un bel faccino da scopare, d’altronde è un bel faccino da scopare ma B. è anche innamorato di A., o almeno pensa di esserlo, anche se probabilmente è solo la combinazione di “bel faccino da scopare di A.” + “sensibilità di B.”. C. è stronzo. C. è bello e sembra poco sensibile, ma non sappiamo se è poco sensibile perché è bello o se è poco sensibile solo perché è stronzo. B. un giorno prende coraggio e si dichiara ad A. che gli risponde anche no e corre dalle sue amiche con il cuore di B. in mano lasciando a terra una lunga striscia di sangue. Poco dopo suona la campanella della ricreazione, C. entra in classe e dà una pacca sul sedere ad A. che gli urla qualcosa dietro ma poi sorride compiaciuta con le amiche. B. si convince ancora di più di essere brutto e che le donne siano tutte delle puttane e lo dice anche a sua mamma quando apre la porta del bagno e lo trova a piangere dentro la vasca. La mamma gli risponde che è vero, tutte le donne sono delle puttane, e poi lo stringe forte forte. A. pensa che C. sia bello ma è anche sempre stronzo con lei così si è convinta che, come tutti, la veda solo come una con un bel corpo e con un bel faccino da scopare. B. come dicevamo non è poi così brutto come pensa di essere e infatti D. ha una cotta per lui, ma non lo dice a nessuno, perché è grassa e pensa di non meritarselo. Anche B. pensa che sia grassa e infatti non la considera nemmeno per striscio nonostante sia un ragazzo sensibile e una volta abbia addirittura scritto nel suo diario segreto Chissà qual è il suono di un bacio non dato? Un giorno C., dopo una partita di calcio, si sta asciugando i capelli quando si accorge di non riuscire a smettere di guardare l’uccello di E. Ha come fame. E. se ne accorge e gli grida Cazzo guardi? C. comincia a soffrire per questa storia della fame che gli è venuta e più la reprime e più se ne vergogna. E più se ne vergogna e più va in giro a toccare il culo delle ragazze e a comportarsi come uno stronzo. E. un giorno riesce a convincere A. a uscire. Si presenta a casa sua con un mazzo di rose rosse e le fa mille complimenti per la sua bellezza, come se le dicesse che corpo che hai! E che bel faccino da scopare, ma lei in questo caso non se la prende, ne è addirittura lusingata, perché E. è bello e gentile. E infatti quella sera per premiarlo lei glielo prende in bocca (fare l’amore no, gli dice, è ancora presto) senza rendersi conto che si è appena fatta scopare il faccino. Nel preciso momento in cui E. riempiva la bocca di A. del suo liquido seminale, C. riempiva del suo un tubolare bianco che aveva sottratto di nascosto a E. durante l’allenamento, D. vomitava la sua cena dopo essersi ficcata due dita in gola provando per la prima volta piacere, mentre B. fumava di nascosto dietro casa la sua prima sigaretta. La prima di una lunga serie di sigarette post coito. Quello degli altri. Mentre fuma guarda il video che ha girato quel pomeriggio in cui si vede una tartaruga di terra che sta sopra a un’altra intenta a scappare. La tartaruga che è sopra allunga il collo nello sforza di riuscire a inserire, così immagina B., il suo piccolo pene sotto il guscio della femmina. A B. viene in mente l’immagine di due caschi da bicicletta che scopano, e sorride. La femmina continua a scappare e il maschio la insegue. La femmina va a destra e il maschio va a destra, la femmina va a sinistra e il maschio va a sinistra. Senza mai smettere di starle sopra. Il video dura diversi minuti durante i quali il maschio corre, cerca di stare in equilibrio sopra di lei e nel frattempo tenta di infilargli il pene sotto il guscio stando il più dritto possibile su due zampe. Fino a quando nell’inquadratura compare la scarpa di B. che si mette davanti alla femmina, interrompendo la sua fuga.

Fanta-Scienza 2, a cura di Marco Passarello

Quando Marco Passarello mi ha proposto di recensire Fanta-Scienza 2, secondo volume antologico da lui curato e edito da Delos Digital, non ho avuto un momento di esitazione. Ho parlato del suo primo esperimento anni fa, con entusiasmo e curiosità, reputando il risultato ben curato e davvero interessante non solo dal punto di vista narrativo, ma anche e soprattutto per la volontà di connessione tra il genere fantastico e l’attuale ricerca in campo scientifico e devo dire che il raddoppio non è stato da meno, anzi, a mio parere possiede una marcia in più.

Marco Passarello, per chi non lo conoscesse, vive e lavora a Bolzano come redattore della TGR RAI. È ingegnere aeronautico ed è stato redattore delle riviste di informatica Computer Idea e ComputerBild. Ha collaborato col settimanale scientifico Nòva 24 de Il Sole – 24 Ore e con la rivista Urania Mondadori. Ha curato una rubrica di fantascienza per il mensile XL, e si è occupato di musica e libri per Rolling Stone e Repubblica Sera. Insieme alla moglie Silvia Castoldi ha tradotto diversi romanzi, tra cui la serie Virga di Karl Schroeder per i tipi di Zona 42. Ha pubblicato numerosi racconti di fantascienza su riviste, fanzine e antologie.

La formula dell’antologia è la stessa: Marco ha intervistato diversi studiosi dell’Istituto Italiano di Tecnologia a proposito della loro ricerca, cercando di far emergere le questioni più spinose e speculative; poi ha girato le singole interviste ad altrettanti autori di fantascienza italiani, perché producessero un racconto ispirato ai loro percorsi di studio. Unica eccezione: in questo volume appare un nome straniero, nume tutelare del cyberpunk nonché ispiratore di visioni psichedeliche sempre vivaci: Bruce Sterling. Lo scrittore americano pare essere stato proprio la scintilla che ha convinto il curatore a lanciarsi nel progetto del secondo volume. Infatti nell’introduzione del libro, parlando di ciò che lo ha spinto a creare questo “sequel”, Marco confessa: “Credo che il motivo principale sia un piccolo episodio che dimenticai di citare nell’introduzione del libro precedente. Avevo raccontato che il germe dell’idea mi venne scrivendo per Repubblica Sera un articolo su Hyeroglyph, antologia curata da Neal Stephenson e basata su un’analoga collaborazione tra scienziati e scrittori. Avevo raccolto le opinioni in merito da parte di vari autori fantascientifici italiani e stranieri. Tra le più positive c’era quella di Bruce Sterling, che aveva firmato uno dei racconti inclusi in Hyeroglyph, e che mi disse: ‘Spero che altre istituzioni vedano la saggezza di questo sforzo e lo seguano. Se ci provasse un’università italiana, sarei il primo a festeggiare’. Fu proprio questa sua risposta che mi stimolò a chiedermi: chi in Italia potrebbe appoggiare la realizzazione di un’idea simile? Inizialmente mi dissi: nessuno! Ma qualche tempo dopo entrai in contatto con l’Istituto Italiano di Tecnologia, dove invece trovai un terreno fertilissimo per la realizzazione di Fanta-Scienza. Ma non è finita: dopo la pubblicazione del libro, mi venne l’idea di inviarne una copia a Sterling per ringraziarlo dell’ispirazione che mi aveva dato. Con mia sorpresa, lui ne fu davvero entusiasta e, quando poco tempo dopo lo incontrai di persona in occasione di Lucca Comics, mi disse: ‘Se ne farai un secondo volume, voglio esserci!’”

Ma al di là della presenza di un gigante come Sterling, ho avuto l’impressione che l’intero volume risulti stilisticamente e contenutisticamente più curato rispetto al precedente. E non parlo necessariamente della qualità dei racconti, che comunque a mio parere è molto alta, quanto della capacità di aver trovato temi talmente peculiari, specialistici ma allo stesso tempo estremamente multidisciplinari, che inevitabilmente, come origine delle storie, ne hanno a cascata migliorato l’originalità. E di certo, il fatto di essere una seconda esperienza avrà permesso al curatore di seguire una strada già in qualche modo tracciata.

Emerge come, anche in campi come quello della robotica o dello sviluppo dell’intelligenza artificiale (solo per citarne un paio tra i maggiormente classici per la fantascienza), i progressi scientifici reali ottenuti in questi anni abbiano portato a una maturità del paradigma davvero futuribile. Basti pensare alla consapevolezza che emerge dalle parole dei ricercatori riguardo al concetto di cooperazione uomo-macchina, o anche semplicemente al grado di raffinatezza sensoriale necessaria per ottenere un determinato risultato, una raffinatezza che permette non solo di interagire e costruire fuori dall’umano ma anche di conoscere meglio l’umano stesso, di dare meno per scontate le nostre capacità innate. Questa spinta nasce, sostiene il curatore, dall’“intersezione tra tecnologia e scienze umane” che permette di allargare l’orizzonte della scienza cosiddetta “dura” reinserendola in un ambiente allargato che coinvolge l’intera sfera delle nostre esistenze.

Non farò l’elenco degli autori né degli scienziati che hanno collaborato (potete trovare facilmente l’indice online), né decreterò un mio podio personale, sarebbe antipatico, oltreché inutile per l’obiettivo dell’antologia e di questa recensione. Come in tutti i volumi collettanei ci sono racconti (ma anche articoli, perché no) che vi piaceranno di più e che vi piaceranno di meno, ma quello che qui troverete è un arricchimento dei temi della speculative fiction che abbiano delle radici nell’attuale sviluppo tecnologico, in modo da avere una sorta di testo bicefalo dove l’avanguardia scientifica è riletta e reinterpretata, in tempo reale, da professionisti della narrazione fantastica, che ne faranno emergere, a modo loro, visioni epifaniche e oscure criticità.

Premolare 35

Quella notte il dolore era diventato insopportabile.
Marzio ancora non riusciva a concepire cosa fosse accaduto improvvisamente al suo premolare numero 35 della semiarcata inferiore sinistra (aveva imparato la classificazione tecnica dei dentisti curiosando su internet).
Che ogni giorno degli ultimi sette, da quando quel maledetto dente aveva iniziato ad ammalarsi, si ripetesse catatonico che né i suoi nonni paterni e materni, né suo padre e sua madre e né lui per i suoi primi quarant’anni di vita avevano mai avuto una carie a quelle piccole ossa masticatorie non bastava a consolarlo, ma anzi lo rendeva ancora più incredulo e arrabbiato
Sarebbe anche passato sopra al fatto che a qualcuno della sua genia prima o poi fosse accaduta una cosa del genere e che fosse malauguratamente successo a lui non lo toccava poi tanto. Quello che gli era impossibile comprendere, con tutta la fantasia e l’immaginazione addizionabile alla sua razionalità, era l’evoluzione di quello che stava accadendo al suo povero dente in quel lasso brevissimo di tempo.
Una piccola macchia nera era comparsa sul premolare come primo sintomo, e l’aveva notata a causa di una sensazione di intenso brivido freddo provata mentre beveva un bicchiere d’acqua appena fresca di frigorifero, nulla di anormale. Era un punto scuro minuscolo con un lieve alone giallastro sulla corona esterna del dente, appena sopra il colletto gengivale. L’aspetto del premolare, a parte quel piccolo moschino immobile, era buono; lo smalto era brillante e luccicava ancora di bianco orgoglio sotto la luce led della mensola superiore dello specchio in bagno, dove Marzio lo stava ammirando scorato.
Il punto nero c’era però, maledetto e inaspettato.
Quel pomeriggio stesso, Marzio era stato tentato di cercare subito un dentista, ovvio, ma non ne conosceva nessuno e aveva il terrore di doversi rivolgere a un medico sconosciuto. Tali considerazioni tarparono le ali a quella risoluzione logica e consequenziale avviata in fieri contro quella macchia. Non si diceva del resto nei proverbi popolari che se un problema lo si affronta quando è ancora piccolo lo si può risolvere con minor danno e minor dolore? Sì, aveva convenuto Marzio. Ma aveva sentito proprio in quel momento salire dentro di sé un sottile e strisciante malessere provocato dall’ipotizzare quello che avrebbe trovato dal dentista. Cosa avrebbe provato quando l’ago della siringa per l’anestesia locale avesse violato le sue rosee e immacolate gengive? Avrebbe avuto una reazione nervosa incontrollabile al rumore del trapano al momento dell’accensione e dell’avvicinamento alla sua bocca? E infine sarebbe stato assalito da un senso di schifo, non motivato vista la sterilizzazione, per l’aspiratore salivare che chissà quanti puzzolenti aliti avevano violentato con i loro miasmi prima di lui?
Erano tutti pensieri che si accavallavano l’uno sull’altro per spingerlo nel baratro dell’inerzia e dell’angoscia. Aveva deciso di lasciar passare qualche giorno prima di affrontare di nuovo l’idea di prendere un appuntamento.
La mattina successiva alla scoperta della carie si era svegliato di cattivo umore. Non li ricordava, ma era certo di aver fatto brutti sogni, si era girato e rigirato più volte nel letto dormendo a scatti. Quando la sveglia elettronica aveva trillato alle sei e trenta era nella terra di nessuno di un dormiveglia inquieto. Sua moglie Vanna era accanto a lui e ronfava della grossa; lei aveva minimizzato la cosa dopo che Marzio l’aveva edotta della novità e con il suo usuale pragmatismo gli aveva detto: «Chiama quel cazzo di dentista prima che la situazione peggiori». Aveva infilato le ciabatte e si era diretto in bagno per pisciare. La lingua gli sembrava un corpo morto marcito da giorni, allappava secca e maleodorante.
La lingua batte dove il dente duole.
Certo, aveva pensato Marzio mentre allocava il suo pezzaccio rosso di carne pendula sulla corona malata del premolare, durante la notte la lingua doveva essersi spennellata ben bene chissà quante volte sul dente, assorbendo quel saporaccio di patate fradice che evidentemente i patogeni sprigionavano.
Aveva affrontato lo specchio del bagno stavolta con timore, come se avesse già colto un vago presagio di cattive notizie.
Aveva trattenuto a stento un urlo.
La macchia si era allargata, irradiandosi su metà della corona dentale esterna. Il nero della carie trascolorava verso il marrone e il giallo ocra alla periferia del suo nuovo lotto di avorio conquistato; l’area infetta sembrava pulsare di vita propria esponendola ai riflessi della luce sotto varie angolazioni, aveva guadagnato una proporzione incredibile di superficie rispetto a poche ore prima!
Il generale Custer muove in ritirata sulla collina, il nemico avanza, minaccia l’accerchiamento, urgono decisioni urgenti o sarà una carneficina.
Marzio, immaginando la battaglia di Little Bighorn come triste metafora della situazione del suo premolare, aveva richiuso la bocca avvilito. Era uscito dal bagno, aveva fatto colazione. Non provava un dolore eccessivo, sempre il solito fastidio ai caldi e ai freddi. Un accordo con la vigliaccheria stava montando dentro di lui ed era pronto per essere siglato, lui che nella sua vita non lo era mai stato.
«Lasciamolo stare. Non posso credere a quello che ho visto. Sto vivendo un’allucinazione, sì è così… magari tra poco mi sveglio e tutto è passato… e se non succede non me ne frega un cazzo, non posso accettare che un mio dente si stia comportando così.» si era detto mormorando tra sé e sé in cucina, finendo il suo tè al limone.
Non ci tornò sopra fino a quella notte di mercoledì.
Si era svegliato quattro volte in preda ai dolori. Aveva masticato un paio di antidolorifici ma niente: il patimento restava insopportabile. Vanna si era alzata alle tre dal letto, mandandolo affanculo e andandosene a dormire sul divano del soggiorno.
La sveglia stavolta tacque, perché Marzio l’aveva fermata prima che suonasse. Si sentiva uno straccio. Immaginò la sua mandibola trasformarsi in un incudine ed essere presa a martellate senza motivo da un fabbro incazzato per le corna subite da sua moglie. Gli venne da abbozzare un mezzo sorriso, ma il dolore era così intenso da tramutarlo in un ghigno straziante. Dalla tapparella abbassata solo parzialmente i primi barlumi di luce filtravano nella stanza e lo aiutarono a uscire dall’abulia di quell’incubo oscuro ma reale, da quel tormento senza fine che era stata quella notte allucinante.
Erano passati sei giorni da quando non aveva più avuto il coraggio di guardare il dente allo specchio. Era terrorizzato all’idea di vedere quali evoluzioni avesse preso quel male nero che arricchiva i dentisti e portava alla perdizione dei sensi e della ragione i pazienti: le vittime di quelle vili aggressioni di agenti patogeni inizialmente invisibili, che cantavano poi in coro gli osanna al supplizio, stendendo il loro oscuro sudario sull’avorio immacolato.
Marzio constatò con amarezza, alzandosi dal letto, che i suoi occhi lacrimavano. Il suo non era un pianto comune però, era la resa finale alla codardia verso una nuova terribile forma di coraggio che non riusciva ancora a nominare.
Non avrebbe visto allo specchio cosa stesse diventando o fosse già diventato quel dannato premolare. Se lo figurò soltanto: lo vide schernito e vilipeso da milioni di batteri che si moltiplicavano come conigli in calore, mangiato fino alla polpa e alla radice in un baccanale senza fine, sentendo infine il raschiare insopportabile delle loro microscopiche bocche fameliche sull’osso mandibolare.
Si portò le mani tra i capelli sconvolti in elicoidali e appiccicosi assembramenti e li tirò verso l’alto, sperando che fossero come i fili di una marionetta scesi per un attimo all’interno della sua testa, muniti ognuno di un amo, per agganciare quel corpo osseo martoriato fino a trascinarlo via in qualche modo.
Desiderava con tutte le sue forze che quel miracolo accadesse, ma sapeva che non sarebbe stato ascoltato da nessuno. Che le cose sarebbero solo peggiorate. L’umiliazione era devastante, e se la immaginava nelle risate sommesse alle sue spalle del dentista e dell’assistente se si fosse presentato sulla poltrona del calvario, nel momento in cui avesse aperto la bocca per mostrare al mondo la sua portentosa carie. Se la immaginava nello sfottò maleducato di sua moglie Vanna con quelle troie delle sue amiche, che probabilmente aveva già messo in atto allo smartphone da giorni.
Non era una situazione accettabile, da qualsiasi lato la si investigasse.
Restava un’unica soluzione.
Marzio si diresse alla porta finestra della camera da letto, l’aprì, issò la tapparella e uscì sul terrazzo che si affacciava dal quinto piano sul cortile interno della palazzina. L’alba stava guadagnando spanne di luce all’oscurità, l’aria era fresca e pungente, ma questi erano dettagli che i suoi occhi e i suoi sensi registrarono solo come l’ultima mera constatazione della sua presenza tra i vivi.

Il patologo aveva svolto il suo lavoro all’obitorio con la solita alacrità. L’ultimo corpo che aveva sottoposto ad autopsia quella sera era stato quello di un giovane uomo di quarant’anni, un certo Marzio Fulcroni, che si era gettato dal balcone del suo appartamento per motivi ignoti.
Tra le note particolari del suo responso autoptico, solo una cosa lo aveva colpito… non le fratture multiple scomposte di braccia e gambe e non lo schiacciamento del cranio che aveva fatto collassare il cervello facendo schizzare dalle orbite gli occhi come due pupazzi a molla. La cosa che non lo avrebbe fatto dormire per diverse notti erano le condizioni delle arcate dentali: ben trentuno denti compresi quelli del giudizio erano completamente cariati, neri in ogni loro parte, come se quell’uomo avesse fumato per dieci vite dieci pacchetti di sigarette senza filtro al giorno… solo un dente, il premolare 35, era intonso, perfetto, intatto, e il suo avorio luccicava magnetico e bellissimo come un diamante.

Illustrazione di Horacio Quiroz

Il verso dell’assiolo, di Davide Pappalardo

Ho già parlato di Davide Pappalardo su Wired, ben tre anni fa, in occasione dell’uscita del suo romanzo Che fine ha fatto Sandra Poggi?, e già allora avevo tessuto le lodi di Davide, narratore efficace e tagliente che si riconferma fine descrittore di psicologie e di trame ingarbugliate con questo suo Il verso dell’assiolo, romanzo quantitativamente più consistente del suo predecessore, pubblicato sempre da Pendragon, nella collana gLam, diretta da Gianluca Morozzi e Alessandro Berselli.

Davide Pappalardo è un autore siciliano, classe 1976 e ha altri due romanzi alle spalle, Milano Pastis del 2015 e il noir Buonasera (signorina) dell’anno successivo, nonché un’antologia di racconti, La versione di Mitridate.

La trama di questo nuovo romanzo è presto detta: tre amici d’infanzia partono dalla Sicilia per celebrare l’addio al celibato di uno dei tre, nel nord est d’Italia. Tre uomini che da adulti sembrano volersi ritrovare a tutti i costi, quasi fosse un’imposizione, una tradizione obbligata, eppure le criticità tra i loro rapporti non tarderanno a rendersi palesi, soprattutto a seguito di un evento che per forza di cose li sconvolgerà. Durante la serata, i tre faranno bisboccia in un pub, indossando una maschera di Trump e dando fondo alla loro goliardia non mancando di farsi notare dalla gente del posto. Nello stesso momento altri tre individui, tre criminali, tra cui il parroco della chiesa, scardineranno un bancomat uccidendo una guardia giurata che li ha colti in flagrante.

Il pretesto è lanciato, la miccia accesa, e il lettore, a questo punto, pensa già di sapere cosa gli aspetta: indagini e inseguimenti da parte della polizia, scambi di persona, confessioni, magari altre sparatorie… ma le cose non andranno così, non in questa maniera almeno. L’autore infatti dà vita a un ulteriore colpo di scena (che non svelo) che farà passare in secondo piano la casualità del travestimento e darò alla fuga dei tre amici – perché una fuga ci sarà, addirittura in Slovenia – un’altra causa, ben più grave. Inoltre nella storia non manca occasione per scavare nella psiche dei personaggi, nei loro rapporti intricati, portando a galla tutti i dissapori, i non detti, e i contrasti che hanno le loro radici in un passato più o meno oscuro. Compagni di una vita che sembrano esserlo solo di facciata, stretti da uno strano legame che non può essere sciolto, in un continuo andirivieni di flashback della loro giovinezza, la maggior parte dei quali ambientati durante l’alluvione di Acireale del 1995.

Il verso dell’assiolo si configura quindi come un romanzo più maturo, sebbene il suo predecessore sia assolutamente degno di nota. Qui però Davide sembra lasciare un attimo da parte le dinamiche poliziesche, riducendole all’essenziale per lo svolgimento della narrazione, e si concentra, sin dalle prime pagine, sul rapporto tra i tre amici coinvolti per sbaglio, per pura fatalità, in un crimine. Un errore che diventa la scintilla che fa saltare in aria relazioni (anche extra amicali) assolutamente precarie (e spesso ipocrite), e un crimine che si configura paradossalmente come una possibilità, una chiave per interpretare finalmente i loro desideri.

Una scintilla, o meglio ancora un piccolo urto tra le nubi, che può causare un temporale devastante, un disastro meteorologico come quello degli anni Novanta, metafora della distruzione di un legame che si credeva (ma si credeva solamente) indissolubile.

Vessel – Tafur Armageddon, di Caleb Battiago

Battiago torna con la narrativa breve e lo fa con una fulminante novella di Vessel, seguito ma alla stesso tempo autoconclusiva come la prima; Vessel, truce Tafur (cioè appartenente alle feroci bande di straccioni che a seguito della Crociata dei poveri, seguivano gli eserciti commettendo le più abbiette azioni) le cui gesta vediamo iniziare all’inizio della Prima Crociata. Il primo titolo, di cui abbiamo già parlato qui su la nuova carne, è VESSEL – Terra Santa Pulp, ora invece possiamo emozionarci con la narrativa evocativa del nostro con un secondo volume intitolato VESSEL – Tafur Armageddon. 

Sempre nell’Edizione Collection di Independent Legions Publishing, cioè pregiato volume con alette e illustrazioni interne del famigerato Cardoselli (anche copertinista), questo nuovo racconto lungo è ambientato qualche anno dopo dalla prima storia. Siamo tra il 1101 e il 1102 e alla Prima Crociata succedono una serie di campagne feroci nelle quali Longobardi, Francesi e Tedeschi si contendono il campo col Sultano turco Arslan, in Anatolia. Vessel e la sua banda di cannibali e depravati si sposta poi a Cesarea e qui finiscono per essere partecipi dell’apparizione con niente popò di meno che il Sacro Catino, il piatto dove Gesù ha mangiato l’agnello arrosto dell’Ultima Cena. Le avventure non finiscono, la banda avrà anche l’ardire di penetrare nella fortezza di Alamut, la montagna degli Assassini… Insomma, la peculiarità di questo volume, insieme al primo, è di riuscire a creare un fantasy dark storico, con forti basi documentate e una fantasia allo stato brado nello stesso momento. Non mancheranno descrizioni di battaglie feroci, sangue à go go, momenti tenebrosi e qualche spruzzata di umorismo caustico qua e la, marchio di fabbrica di Battiago.

Una storia di ampio godimento, che intreccia miracolosamente Storia e pulp fantastico.

Siamo già avvezzi alla padronanza della lingua narrativa di Battiago, alla sua originalità di generi ibridi, alla forza suggestiva del suo mescolare alto/basso come in un tornado di input  dosati in modo magico. Con questo libro non vi è che l’ennesima conferma.

Sappiamo che Vessel tornerà: l’autore ha confermato che vi saranno almeno altri tre volumi che formeranno con i primi due una pentalogia che insieme delineeranno alla perfezione questo fantasy hard, la carrellata da Gran Guignol delle Crociate del Tafur Vessel. Dunque noi novocarnisti non possiamo aspettare le nuove storie di Vessel con trepidazione ed estremo piacere.