Monstrumana, effequ

La parola “mostro” non è stata sempre usata per identificare qualcosa di orribile, spregevole, dato che in origine denominava semplicemente un “fatto, evento o persona portentosi, eccezionali, in senso sia positivo sia negativo”. Un mostro quindi è un “portento”, qualcosa che travalica le leggi della consuetudine per apportare, con la sua unicità, modifiche positive o negative alla società. Arricchirla? Abbrutirla? Chi lo sa, certo è che dopo l’avvento di un “mostro” niente sarà più lo stesso. Nella letteratura la creatura di Frankenstein ha dato un bel calcio al gotico dei castelli umidi e delle apparizioni spettrali per elargire materia di riflessione sull’etica scientifica. Di certo questo esempio è il più eclatante se si parla di creature letterarie al di fuori di ciò che viene ritenuto normale, ma il mondo delle storie riserva personaggi mostruosi che non sono semplici villain, né pure star da Freak show, come invece erano stati etichettati finora. Dracula, sotto questa prospettiva, non è un semplice succhiasangue, così come Mr. Hyde non è il semplice risultato di un esperimento.
Di scandagliare, sondare e reinterpretare la figura del mostro, si occupa il saggio che mi appresto a recensire quest’oggi, ovvero “Monstrumana” di Francesca Giro e Gaetano Padano, edito da effequ. 


Già dal titolo abbiamo la conferma che l’opera vuole avvicinare mostri celebri della letteratura agli esseri umani, come se noi non stessimo osservando uno strano fenomeno come “altro”, ma come se ci guardassimo allo specchio. I mostri presi in esame, infatti, vengono interpretati come la proiezione a livello più o meno sommerso della società e dei suoi mutamenti, dei tabù e dei turbamenti dell’essere umano.
L’opera presenta diversi mostri celebri a cui sono dedicati tre saggi che ne approfondiscono il background o tentano di dare un’interpretazione della loro genesi.
Il primo mostro celebre analizzato è il mostro di Frankenstein, e nei tre mini-saggi che lo riguardano vengono narrate le sue origini letterarie, il rapporto con il concetto di maternità che aveva Mary Shelley e la scandalosa richiesta della creatura al suo creatore affinché gli venga creata una compagna. Il più ricco di spunti mi è apparso questo ultimo tema , dato che molti degli episodi sulla vita dei coniugi Shelley erano noti e forse più interessanti per i neofiti.
Da un’autrice inglese si passa poi a un autore francese, Hugo, quando viene analizzata la figura del Gobbo di Notre Dame, la sua figura deforme e come essa viene percepita dalla società. Qui gli studi tra la vita privata di Hugo e l’analisi di come il gobbo agisce nel romanzo li ho trovati molto più bilanciati rispetto ai precedenti fra il senso di meraviglia suscitato da aneddoti curiosi e la riflessione stimolata invece su ciò che nasconde il mostro.
Lo shakesperiano Calibano è invece protagonista del terzo saggio, affascinante per via dell’analisi sulla lingua parlata dal mostro e come essa venne riprodotta nelle varie versioni del dramma fino a oggi. Le riflessioni sulle molte valenze della creatura, vista ora come un segno della mentalità coloniale, ora come mezzo di rivalsa proprio contro gli oppressori, sono davvero accurate.
Mr. Hyde, come controparte del Dr. Jekyll non poteva certo mancare in questa rassegna: alcune considerazioni sulla presenza femminile nell’opera di Stevenson e su come Stevenson stesso concepisse l’universo femminile sono un ottimo spunto di riflessione su come anche a distanza di anni, quando sembra che sia stato detto tutto su un libro, emergono ramificazioni possibili su ciò che la trama nasconde.
Dracula viene affrontato come una sorta di dispensatore di comportamenti “non convenzionali” nel romanzo: le donne si comportano molto spesso come gli uomini dell’epoca, mentre ogni tipo di relazione viene vista in modo distorto. Interessante quindi l’interpretazione “alla larga” dell’opera di Stoker come un romanzo con elementi “queer”.
Gollum è il protagonista del quinto saggio, che ne traccia esaustivamente l’identikit non tralasciando nemmeno le fonti del suo esprimersi per enigmi.
Uno dei saggi più interessanti riguarda Sophie Fevvers, personaggio freak di un romanzo “Notti al circo” di Angela Carter anche per le interessanti considerazioni sul fenomeno dei Freakshow che si sono trascinati fino agli ultimi anni del ‘900, nonostante il progressivo considerare le stranezze normali casi clinici.
Di nuovo si parla di esseri femminili considerati mostruosi con tutte le implicazioni e le ramificazioni di questo vocabolo nei saggi dedicati a Medusa (un vero must la parte dedicata a come questo mostro venisse considerato nel Romanticismo), alla vampira Carmilla e alle sirene.
Da ultimo è interessante come rilettura del fenomeno, il saggio sulle case infestate e sui fantasmi.
Monstrumana non è un’opera in genere per tutti i palati: ad esempio molte riletture orientate verso il femminismo potrebbero far storcere la bocca a chi si è nutrito per anni di una visione “classica” dei mostri esaminati, ma se la creatura insolita può generare riflessioni, scioccare e ispirare, dico, perché no? Perché non aggiungere anche questo tassello alle innumerevoli interpretazioni che si sono avvicendate nel corso degli anni? C’è chi ha visto una sorta di rito sessuale nell’atto di Dracula di far bere il proprio sangue a Mina per vampirizzarla, come c’è chi ha visto nel mostro di Frankenstein una sorta di spauracchio da usare in una campagna contro gli OGM. Una prospettiva insolita, un punto di vista totalmente fuori dal consueto, può quindi solo arricchire, oltre che destare qualche reazione avversa, proprio come i romanzi in cui figurano i mostri di cui si sta parlando.
Forse al saggio manca la figura dell’alieno, ma capisco la volontà di mantenersi su un filone gotico senza aprire portali dimensionali che danno su un intero universo fantascientifico, e poi già la parola “alieno” in sé avrebbe finito per reclamare un saggio a parte.
In generale la lettura può essere stimolante per chi conosce già la materia e desidera un approccio diverso, come per chi invece vi si affaccia per la prima volta.

Corpo, di Silvio Valpreda

Il catalogo di Eris edizioni (www.erisedizioni.org) si amplia per accogliere una nuova collana dedicata al fantastico italiano, dall’evocativo nome di “I Tardigradi”. Come ben spiegato sul sito dell’editore, questa neonata creatura, si prefigge lo scopo di “ridare spazio e piena dignità nel panorama editoriale al racconto lungo, con libri dal formato piccolo e dal prezzo contenuto, per una lettura agile e accessibile a tutt*.”

Le prime tre meravigliose creature di questa recente wunderkammer targata Eris sono: “Corpo” di Silvio Valpreda, “Creature dell’assenza” di Giorgia Bernareggi e Sephira Riva e “Un allegro nichilismo cosmico” di Alessandro Sesto.

Oggi vi parlerò del primo esemplare finito tra le mie mani, ovvero “Corpo”.

Il racconto si apre in medias res, catapultando il lettore direttamente nella quotidianità dei personaggi, senza intorpidirlo con stucchevoli preamboli o superflue informazioni. E qui, grazie alla straordinaria abilità del narratore, che capiamo di cosa tratterà tutto il racconto: morte, amore e, appunto, il corpo umano e le implicazioni della sua assenza.

Quella del rapporto tra l’essere umano e il proprio corpo è una tematica assai antica, sviscerata e analizzata nei secoli da innumerevoli dottrine, religioni e opere di finzione. A seconda del punto di vista da cui lo si osserva, il corpo passa dall’essere centro di irradiazione simbolica (come avviene nelle società arcaiche, dove rappresentava l’unita anatomica isolabile dalle altre e per la quale il mondo si modella in base alle sue possibilità) al rappresentare il negativo di ogni valore come avviene nelle nostre società moderne, governate da codici e iscrizioni.

Il corpo del primitivo, non ancora scisso nei poli contrapposti di Natura e Cultura, affronta gli eventi naturali come nascite, morti, cataclismi tessendo un complicato sistema di simboli e riti magici in grado di riportare l’ordine in un sistema temporaneamente minacciato dal disordine.

Si crea così un linguaggio corporeo che vede l’utilizzazione di sé stesso come sistema di segni per produrre significati; quasi una disincarnazione necessaria per divenire materiale atto a significare.

Quando questo sistema reversibile di scambi viene a cessare, le comunità primitive declinano e subentrano le società attuali, dove più nulla si scambia ma tutto si accumula per creare valore.

L’Universo si scinde tra cielo e terra, tra spirito e materia, anima e corpo, ponendo l’accezione negativa tutta addosso al secondo termine di paragone.

E proprio in questa dicotomica frattura che si inserisce il racconto di Silvio Valpreda, inscenando una costante interrogazione sui significati più profondi del rapporto tra mente e corpo. Durante la lettura di “Corpo” sembra di assistere a uno dei migliori episodi della celebre serie tv “Black Mirror”, dove un futuro distopico (ma vicinissimo al nostro presente) ci pone di fronte a dilemmi esistenziali che probabilmente saranno cruciali negli anni a venire.

Il nostro corpo è soltanto un fardello terreno, infestato dalle passioni carnali oppure è il custode di tutte le sensazioni che da esso passano prima di sedimentarsi nel cervello fino a diventare memoria?

La scrittura asciutta e priva di fronzoli di Valpreda è quasi uno strumento chirurgico col quale analizzare gli eventi che porteranno Alessandra a scivolare lentamente nell’ossessione, alla costante ricerca di una prova in grado di confutare la propria esistenza in vita; ragione e passione in costante conflitto.

Nel giro di poche pagine, l’autore riesce quindi a trascinarci in una spirale discendente alimentata da dubbi esistenziali molto profondi. Il rapporto privato col proprio corpo ha sempre molteplici sfaccettature, in un climax che può passare dall’estasi totale fino alla vergogna più profonda.

Come reagiremmo se tutto ciò venisse a mancare, rimpiazzato da un simulacro sintetico?

L’assenza regna sovrana tra le righe di questo meraviglioso racconto e si muove in modo concentrico e subdolo attorno all’esistenza di Alessandra, come un letale predatore in attesa del momento opportuno per ingoiarne l’intera esistenza.

La colonna sonora perfetta per questa lettura, a mio avviso, è The Downward Spiral dei Nine Inch Nails, in particolare la canzone Hurt :

I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real

The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything

What have I become?
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end

And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

I wear this crown of thorns
Upon my liar’s chair
Full of broken thoughts
I cannot repair

Beneath the stains of time
The feelings disappear
You are someone else
I’m still right here

What have I become?
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end

And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

If I could start again
A million miles away
I would keep myself
I would find a way

Mi ricorderò di te, di Mary South

Ogni volta che l’ufficio stampa di Pidgin mi scrive per propormi in lettura una delle sue produzioni mi si riempie il cuore di gioia. E non esagero. Ogni volta che apro uno di quei mondi di carta messi in giro da una delle realtà editoriali più interessanti della nostra nazione non vengo deluso. È successo con Il libro di X di Sarah Rose Etter ed è successo anche questa volta con l’antologia di racconti Mi ricorderò di te di Mary South. Pidgin edizioni infatti, oltre a pubblicare libri sopra le righe, estremi, di autori sia italiani che stranieri – e questo già dovrebbe essere sufficiente per il lettore novocarnista – ha anche un’atteggiamento ben preciso all’interno del panorama editoriale, che come molti sappiamo, è spesso inquinato da fattori che con la letteratura c’entrano poco e niente (e non sto parlando di qualità, ma di politica vera e propria, anche se viene fatta tra le bancarelle di una fiera realmente indipendente e non in Parlamento).

D’accordo, basta con i pistolotti e parliamo del libro. L’autrice, statunitense, ha pubblicato su diverse riviste americane e con questa antologia si è imposta alla critica oltreoceano che conta. L’antologia contiene dieci racconti che spaziano dal what if di matrice blackmirroriana a visioni di ballardiana memoria annaffiate con l’acqua (acida) della nostra società post-capitalistica. La tecnologia, internet, i rapporti sociali disgregati, la vecchiaia, l’arte, il disagio interiore, le relazioni a pezzi, sono solo alcuni dei temi affrontati e che i personaggi si trovano a vivere all’interno di narrazioni dallo stile ironico e sottile, che però allo stesso tempo non risulta mai stucchevole o troppo ammiccante.

In Keith Prime si parla di cloni, come dicevo, alla Black Mirror, con tanto di sospensione dell’incredulità e domande irrisolte sull’umano. Ne L’età dell’amore, racconto dalle tinte meno fantascientifiche, un operatore di una RSA inizia a registrare le chiamate che gli ospiti della struttura fanno alla linea erotica, non sapendo che quello che era un scherzo arriverà a compromettere la sua relazione. I successivi Domande frequenti sulla tua craniotomia e Architettura per mostri, credo i miei preferiti della raccolta, riprendono alcuni temi cari a certa letteratura post-moderna, giocando con termini e questioni mediche (il primo) e artistiche (il secondo), con un’apparente freddezza che non riesce a non invadere prepotentemente la dimensione individuale. Anche Per salvare l’Universo… e L’ostello promesso affondano nel metagenere del post-moderno, il primo giocando e portando alle estreme conseguenze il concetto di fandom, il secondo con le sue situazioni e relazioni grottesche. Mi ricorderò di te e Campeggio Giabervocco… affrontano in maniera più diretta la questione di quanto Internet consumi dall’interno le nostre relazioni ma allo stesso tempo fornisca nuove opportunità di connessione; oscilliamo quindi dalla disgegazione personale dovuta ai social network alla “cura” della malattia da trolling. Chiudono la raccolta una sorta di weird story da paradiso gentrificato (L’agente immobiliare dei dannati) e un romantico quanto sconvolgente dramma familiare (Non è Setsuko).

Ci tengo poi a fare i complimenti al lavoro certosino dell’editore, Stefano Pirone, che ha curato sia la traduzione, che l’impaginazione, confezionando un vero e proprio gioiello della parola.

Un capolavoro? Vi risponderò con una storia. Qualche mese fa ho partecipato a un incontro sull’editoria e gli argomenti erano: quanti libri di producono, quanti se ne vendono, i problemi della distribuzione in Italia, ecc. Il relatore ci ha aperto gli occhi su quanto siano diffusi i pregiudizi su quanto si legge e quanto si vende, ma al di là dei numeri, una frase mi ha colpito: al giorno d’oggi tutti parlano di capolavori, al fine di pubblicizzare il proprio prodotto, ma questo modo di fare ha avuto, nel tempo, l’effetto di anestetizzare il pubblico con milioni di titoli “capolavoro” che vengono sfornati ogni minuto, e per questo lo stesso termine ha perso di significato e non indica più, o almeno non sempre, quello che letteralmente significa, ovvero un libro che dovrebbe finire sui libri di letteratura tra qualche decennio. Ed ecco la mia riposta alla domanda che facevo. Mi ricorderò di te mi ha colpito molto, molto di più di tante altre cose che ho letto quest’anno, delle nuove proposte, italiane e straniere, è sicuramente la migliore in assoluto, e che Mary South abbia la stoffa per scrivere un capolavoro, questo sì, posso affermarlo senza dubbio, perché questa antologia, se non in cima alla piramide della perfezione letteraria (almeno secondo i miei gusti) allora si trova appena appena sotto.

Mattoncini, di Angelo Calvisi

Nella nota dell’autore, Calvisi cita la “Trilogia dei matti”, definizione che qualcuno ha usato a proposito di questo libro. Ed è da quella definizione che si può partire per fornire un’idea al lettore di cosa si troverà davanti una volta aperto il volume edito da pièdimosca.

Mattoncini è la sommatoria di tre storie distinte, racconti lunghi o romanzi brevi che dir si voglia, il cui collante è il disagio psichico. Per affrontarlo, Angelo Calvisi affonda le mani nella materia reale della sua esperienza diretta a contatto con persone affette da disturbi. Riesce a estrarne e a rendere letterari tre frammenti, tre vicende ai confini del surreale scritte tra il 2006 e il 2009 e oggi raccolte in un unico volume.

Quando si racconta uno stato della mente diverso, i cui filtri interpretativi della realtà sono più laschi o più stretti rispetto alla cosiddetta normalità, occorrono una serie di attenzioni e di artifici. Le attenzioni sono senz’altro quelle di rispettare la materia trattata, senza banalizzarla o riferirla in modo stereotipato e falso. Gli artifici ricadono invece nella necessità di adottare scelte stilistiche in grado di trasferire la frammentarietà, i garbugli e le lotte che si svolgono nella mente dei protagonisti delle storie raccontate.

Nella prima, un gamer cronico vive e rivive nella sua mente, alla maniera di un videogioco in cui si riparte subito dopo la morte, stralci di Prince of Persia contaminati da una ridda di citazioni che spaziano dal cinema alla letteratura, per ritornare poi ai videogiochi che rappresentano il fulcro della struttura narrativa. Nella nota conclusiva, è l’autore stesso a rivelare una notevole lista di ispirazioni e di citazioni, in quello che si configura come il racconto più giocoso e, in un certo senso, pop della raccolta.

Il secondo racconto, La maledizione del sommo poeta, esplora una forma di ossessione che si configura nella necessità di ottenere risultati nella vita, lasciando un segno del proprio passaggio. Come ha fatto Dante Alighieri, per esempio. Da uno stimolo scolastico adolescenziale, il protagonista sviluppa un sistema di complessi e di visioni continuative, durante le quali interagisce col fantasma di Dante che, dispettoso, alimenta le spinte all’autosabotaggio dell’aspirante scrittore. Nei suoi tentativi di lasciare un segno, infatti, il personaggio tenta la strada letteraria, inanellando svariati incipit e inizi di romanzi che non sa come proseguire. Tutto, nel suo agire, alimenta ulteriormente la frustrazione e il senso di urgenza rispetto a un obiettivo irrealistico e troppo alto. Calvisi, nei meandri di una trattazione non semplice, con tratti e passaggi che arrivano a lambire l’onirico, riesce a risultare anche divertente, in una selva di invenzioni e grazie, soprattutto, alla ricerca linguistica.
È qui, infatti, che emerge in modo più nitido ed evidente il “linguaggio dei matti”, espresso mediante una forma non sempre pulita e precisa, frequenti ripetizioni, contraddizioni, pensieri profondi e poi, un attimo dopo, del tutto superficiali e quotidiani. L’assenza di un sistema solido di riferimenti emerge nel modo di agire, nelle scelte, nel modo in cui viene filtrata e interpretata la realtà circostante, in quello che somiglia a un delirio paranoico che incontra il suo suggello nel terzo e ultimo racconto di Mattoncini, intitolato Il geometra sbagliato.
La lingua, ormai definita e limata, rimane simile. La narrazione, come negli altri due testi che compongono la raccolta, è in prima persona, per poter cogliere tutte le sfumature e le complessità dei personaggi raccontati. La paranoia è il disturbo dominante della vicenda di Tito Pozzi, che oscilla tra strampalate investigazioni e le pieghe burocratiche di un sistema amministrativo pubblico corrotto e inefficiente. L’aspetto più funzionante del racconto è la sovrapposizione/fusione degli uffici amministrativi e del manicomio, due edifici che si specchiano l’uno nell’altro e nei quali la mente di Tito galleggia incerta.

Raccolta che ha in sé una unità logica e concettuale, Mattoncini è una lettura veloce, a dispetto della lunghezza (440 pagine), ma non per questo banale. I passaggi divertenti e leggeri, presenti soprattutto nel secondo dei tre racconti, non celano né limitano la complessità sfuggente del filtro narrativo. Le voci dei tre matti e le loro vicende danno vita a sequenze complicate, talvolta impetuose e talvolta ardue da districare, tra realtà oggettiva e realtà ipotetica e immaginaria. Il lettore, però, non è necessariamente chiamato a discernere la realtà oggettiva da quella soggettiva: anzi, il vero interesse intellettuale ed esperienziale della lettura è la capacità, mista alla voglia, da parte del lettore di immergersi in un punto di vista distante dal proprio, di abbracciare una visione del mondo e della realtà non necessariamente compatibile o sovrapponibile con la propria.

Fanta-Scienza 2, a cura di Marco Passarello

Quando Marco Passarello mi ha proposto di recensire Fanta-Scienza 2, secondo volume antologico da lui curato e edito da Delos Digital, non ho avuto un momento di esitazione. Ho parlato del suo primo esperimento anni fa, con entusiasmo e curiosità, reputando il risultato ben curato e davvero interessante non solo dal punto di vista narrativo, ma anche e soprattutto per la volontà di connessione tra il genere fantastico e l’attuale ricerca in campo scientifico e devo dire che il raddoppio non è stato da meno, anzi, a mio parere possiede una marcia in più.

Marco Passarello, per chi non lo conoscesse, vive e lavora a Bolzano come redattore della TGR RAI. È ingegnere aeronautico ed è stato redattore delle riviste di informatica Computer Idea e ComputerBild. Ha collaborato col settimanale scientifico Nòva 24 de Il Sole – 24 Ore e con la rivista Urania Mondadori. Ha curato una rubrica di fantascienza per il mensile XL, e si è occupato di musica e libri per Rolling Stone e Repubblica Sera. Insieme alla moglie Silvia Castoldi ha tradotto diversi romanzi, tra cui la serie Virga di Karl Schroeder per i tipi di Zona 42. Ha pubblicato numerosi racconti di fantascienza su riviste, fanzine e antologie.

La formula dell’antologia è la stessa: Marco ha intervistato diversi studiosi dell’Istituto Italiano di Tecnologia a proposito della loro ricerca, cercando di far emergere le questioni più spinose e speculative; poi ha girato le singole interviste ad altrettanti autori di fantascienza italiani, perché producessero un racconto ispirato ai loro percorsi di studio. Unica eccezione: in questo volume appare un nome straniero, nume tutelare del cyberpunk nonché ispiratore di visioni psichedeliche sempre vivaci: Bruce Sterling. Lo scrittore americano pare essere stato proprio la scintilla che ha convinto il curatore a lanciarsi nel progetto del secondo volume. Infatti nell’introduzione del libro, parlando di ciò che lo ha spinto a creare questo “sequel”, Marco confessa: “Credo che il motivo principale sia un piccolo episodio che dimenticai di citare nell’introduzione del libro precedente. Avevo raccontato che il germe dell’idea mi venne scrivendo per Repubblica Sera un articolo su Hyeroglyph, antologia curata da Neal Stephenson e basata su un’analoga collaborazione tra scienziati e scrittori. Avevo raccolto le opinioni in merito da parte di vari autori fantascientifici italiani e stranieri. Tra le più positive c’era quella di Bruce Sterling, che aveva firmato uno dei racconti inclusi in Hyeroglyph, e che mi disse: ‘Spero che altre istituzioni vedano la saggezza di questo sforzo e lo seguano. Se ci provasse un’università italiana, sarei il primo a festeggiare’. Fu proprio questa sua risposta che mi stimolò a chiedermi: chi in Italia potrebbe appoggiare la realizzazione di un’idea simile? Inizialmente mi dissi: nessuno! Ma qualche tempo dopo entrai in contatto con l’Istituto Italiano di Tecnologia, dove invece trovai un terreno fertilissimo per la realizzazione di Fanta-Scienza. Ma non è finita: dopo la pubblicazione del libro, mi venne l’idea di inviarne una copia a Sterling per ringraziarlo dell’ispirazione che mi aveva dato. Con mia sorpresa, lui ne fu davvero entusiasta e, quando poco tempo dopo lo incontrai di persona in occasione di Lucca Comics, mi disse: ‘Se ne farai un secondo volume, voglio esserci!’”

Ma al di là della presenza di un gigante come Sterling, ho avuto l’impressione che l’intero volume risulti stilisticamente e contenutisticamente più curato rispetto al precedente. E non parlo necessariamente della qualità dei racconti, che comunque a mio parere è molto alta, quanto della capacità di aver trovato temi talmente peculiari, specialistici ma allo stesso tempo estremamente multidisciplinari, che inevitabilmente, come origine delle storie, ne hanno a cascata migliorato l’originalità. E di certo, il fatto di essere una seconda esperienza avrà permesso al curatore di seguire una strada già in qualche modo tracciata.

Emerge come, anche in campi come quello della robotica o dello sviluppo dell’intelligenza artificiale (solo per citarne un paio tra i maggiormente classici per la fantascienza), i progressi scientifici reali ottenuti in questi anni abbiano portato a una maturità del paradigma davvero futuribile. Basti pensare alla consapevolezza che emerge dalle parole dei ricercatori riguardo al concetto di cooperazione uomo-macchina, o anche semplicemente al grado di raffinatezza sensoriale necessaria per ottenere un determinato risultato, una raffinatezza che permette non solo di interagire e costruire fuori dall’umano ma anche di conoscere meglio l’umano stesso, di dare meno per scontate le nostre capacità innate. Questa spinta nasce, sostiene il curatore, dall’“intersezione tra tecnologia e scienze umane” che permette di allargare l’orizzonte della scienza cosiddetta “dura” reinserendola in un ambiente allargato che coinvolge l’intera sfera delle nostre esistenze.

Non farò l’elenco degli autori né degli scienziati che hanno collaborato (potete trovare facilmente l’indice online), né decreterò un mio podio personale, sarebbe antipatico, oltreché inutile per l’obiettivo dell’antologia e di questa recensione. Come in tutti i volumi collettanei ci sono racconti (ma anche articoli, perché no) che vi piaceranno di più e che vi piaceranno di meno, ma quello che qui troverete è un arricchimento dei temi della speculative fiction che abbiano delle radici nell’attuale sviluppo tecnologico, in modo da avere una sorta di testo bicefalo dove l’avanguardia scientifica è riletta e reinterpretata, in tempo reale, da professionisti della narrazione fantastica, che ne faranno emergere, a modo loro, visioni epifaniche e oscure criticità.

Il verso dell’assiolo, di Davide Pappalardo

Ho già parlato di Davide Pappalardo su Wired, ben tre anni fa, in occasione dell’uscita del suo romanzo Che fine ha fatto Sandra Poggi?, e già allora avevo tessuto le lodi di Davide, narratore efficace e tagliente che si riconferma fine descrittore di psicologie e di trame ingarbugliate con questo suo Il verso dell’assiolo, romanzo quantitativamente più consistente del suo predecessore, pubblicato sempre da Pendragon, nella collana gLam, diretta da Gianluca Morozzi e Alessandro Berselli.

Davide Pappalardo è un autore siciliano, classe 1976 e ha altri due romanzi alle spalle, Milano Pastis del 2015 e il noir Buonasera (signorina) dell’anno successivo, nonché un’antologia di racconti, La versione di Mitridate.

La trama di questo nuovo romanzo è presto detta: tre amici d’infanzia partono dalla Sicilia per celebrare l’addio al celibato di uno dei tre, nel nord est d’Italia. Tre uomini che da adulti sembrano volersi ritrovare a tutti i costi, quasi fosse un’imposizione, una tradizione obbligata, eppure le criticità tra i loro rapporti non tarderanno a rendersi palesi, soprattutto a seguito di un evento che per forza di cose li sconvolgerà. Durante la serata, i tre faranno bisboccia in un pub, indossando una maschera di Trump e dando fondo alla loro goliardia non mancando di farsi notare dalla gente del posto. Nello stesso momento altri tre individui, tre criminali, tra cui il parroco della chiesa, scardineranno un bancomat uccidendo una guardia giurata che li ha colti in flagrante.

Il pretesto è lanciato, la miccia accesa, e il lettore, a questo punto, pensa già di sapere cosa gli aspetta: indagini e inseguimenti da parte della polizia, scambi di persona, confessioni, magari altre sparatorie… ma le cose non andranno così, non in questa maniera almeno. L’autore infatti dà vita a un ulteriore colpo di scena (che non svelo) che farà passare in secondo piano la casualità del travestimento e darò alla fuga dei tre amici – perché una fuga ci sarà, addirittura in Slovenia – un’altra causa, ben più grave. Inoltre nella storia non manca occasione per scavare nella psiche dei personaggi, nei loro rapporti intricati, portando a galla tutti i dissapori, i non detti, e i contrasti che hanno le loro radici in un passato più o meno oscuro. Compagni di una vita che sembrano esserlo solo di facciata, stretti da uno strano legame che non può essere sciolto, in un continuo andirivieni di flashback della loro giovinezza, la maggior parte dei quali ambientati durante l’alluvione di Acireale del 1995.

Il verso dell’assiolo si configura quindi come un romanzo più maturo, sebbene il suo predecessore sia assolutamente degno di nota. Qui però Davide sembra lasciare un attimo da parte le dinamiche poliziesche, riducendole all’essenziale per lo svolgimento della narrazione, e si concentra, sin dalle prime pagine, sul rapporto tra i tre amici coinvolti per sbaglio, per pura fatalità, in un crimine. Un errore che diventa la scintilla che fa saltare in aria relazioni (anche extra amicali) assolutamente precarie (e spesso ipocrite), e un crimine che si configura paradossalmente come una possibilità, una chiave per interpretare finalmente i loro desideri.

Una scintilla, o meglio ancora un piccolo urto tra le nubi, che può causare un temporale devastante, un disastro meteorologico come quello degli anni Novanta, metafora della distruzione di un legame che si credeva (ma si credeva solamente) indissolubile.

Vessel – Tafur Armageddon, di Caleb Battiago

Battiago torna con la narrativa breve e lo fa con una fulminante novella di Vessel, seguito ma alla stesso tempo autoconclusiva come la prima; Vessel, truce Tafur (cioè appartenente alle feroci bande di straccioni che a seguito della Crociata dei poveri, seguivano gli eserciti commettendo le più abbiette azioni) le cui gesta vediamo iniziare all’inizio della Prima Crociata. Il primo titolo, di cui abbiamo già parlato qui su la nuova carne, è VESSEL – Terra Santa Pulp, ora invece possiamo emozionarci con la narrativa evocativa del nostro con un secondo volume intitolato VESSEL – Tafur Armageddon. 

Sempre nell’Edizione Collection di Independent Legions Publishing, cioè pregiato volume con alette e illustrazioni interne del famigerato Cardoselli (anche copertinista), questo nuovo racconto lungo è ambientato qualche anno dopo dalla prima storia. Siamo tra il 1101 e il 1102 e alla Prima Crociata succedono una serie di campagne feroci nelle quali Longobardi, Francesi e Tedeschi si contendono il campo col Sultano turco Arslan, in Anatolia. Vessel e la sua banda di cannibali e depravati si sposta poi a Cesarea e qui finiscono per essere partecipi dell’apparizione con niente popò di meno che il Sacro Catino, il piatto dove Gesù ha mangiato l’agnello arrosto dell’Ultima Cena. Le avventure non finiscono, la banda avrà anche l’ardire di penetrare nella fortezza di Alamut, la montagna degli Assassini… Insomma, la peculiarità di questo volume, insieme al primo, è di riuscire a creare un fantasy dark storico, con forti basi documentate e una fantasia allo stato brado nello stesso momento. Non mancheranno descrizioni di battaglie feroci, sangue à go go, momenti tenebrosi e qualche spruzzata di umorismo caustico qua e la, marchio di fabbrica di Battiago.

Una storia di ampio godimento, che intreccia miracolosamente Storia e pulp fantastico.

Siamo già avvezzi alla padronanza della lingua narrativa di Battiago, alla sua originalità di generi ibridi, alla forza suggestiva del suo mescolare alto/basso come in un tornado di input  dosati in modo magico. Con questo libro non vi è che l’ennesima conferma.

Sappiamo che Vessel tornerà: l’autore ha confermato che vi saranno almeno altri tre volumi che formeranno con i primi due una pentalogia che insieme delineeranno alla perfezione questo fantasy hard, la carrellata da Gran Guignol delle Crociate del Tafur Vessel. Dunque noi novocarnisti non possiamo aspettare le nuove storie di Vessel con trepidazione ed estremo piacere.

L’età illegittima, di Federico Vercellone

In pieno periodo di propaganda elettorale Raffaello Cortina Editore dà alle stampe un saggio estetico-politico dallo spessore filosofico non indifferente, L’età illegittima, estetica e politica di Federico Vercellone, con la pretesa, probabilmente, di alzare un pochino il livello dello scontro a cui tutti noi abbiamo assistito in questi ultimi giorni, nonché del bombardamento mediatico (e memetico) che ne ha fatto da contorno.

Federico Vercellone è docente di Estetica all’Università di Torino e le sue idee si allineano con quelle della tradizione ermeneutica europea. Nei suoi scritti ha dato una notevole interpretazione, sia filologica che teoretica, della corrente del nichilismo e, più di recente, ha sviluppato un’interessante riflessione sul rapporto tra modernità e coscienza estetica, indagando il nuovo radicamento simbolico del nostro tempo, che si manifesta, oggi, sia con forme espressive più “alte” sia in quelle più low, dal tatuaggio al cibo.

In questo suo saggio, Vercellone si preoccupa di ricostruire il percorso storico e filologico di un preciso concetto teologico-politico, quello del Catechon biblico, e di rileggerlo in chiave estetico-politica attuale. Ovviamente Vercellone fa i conti con i suoi colleghi che hanno già affrontato la nozione sotto questa luce (Schmitt su tutti, ma anche Cacciari e Agamben) e cerca di declinarlo all’interno di tutto un sistema simbolico ed estetico della contemporaneità.

La costruzione del saggio di Vercellone è semplice e segue quasi un andamento cronologico. L’autore parte dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi di San Paolo nella quale viene definito per la prima volta il Catechon, in un contesto escatologico, per indicare il potere che tiene a freno l’avanzata dell’Anticristo prima dell’apocalisse finale e della parusia di Cristo, fino ad arrivare all’analisi politica di Schmitt, e di quelli che si inseriscono nel tracciato del politologo tedesco e a superarla nella descrizione ermeneutica ed estetica del contesto politico e sociale attuale.

Se la costruzione del saggio è semplice, però, non sempre il testo è di immediata intuizione, soprattutto per chi potrebbe non avere gli strumenti adeguati alla comprensione di alcuni termini, non solo filosofici ma anche prettamente tecnici di filosofia estetica. Tuttavia Vercellone non dà nulla per scontato e, coadiuvato dai suoi illustri interlocutori, riesce in qualche modo a mantenere attiva la lettura, anche nei passaggi più ostici. In particolare ho trovato interessante il modo in cui l’autore sia riuscito a far dialogare una visione teoretica complessa della modernità e proprio a causa di questa sua caratteristica non sempre di facile interpretazione con le forme di espressione estetica più “basse” non in senso dispregiativo, ma intese come quelle più diffuse all’interno della società di massa.

Ho trovato interessante la parte in cui l’autore mette sotto le sue lenti il kitsch, una specifica categoria estetica che, seppur nel suo “cattivo gusto”, riverbera una certa potenza politica, che da una parte fa in un certo senso da collante simbolico della società capitalistica occidentale, creando territori concettuali comuni, riconoscibili e in qualche modo confortanti, dall’altro, proprio nella sua lontananza dalla struttura messianica schmittianamente intesa, può dare luogo a politiche illegittime.

“Il meccanismo messianico è del tutto interno all’identità laica del potere occidentale, alle sue strutture di significato. Si può addirittura aggiungere che, in assenza di messianismo, non si danno politiche legittime, e che il potere legittimo è sempre un potere messianico. Su queste basi la crisi attuale trova motivazioni che consentono di meglio identificarla, di comprendere il desolato panorama popolato da laicismi rozzi e senza memoria e da populismi alla lettera criminali perché privi di ogni legittimità. Il mondo globalizzato l’universo dei non luoghi di Marc Augé, che ci immergono nella vertigine della dispersione e dell’anonimato ha, come si è visto, un’intensa inclinazione per il kitsch, per il ritrovamento facile della patria consueta, per far di noi degli Odisseo che ritornano a Itaca senza dover affrontare lunghi viaggi. È la questione dell’autoriconoscimento, è la dialettica dell’identità perduta e riconquistata […] quella proposta dal kitsch, che prova a rinnovare sotto spoglie domestiche la relazione con il fondamento invisibile proposta dal katechon.”

Il testo di Vercellone è dunque profondo e multidisciplinare e tocca una vastità di argomenti da rendere impossibile darne conto in poche battute. Un testo per molti versi complesso e, ovviamente e forse proprio per questo, stimolante soprattutto per chi è stanco di doversi sorbire un dibattito politico, parlo di quello italiano, ma credo si possa estendere al globale, che ha fatto ormai da decenni del piattume la sua bandiera.

STUCK – intrappolati nell’oscurità, di Stefano Fantelli

Siete pronti a finire sotto terra?
La nuova fatica del nostro Stefano Fantelli, sciamano della scrittura,, è una succosa novella horror metanarrativa, dove la trama principale si innesta sull’immaginario creato dal film omonimo Stuck – Intrappolati nell’oscurità di Alessio Bernardi, uscito nel 2020 sotto l’etichetta di Cronenter Films portandoci nelle viscere più oscure della Terra.

Gli avvenimenti del film, in un primo momento, rappresentano la succulenta polpa narrativa dalla quale tutto ha inizio.
I primi movimenti del libro rappresentano, di fatto, una novelization della pellicola (come l’ha, giustamente, definita Moreno “Zagor” Burattini in un suo intervento), ma ben presto assistiamo a un mutamento dei fatti. La parte filmica si sposta in secondo piano e la narrazione si tramuta in un qualcosa d’altro, un hybrid letterario indipendente, un boccone assai appetitoso nel cupo banchetto infernale imbandito per noi lettori, tanto per continuare con le metafore mangerecce.

Il ritmo della scrittura ricalca e amplifica le possibilità offerte dallo stile tipico del linguaggio cinematografico, dosando sapientemente rallentamenti, salti temporali e improvvise accelerazioni. Il lettore, incuriosito, adesso è chiamato a diventare testimone (suo malgrado!)  degli eventi avvenuti anni prima a Borgomascherato, luogo già noto ai lettori di vecchia data.
Nelle caverne poco fuori al paese giace sepolto un passato sgradevole, fatto di esperimenti genetici nazisti e di creature sanguinarie ricacciate nel buio assieme alle ossessioni di Giarone, il gigante buono, ultimo strambo baluardo contro l’invasione degli extratedeschi.
E proprio qui, in bilico fra gli eventi di ieri e quelli di oggi, operano le sapienti mani del Brujo, abilissime nell’annodare stretti i filoni principali che compongono il corpus della novella. Tre storie diverse, tutte destinate a concludersi, in un modo o nell’altro, nell’oscurità.
Non vorrei rovinare a nessuno il piacere della lettura, spoilerando beffardamente il finale di quest’opera da godersi tutta d’un fiato, ma posso dire, senza alcun timore, di essermi trovato per le mani un piccolo gioiello della moderna narrativa weird di intrattenimento.
Infatti, oltre ad aver apprezzato la gradevolezza di una storia ben congegnata e scorrevole, il valore aggiunto che ho trovato in questo libro è la grande capacità dimostrata da Stefano Fantelli nella caratterizzazione dei personaggi. Un’abilità che gli permette di creare, in pochissime pagine, un microcosmo di personaggi vivi e credibili, intersecati e inseriti magistralmente in un contesto temporale molto ampio.
Questa abilità, da considerarsi quasi magica, nel piegare la scrittura alle necessità della narrazione è, per me, la vera forza del Brujo. Le parole usate, sempre scelte con cura e dosate alla perfezione, riescono benissimo nella loro funzione di rendere visibili gli eventi.
Giuro, durante la lettura vi sentirete costantemente osservati e guarderete con sospetto ogni angolo buio di casa vostra!
Una storia potente, scritta per intrattenere e divertire il lettore, ma al contempo ricca di spunti di riflessione non banali sul tema della diversità.
E, come succoso extra, un finale aperto che chiude un ciclo narrativo da una parte e, dall’altra, lascia aperto un intero universo in divenire.
Dopo la lettura di Stuck, infatti, ho avuto la sensazione di aver “assistito” a una sorta di episodio pilota, un cortometraggio raccontato attraverso le parole; assaggio di un futuro che sembra essere ben delineato nella mente dello scrittore e che potrebbe rivelarsi assai ricco di sviluppi. E non solo per quanto riguarda la letteratura, a mio modesto avviso.
Concluderei parafrasando un noto aforisma di Wilde sul piacere della sigaretta, riadattandolo alla scrittura di Stefano Fantelli: è il prototipo perfetto del piacere. È squisita e lascia insoddisfatti. Che puoi desiderare di meglio?

 

Costellazioni familiari, di Ana Llurba

Eris Edizioni dà alle stampe un nuovo libro di Ana Llurba, scrittrice sudamericana New Weird, dopo il romanzo La porta del cielo, già recensito in questi luoghi un po’ di tempo fa. Questa volta l’autrice si cimenta in una serie di narrazioni brevi, dal titolo Costellazioni familiari, come uno dei racconti presenti nella raccolta. Se La porta del cielo si focalizzava su tematiche vagamente legate alla fantascienza, le storie contenute in questa opera tendono ad abbracciare un immaginario fantastico più ampio, sotto l’insegna del perturbante. Il primo racconto, Sulla sponda, è un vero e proprio inizio col botto, narrando le vicissitudini di una prostituta transessuale alle prese con situazioni pulp, ricchi raver senza scrupoli che vogliono farle la pelle e misteriose creature che si nascondono sulle rive di un fiume: qui la Llubra dimostra di essere a suo agio con tematiche care a film di Tarantino e situazioni estreme che mi ricordano molto lo splatterpunk anni Ottanta, ma con quel pizzico di sovrannaturale e pessimismo che mozzano sul nascere il sorriso generato dalle vicende paradossali e sfrenate. Il ritmo è un crescendo incalzante, martellante come un pezzo gabber in cui situazioni paradossali e scene di violenza nel party sfrenato per il quale la protagonista viene ingaggiata come escort non sono la cosa peggiore che capiterà di leggere; il finale lascia un alone di mistero e sensazioni cupe, nella sua risoluzione-non-risoluzione, e come struttura forse questa storia è una delle più riuscite della raccolta.

Nel secondo racconto, La cosa più simile alla felicità, è lo straniamento a farla da padrone, perché la vicenda viene narrata dalla prospettiva di un registratore di cassa affezionato a una commessa del negozio, sullo sfondo di una non ben precisata pandemia. La tecnologia sempre più parte della nostra vita è rappresentata come senziente, anche se vi è una sorta di incomunicabilità con gli esseri umani, soprattutto quando viene inutilmente usata per difendersi dalla circolazione di un virus: la scena in cui un drone inviato a fare la spesa in un negozio paga una confezione di tonno in scatola per usarlo come proiettile e distruggere una telecamera a circuito chiuso in spregio agli umani è potente ed emblematica.

Andando avanti con le storie la Llurba lascia intendere che queste siano legate da un filo rosso, si fa riferimento ad alcuni elementi che si ripetono, oppure questi vengono utilizzati semplicemente come mattoni per una sorta di “combinatoria” sullo stile di Calvino. Ad esempio la pandemia, il concetto di virus ricorre in Io e Roberto, un racconto di zombie ben congegnato, che mi ha ricordato film come Open Grave o Epidemia Mortale oppure in La vita eterna, in cui la protagonista è certa che la sua migliore amica sia un vampiro. Questo ultimo racconto affronta le inquietudini adolescenziali, i tentativi di ribellione di due giovani per non sottomettersi alle convenzioni del “sistema” che ben presto si scontrano con la vita reale. Il vampirismo diventa un residuo dell’età delle fiabe, un “virus” anche virtuale che si insinua nella vita adulta della protagonista, una sorta di scappatoia dalla monotonia che la società vuole imporre.

Il tema della magia nera invece viene esplorato in Le buone maniere e Le vergini nere, quest’ultimo, per l’equilibrio e l’atmosfera plumbea è un vero gioiellino. In entrambi i racconti le protagoniste sono due donne di servizio legate a credenze indios fuori dal loro ambiente: una al servizio di una vecchia anoressica stramba, l’altra di un artista berlinese che nell’armadio ha due inquietanti statue di cera  raffiguranti due gemelle. L’arte combinatoria della Llurba, ovvero situazioni simili ma mai uguali, come animali che si suicidano o culti di fanatici degli extraterrestri, fa piombare il lettore come nella stanza degli specchi di un luna park abbandonato. È come se l’autrice volesse ipnotizzarci storia dopo storia con una sorta di deja-vu, come se i protagonisti fossero reincarnazioni dei personaggi di racconti precedenti e tutto si reiterasse in una sorta di mantra. Ellis Rocket e Nazareth a mio giudizio sono un po’ gli anelli deboli del libro: il primo l’ho trovato troppo “lynchano”, criptico nella sua messa in scena, mentre il secondo appare poco più di un divertissement. Sull’autostrada riprende il classico viaggio on the road di una famiglia allo sfascio in cui accadono episodi strani senza alcun tipo di spiegazione, senza dubbio il finale apertissimo e incomprensibile può far storcere il naso ad alcuni, tuttavia l’atmosfera onirica creata sapientemente rimane una certezza in questa lettura.

In genere la scrittura asciutta e semplice si dipana in una introduzione lenta, è un elemento fondamentale per creare ambienti e delineare personaggi, per poi far mutare repentinamente le situazioni nel giro di poche frasi. Questi racconti, proprio per tale motivo, devono essere letti con attenzione, perché il loro ritmo non si spezzi e quindi sono un intrattenimento che richiede però anche un certo impegno. Come ho accennato, in alcune storie il finale arriva ex abrupto, quando meno ci si aspetta, e molto spesso è aperto, sin troppo aperto, tanto da lasciare il lettore spiazzato (come è ovvio che accada), ma anche un po’ deluso. È il caso di Costellazioni familiari, o in Villa Anhita Ruin Porn in cui forse la soluzione della vicenda arriva troppo rapida. L’ultimo racconto, La tregua, è forse il meno cupo della raccolta e quello che concede di più al grottesco, riprendendo la tematica fantascientifica sugli alieni e su fazioni opposte di culti (gli Immacolati e i Listeriani) che vogliono liberarsi dei microbi o li venerano. I protagonisti delle storie molto spesso si presentano da sé, con un io narrante e sembrano mettere in scena in chiave Weird e cupa le fasi della vita: l’infanzia, la pubertà, la vecchiaia. Nessuno dei protagonisti viene risparmiato dal dolore, dalla struggle for life destinata spesso a finire miseramente; spesso i personaggi sono devastati da problemi quotidiani o crisi esistenziali su cui si impiantano situazioni sovrannaturali che aggravano la loro condizione facendoli diventare qualcosa d’altro, oppure sempre tali problemi sorgono all’interno di situazioni già compromesse: mondi devastati dall’apocalisse, disagio sociale da cui non ci si può riscattare (lotte fra culti, guerre, catastrofi naturali). Il realismo magico si interseca con l’esistenzialismo in una miscela a dir poco esplosiva: è una lettura più per chi vuole godere di certe atmosfere che per chi desidera seguire una trama vera e propria, tanto che in questo il romanzo La porta del cielo con una vicenda ben delineata, non scontentava né una tipologia di lettore, né l’altra; comunque chi ha apprezzato lo stile della Llurba nell’opera precedente non rimarrà insoddisfatto da queste “pillole” New Weird impreziosite dalle illustrazioni di Darkam, che si adattano benissimo alle atmosfere.