Psicosi

Puglisi non fece in tempo a trattenere il respiro. Il miasma feroce di un cocktail di decomposizione, merda, piscio, umori rancidi lo violentò. Con un gesto secco si fece passare una mascherina da un appuntato solerte.
Si guardò intorno. Il corridoio era asettico, neanche un mobile, una sedia, niente appeso alle pareti. Pavimento pervinca a macchie bianche, luce bianca fredda da una plafoniera. A sinistra la piccola cucina: piano cottura e lavandino immacolati, nessun utensile a vista, nessun oggetto. Una mensola vuota unico complemento d’arredo.
– Il casino è di là signor maresciallo- Proseguì. Di fronte all’entrata del soggiorno un foro di proiettile sulla parete sporcava il corridoio. Entrò senza badargli. L’aria si fece sensibilmente più densa, palpabile. Un mobile sfondato riverso al suolo, forse una credenza arte povera, sedie rovesciate, il tavolo ribaltato davanti al divano di fronte alla porta. Piatti incrostati, fazzoletti ovunque, merda di parecchi giorni in un angolo coperta male da un cartone. Bottiglie piene di piscio, una delle quali probabilmente rovesciata da un piede che sbucava da dietro il tavolo.
– Gino Rizzi, 44 anni, incensurato, residente a Lago di Cela, celibe – intervenne l’appuntato Marte – La morte risale più o meno a tre giorni fa. La vicina ha chiamato il pronto intervento per l’odore.
– … –
– Affittuario da un mese – continuò con aria solerte – Abbiamo sentito i vicini: uomo tranquillo, mai un rumore, sempre in casa, forse uno studioso –
Il maresciallo rise osservando la completa assenza di libri, o di materiale di alcun tipo, esclusa l’immondizia.
– Uno studioso. Di cosa, appuntato, per esempio? Sia esauriente. – L’appuntato arrossì, perse il filo dei suoi pensieri.
– Co-comunque solo un inquilino ha… ha… scambiato ecco due parole con il Rizzi, ci parlava ogni tanto, ecco, signore- continuò l’appuntato guardando il pavimento –cioè, non un inquilino, il… il portiere, ecco, comunque sempre e solo del tempo, dice che prevedeva perfettamente la pioggia… Per il resto, ecco, un tipo come dire… silenzioso, riservato. –
Il solito cliché dell’uomo qualsiasi che manda avanti il baraccone della cronaca nera.
Aggirò il tavolo: il suicida era un piccoletto in mutande, grigio e villoso, sdraiato sul fianco destro, completamente sudicio dove non coperto di sangue. Barba lunga, capelli sbiaditi e arruffati. Il volto irriconoscibile: si era dovuto sparare due volte, un colpo gli aveva sfondato la mandibola, cancellato lo zigomo ed era uscito con l’occhio destro; l’altro era entrato dalla bocca e uscito dal centro del cranio. L’unico occhio rimasto, terrorizzato e grigio, aveva drenato un torrente di sangue.
– Solo uno squilibrato può fare una fine così…- mormorò l’appuntato, un’occhiata del maresciallo lo eclissò dalla stanza.
Arrivarono gli uomini per i rilievi e il maresciallo Puglisi si dileguò veloce dall’atmosfera fetida di quella stanza. La noia di un lavoro inutile, l’irritazione per il tempo sprecato, lo abbandonarono durante un brivido. Con lo sguardo fisso sul foro di proiettile sulla parete del corridoio, provò un’improvvisa simpatia per il povero Rizzi. Non è poi tanto improbabile che un uomo possa ridursi in quel modo, molteplici sono le vie che conducono alla follia, spesso sarebbe più strano rimanere normali, imperturbabili. Niente di strano sotto il cielo, un trauma, magari, impazzire e non interessarsi più di nulla, vivere solo di rimuginazioni, di fantasie e solipsismo. Forse Rizzi era stato una persona normale, un lavoro normale, un posto nella realtà, un uomo come tanti, come lui. Impazzito per una donna, perché no, certo in un modo diverso dal suo, fatto di rimpianti, di tristezze, di autocommiserazione, bensì orrorifico, allucinato, crudele. Infinite sono le vie. Quell’uomo evidentemente non era stato una facile preda della depressione come il maresciallo, ma scardinato dal suo modo di essere dal panico, dal terrore. Lo diceva quel tavolino rovesciato per costruire un baluardo verso l’ingresso, quel colpo esploso contro nessuno, la mano che gli aveva disubbidito quando aveva provato per la prima volta a togliersi di mezzo. I disturbi, tutti, sono facce della stessa medaglia, un tiro di dado con ciò che ti è toccato in sorte. Chissà cosa l’aveva reso così. No, qui probabilmente la storia non era riconducibile a una donna, nessuna causa così banale, prevedibile. Sicuramente c’era da riempire il vuoto di quell’appartamento con qualcosa di allucinato, contorto. C’era forte il puzzo della persecuzione, c’era un nemico. Il povero Rizzi aveva fatto fuoco verso l’ingresso, voleva uccidere, prima di tutto.
Il maresciallo proseguì il suo giro per l’appartamentino. Ringhiò quando vide vomitare uno dei suoi. Sulla sinistra, poco più avanti della sala, si trovava la camera da letto. Infilò lentamente i guanti. Stava pensando a quando Anna l’aveva lasciato: quelle settimane deserte in cui non gli riusciva neanche di accendere la tv, leggere qualcosa, rispondere al telefono; sgranò gli occhi quando ripensò a quei secondi con la canna della pistola in bocca, a quanto gli sembrava giusto e inevitabile il sapore del metallo. La follia può essere molto più lucida e consapevole della ragione.
Notò senza stupore che la camera da letto aveva lo stesso aspetto delle altre stanze: completamente vuota, non un dipinto o un quadro, neanche le lenzuola. L’armadio era deserto, un velo di polvere uniforme come il comodino, mai utilizzati. Quell’uomo non possedeva nulla, era come se in quel mese avesse vissuto solo tre o quattro giorni in sala: non c’erano telefoni, computer, tv, radio, giornali di nessun tipo. Niente, nessuna traccia, nessuna proiezione della propria identità, Rizzi era interamente ripiegato su se stesso.
Entrò nel bagno. Lo stupirono delle lievi tracce di calcare nel lavandino, doccia e bidet immacolati. Il water rivelava qualche pelo, nulla di più. Nessun asciugamano, neanche carta igienica o sapone. Si sentì chiamare dall’appuntato: – Maresciallo abbiamo trovato questo. –
Un’agendina nera con una penna infilata. Puglisi sorrise rigirandola tra le mani: voleva sapere, possedere la storia. Voleva circoscrivere quella follia, impadronirsene, detestarla, piangere, vomitare.
Il maresciallo sfogliò le pagine con delicatezza. La prima cosa che notò era la calligrafia microscopica e poco leggibile, una faticata, ma non vedeva l’ora. Mancavano molte pagine, almeno i tre quarti: si vedeva chiaramente che erano state strappate. Metodicamente, una alla volta.

01/03/07
Ora è sicuro, devo fuggire, mi hanno scoperto. Non so cosa mi faranno, ma sono terrorizzato, questa non è gente con cui discutere. So anche che non dovrei continuare a scrivere di loro. Questo diario ha visto troppe cose. E il Tecnico ora sa.
Stamattina lo stavo spiando mentre faceva finta di lavorare rivolto alla farmacia. Ero seduto con il giornale in mano mentre cercavo di capire chi stesse osservando dall’alto del suo palo della luce. Mi sono distratto pochi istanti per accarezzare un cane che si era avvicinato per annusare qualcosa tra le mie gambe e da quel momento ho sentito i suoi occhi su di me. Sentivo che mi fissava, cercai di impormi di far finta di niente mentre il mio sangue stava congelando. Non sono stato bravo a dissimulare le mie emozioni, e il Tecnico se n’è accorto subito. Ho fatto un goffo tentativo di stiracchiarmi per fingere nonchalance, mi sono alzato troppo alla svelta e mi sono incamminato troppo lentamente. I suoi occhi erano coltelli appuntati alla mia schiena. E’ quasi notte ora, aspetto il momento buono per tornare a casa, prendere tutti i soldi e fuggire lontano. E quando arriverò, sono sicuro che mi staranno aspettando. Mi dispiace molto per M., non potrò più mandargli le mie relazioni sulla loro attività. Sono spacciato.

02/03/07
Non posso fare a meno di scrivere di questa storia. Ho dovuto rinunciare a tutte le forme di soggettività e socialità, alle abitudini. Sono scomparso dal mondo per risultare invisibile a chiunque, tutto inutile… Il diario è l’unica cosa che mi trattiene in contatto con me stesso, che media tra la paura che mi paralizza il corpo e quel residuo di razionalità rimasta. Scrivere mi mantiene lucido, dà una parvenza di realtà a questa vita di lugubri consapevolezze che giorno dopo giorno somigliano sempre più alla follia. Comunque il mondo non è messo meglio di me, ho pietà dei suoi abitanti sciatti e inconsapevoli.
Ora sono in treno, voglio provare a sfuggire loro in città, non ho abbastanza energie per andare all’estero evitando aerei, navi e polizia. Ma non so se basterà, ma è pur sempre qualcosa.

03/03/07
Tutto inutile, a freddo non ne sono affatto stupito. Mi hanno seguito, nell’ansia della fuga non sono stato attento. Ho passato la notte in una via solitaria a venti minuti dalla stazione, mi sono sentito al sicuro. Stamattina mi sono attivato presto e sono partito alla ricerca di un affitto in nero; ho scelto una zona precisa, in una periferia a caso, un’area circoscritta in modo da non dover stare troppo in strada. Ero ansioso di chiudermi in una stanza, ripulirla immediatamente di tutti i loro strumenti di controllo e sigillarmi finché non si fossero dimenticati di me.
La leggerezza del mio umore è durata poco. All’entrata delle scale che portano alla metropolitana c’era lei, incubo vivente, la Vecchia, con il suo fazzolettone viola sbiadito sul capo, le buste della spesa poggiate a terra. Panico. Mi sono voltato e ho cominciato a camminare nella direzione opposta con il cuore che provava ad uscire dalla bocca, le gambe che non andavano. Sentivo nitidamente quella maledetta sghignazzare in mezzo al brusio della folla che si accalcava, era forse un’allucinazione causata dal terrore. Perduto nel delirio della paura, mi sono nascosto per ore nel primo luogo al chiuso: quando sono tornato lucido, ho realizzato che mi trovavo in un nauseabondo bagno pubblico di un parchetto pieno di tossici.
Fortunatamente ho riacquistato in tempo un po’ di lucidità. Alcuni ragazzi mi ridevano dietro, credo mi abbiano scambiato per un pazzo a causa dei miei vestiti sudici e del mio aspetto delirante. Pensavo disperato alla Vecchia, figurandomi senza tregua la sua immagine terrificante, non avevo più chance di mettermi quei bastardi alle spalle… Mi sono ritrovato in lacrime, singhiozzavo in quel bivacco di gioventù consumata. Sono riuscito a placarmi a stento; poi il terrore mi ha spinto da un africano, probabilmente lo spacciatore del parco. In altre situazioni non credo avrei trovato il coraggio di fare una cosa del genere, ma la disperazione ha vinto ogni timore: ho comprato una bustina di eroina con la convinzione di porre fine alle mie angosce, l’ho tenuta un attimo in mano, poi l’ho buttata davanti ai suoi occhi, causando una lotta ai miei piedi tra tre fantasmi che si trovavano lì. Poi mi sono avvicinato e gli ho detto all’orecchio che mi serviva una casa e una pistola. Gli ho dato appuntamento a domani, stessa ora stesso posto, promettendogli molti soldi in cambio dei suoi servizi. Non mi faccio illusioni. So che verrà e mi ruberà tutto, anche perché tutto quel coraggio è sparito… o, magari, mi ucciderà… spero che qualsiasi cosa vorrà fare di me, la faccia alla svelta.

– Ragazzi, me ne vado. Continuate senza di me. – Puglisi si sentì schiacciato dalla paranoia che affogava quelle pagine, decise di mollare. Un suicidio come un altro, non valeva la pena di sprofondare in quel malessere, per cosa poi? Pietà, empatia? Verso chi? Infilò l’agendina in una busta e la gettò nella cassetta dei reperti. Imboccò le scale velocemente, rendendosi conto che il lezzo che trasudava da quell’appartamento cominciava a colpirlo duro allo stomaco. Ma giunto all’atrio del palazzo si fermò. No, ormai non poteva. Si sentiva vinto, trasportato. Si immaginò quel povero cristo sperduto nella città, immobilizzato dal terrore, non poteva lasciarlo solo: non poteva più salvarlo, ma poteva accompagnarlo. E il maresciallo si ritrovò di nuovo in quella casa nauseante a fissare ebete la cassetta dei reperti, ignaro degli sguardi furtivi dei colleghi. Solo un leggero affanno lo riportò alla realtà, stupefatto si rese conto di avere corso per le scale. Arrossendo, afferrò in fretta l’agendina balbettando qualche parola per giustificarsi di fronte a nessuno, poi corse finalmente alla centrale.

04/03/07
L’africano è stato di parola. Ho vagato per tutta la notte in preda alla febbre, cercando vie deserte per non ritrovarmi a cercare i volti dei Tre sui passanti, aspettando la mattina con un’ansia simile alla sete. Alle 12 ero tremante sul posto, e il nero c’era, mi aspettava. Ha fatto cenno di seguirlo, siamo saliti in macchina e abbiamo girato per quasi un’ora nel traffico. Ero certo che mi avrebbe portato in un posto isolato per farmi fuori in sicurezza, così nel tragitto mi sono finalmente rilassato perso in una qualche nostalgia, in ricordi che non pensavo più di possedere. L’ansia della preda aveva ceduto il passo ad una piacevole tristezza, alla malinconia di un passato mai vissuto: finalmente la morte, la pace. Ci siamo fermati davanti a un vecchio palazzo. Entrati in un appartamento spoglio, il nero con fare frettoloso ha appoggiato la pistola sul tavolino del corridoio. Gli ho dato una busta con i 10000. Non li ha contati, mi guardava quasi con timore. Mi ha riferito in fretta che il padrone sarebbe passato ogni sedici del mese per l’affitto, poi è svanito. Ora sto assaporando la sensazione più simile alla felicità che possa provare. Mi sono subito liberato di tutti gli elettrodomestici, chiuso tutte le imposte; sono solo con il mio diario: forse ci sono riuscito, forse quei tre non mi avranno.

08/03/07
Sono affranto. Uscito la prima volta dopo quattro giorni, l’Uomo Qualunque mi ha trovato subito. Ho pianto per ore in un parcheggio sotterraneo. Com’è possibile? Come fanno? Non si tratta di esseri umani, ne sono quasi certo ormai. Chiuso per quattro giorni in casa, esco per rendermi conto del mondo, per respirare, e dopo neanche cinque minuti vado a sbattere addosso all’impermeabile di un uomo che si arresta improvvisamente, ed era lui! Nella folla non l’avevo riconosciuto, troppo facile per lui giocare con me. Comincio a sospettare che mi abbiano messo un rilevatore sottopelle, o qualcosa del genere. Prima di morire voglio scoprirlo per far arrivare a M. qualcosa di veramente utile, dopo anni di sterile osservazione. Ma non so se me ne concederanno il tempo.

12/03/07
Sto affogando nella paura. I propositi di un gesto di una qualsiasi utilità stanno sfumando, non saprei da dove cominciare. Per essere d’aiuto dovrei almeno vederli prima che vedano me, seguirli, farli diventare le mie prede, almeno per un po’. Ma come posso? Dovrei batterli sul loro campo, sono dei maestri in questo. Cadrei nelle loro grinfie al primo angolo della strada.
Sono chiuso in casa dall’incontro con l’Uomo Qualunque, guardo dalla finestra ogni cinque minuti per scoprire se sanno dove abito, cosa che comunque credo sia solo una questione di tempo. Ho scritto un rapporto per M. dicendogli che a breve sparirò nel nulla, che sono pronto a sacrificarmi pur di scoprire qualcosa di veramente utile. Dopo tre giorni in cui non sono stato capace di andare a spedirlo, l’ho strappato e ho pianto per ore. Sono sfinito, M. non deve aspettarsi niente da me.
Sparirò nell’oblio in cui mi hanno relegato quei mostri.

14/03/07
Sapevo che sarebbe andata così, ho avuto giorni per prepararmi all’idea. La Vecchia, che sia maledetta. La Vecchia ha seguito ogni minima traccia, ha annusato il tanfo della paura e poco fa era sotto la mia finestra, sul lato opposto della strada. Non so se sappiano di questo appartamento, ma sono arrivati qua sotto in così poco tempo! Anche se appena l’ho vista il cuore per poco non mi è andato in frantumi, ora sono stranamente tranquillo, pronto all’ineluttabile. E non temo più nemmeno di uscire allo scoperto. Spero che il mio umore rimanga così per qualche tempo, aspetto solo che la noia che mi devasta mi spinga all’azione, anche se ancora non mi immagino nella realtà, io di fronte a loro, la pistola. So solo che li odio.

18/03/07
Tappato in casa al buio li osservo dalla finestra da giorni, senza fare un movimento. Ora sono sicuro che sanno, ma non capisco cosa aspettino per colpire. Si danno il cambio e mi tengono d’occhio per la maggior parte della giornata.
La Vecchia è quella che appare più spesso, mi posso godere il suo ghigno tutte le mattine. Il Tecnico è comparso l’altro ieri per la prima volta da quando sono venuto in città. Era pomeriggio presto e, quando l’ho visto intervenire sul parchimetro all’angolo della strada sono scoppiato a ridere. Sono quasi affezionato a lui ormai. L’ho studiato per talmente tanto tempo che conosco la cadenza di ogni suo gesto, ogni espressione affettata di impegno nel lavoro, ogni sguardo.
L’Uomo Qualunque è il più inafferrabile. Sono riuscito ad intravedere il suo impermeabile un paio di volte senza la sicurezza che fosse lui, sempre mischiato tra la folla delle ore di punta. L’Uomo Qualunque mi incute più timore degli altri, è incontrollabile: è un nessuno che potrebbe essere ovunque, anzi, è ovunque. Ha un’aura sovrannaturale, malvagia una nemesi invisibile. Nei miei incubi vedo la Vecchia che sghignazza davanti a me, mentre l’Uomo Qualunque è sempre alle mie spalle, senza un volto, senza una caratteristica che lo renda umano, che faccia di lui un individuo.

21/03/07
L’insonnia mi sta giocando brutti scherzi. Stamattina nel dormiveglia sento suonare il campanello della porta: preso dal panico ho cominciato a correre per casa in cerca della pistola, che naturalmente ho addosso dal giorno in cui l’ho avuta. Acquistato un minimo di lucidità, mi sono diretto allo spioncino: quel fazzolettone viola, quel viso maschile, orribile. Quel ghigno. La Vecchia alla mia porta. Colto dal panico sono rimasto paralizzato, non so se quello che è successo dopo sia stato sogno o realtà. Ricordo di avere deciso che quella era un’occasione irripetibile. Le avrei sparato e poi sarei fuggito. E se non avessi conseguito il successo in una delle due cose, avrei posto subito fine alla mia ormai inutile esistenza. Ho sbirciato nuovamente e l’ho ammirata per la prima volta da così vicino, inebetito, fissando quella maledetta espressione crudele. Così, senza pensarci sopra ulteriormente, ho spalancato la porta e premuto il grilletto ad occhi quasi chiusi. Alla porta non c’era nessuno, solo sentivo un lieve eco di passi scendere le scale da basso. La pistola aveva la sicura. L’ultimo ricordo è che chiusi la porta con cachinno nella testa a coprire qualsiasi pensiero. Poi mi sono svegliato steso nel corridoio, con la pistola ancora ben salda nella mano destra. Alzai gli occhi al filo del campanello che passava da sopra la porta: era tranciato di netto, come avevo fatto appena messo piede in questa casa. Inizio a pensare che la psicosi sia una conseguenza inevitabile di quello che sto vivendo da anni, anche se ormai una vocina nella mente inizia a sussurrarmi che potrebbe esserne la causa. Solo M. lo sa.

Ora la calligrafia era diventata illeggibile. In mezza pagina solo poche parole potevano essere intuite. Puglisi si concentrò su ogni parola, ogni sillaba. Frustrante non potere giungere alla conclusione del travaglio di quell’uomo: voleva una conclusione in quel delirio, ne aveva un bisogno fisico. Prese una lente d’ingrandimento e con una buona dose d’interpretazione riuscì a comprendere chiaramente solo degli stralci a inizio pagina, come “diario pericoloso per tutti” o “sparire altrimenti”, “per me cominciò così”, “scrivo ancora condannerò altri”, ma da questo punto in poi desistette, neanche con la fantasia più sfrenata sarebbe potuto venirne a capo. Il maresciallo ora era stanco. Si rese conto che quel raccapricciante delirio mattutino lo aveva sfiancato, per giunta il suo turno era finito da almeno un’ora. Così, evitando il suo riflesso nel vetro della porta degli uffici, si diresse alla macchina. Svuotato, meccanico, dovette partecipare ad ogni movimento per non arrendersi all’inerzia di un pensiero confuso quanto tremendo che gli montava dentro.
Poi Puglisi corse. Pestava sull’acceleratore addirittura tentato di esporre la paletta per farsi largo, gli serviva un rifugio, subito. Non gli era mai successo. Di solito appena finiva il turno si godeva quel viaggio di mezzora circa, amava guidare, perdersi nel flusso dei pensieri. Inazione autorizzata, necessaria. Ma in quel momento un’inquietudine soverchiante non gli lasciava respiro. Quel fetore viscoso lo ossessionava, il povero Rizzi, il foro di proiettile che apriva un varco in quell’appartamento asettico, una finestra sulla psicosi, su quel diario diventato incomprensibile quando avrebbe dovuto spiegare, dare un senso, nettare.
Entrò in casa di slancio, si spogliò, rinunciò alla doccia, si vestì. Aprì il frigo, lo chiuse, lo riaprì e rimase impalato per cinque minuti catalogandone minuziosamente il contenuto, per concentrarsi poi sulle macchioline delle guarnizioni, lo richiuse. Si tuffò sul divano, accese la tv. Mise come d’abitudine sul canale delle notizie, poi cambiò canale un centinaio di volte senza riuscire a deviare il sinistro corso dei suoi pensieri. Pensava e ripensava alla scena, quel soggiorno, la sua memoria tentava di analizzare minuziosamente ogni aspetto, le bottiglie con il piscio dentro, la merda all’angolo, quello stramaledetto foro di proiettile, il diario; quelle poche parole finali che era riuscito a decifrare gli giravano nella testa “diario pericoloso per tutti” “per me cominciò così” “scrivo ancora condannerò altri”. Spense la tv e si alzò di scatto, ora malediceva Rizzi e la sua esistenza inutile, possibile che era bastato così poco per aprire una crepa? Ora era pentito di essere tornato a casa, ripartire per la centrale, rileggere, scavare tra le pieghe del non scritto. Quando infine si sentì patetico, quando riuscì a vergognarsi di sé stesso, del suo controllo così precario, riuscì a scuotersi: afferrò la cornetta del telefono e fece il numero di Luca. Luca non rispondeva. Mentre bestemmiava verso il suo amico, Puglisi andò alla finestra: lo sguardo del maresciallo ora era affamato della normalità delle vite dei suoi vicini. I due bambini dei Galli giocavano in giardino, una confusione come fossero in dieci, la splendida coupé nera dei Giannini occupava due parcheggi come al solito, la bella signora Giannini indaffarata con il cane, il signor Faraoni che come ogni giorno innaffiava il giardino con l’acqua del comune, una vecchia signora sul lato della strada con le buste della spesa che guardava l’orizzonte, forse aspettava qualcuno che la stesse venendo a prendere, il traffico pigro. Puglisi sorrise a questa visione di rinfrancante quotidianità, non ancora sazio della cura che gli somministrava. E spostò il suo sguardo un po’ oltre, la casa dei Poli, con dietro le finestre il movimento rassicurante di vite prive di interesse. Una scala poggiata sulla facciata laterale. Un tecnico seduto sul bordo del tetto accanto all’antenna parabolica, occhi immobili che lo inchiodavano da lontano. Il telefono scivolò dalle mani del maresciallo Puglisi.

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