Blue Banana

A un Passaggio a Nord-Ovest di un pomeriggio di dicembre 2004 un caso fugace, nessuno lo ricorda, ma adesso, gli archivi, eh, parlano chiaro…
Alberto Angela aveva fatto uso di una droga di importazione nota come BLUE BANANA.
Se l’era calata nel bagno a schiera di specchi e lavabi in granito della sede Rai di Largo Villy de Luca.
Nell’occhio se l’era calata, la bustina che parevano i brillantini di Teresa quando fa carnevale con le amichette e lei si veste da Sailor Moon mentre il padre fa ciao con la mano da dietro le sbarre di scuola.
Adesso il padre è Alberto Angela che sta calandosi la BLUE BANANA ampliando la palpebra come Alex DeLarge e poi c’ha l’occhio tutto palpitante che ha assorbito le sostanze stupefacenti della BLUE BANANA e ora guizza, gira che gira assorbendo tutti i fotoni dei marmi di cesso e sullo specchio scrive in corsivo a mano mancina, lui che però fino a prima era destro “Ambi An Ambi An Mugasalan An An” che non sa cosa significhi ma forse è la lingua del paese d’importazione della BLUE BANANA, pensa.
Si gira con la testa tipo gli gnu dell’Aconcagua, blu di capillari, oscuri intenti di fare il Ragnarok una volta fuori:
«Forse si tradurrebbe con i simboli degli antichi Fenici, se avessimo ancora testimonianze dirette di quel magnifico popolo di navigatori», si mormora fissando il lui blu.
È il suo momento. Va in studio.
Si gira tutto.
Parla blu per via della BLUE BANANA e quel pomeriggio della messa in onda, a Teresa, con l’amichetta del cuore a merenda con l’assetto di colori blu per un cielo in programma, le dicono:
«Guarda! Guarda, quello è il tuo papà! Quanto è bravo…».
Glielo dice la nonna dell’amichetta del cuore che dondola a ritmi fordiani sulla seggiola col plaid dei cani sopra e fissa quell’uomo che fa mosse mai viste in Italia, perché la droga è di importazione, la BLUE BANANA:
«Che bravo… Sembra uno scienziato, tuo papà. Parla forbito».
E Teresa che colora con Martina il cielo del Parco degli Acquedotti per un compito su Roma antica vista oggi.
«Roma era la patria degli avi delle ultime relazioni sessuali di un mio conoscente studioso di forme femminili.
E fu nel 1997 che scoprirono che se strusci con i gomiti a secco sui ruderi diventi un po’ anche tu, la Storia…
È un fenomeno a cui ancora oggi la scienza non ha dato risposta».
Afferma in muto che la nonna però pensava di sentirlo, il volume della televisione, quando invece sentiva la voce del suo Diavolo dentro che poi la spinse nel 2022 a votare Paragone con una svastica al posto della crocetta elettorale.
Blu d’occhi.
«Nella prossima puntata parleremo di prostituzione con ospiti del settore e una prova visiva di come funziona al giorno d’oggi questo mestiere che ha ben più di 2000 anni di trascorsi, pensate un po’…».
E finiscono le riprese; e lui si cala come nei ghiacci ma in quelli del tempo nel traffico che lo accoglierà subito dopo; le mani nei guanti il corpo nudo nel cappotto doppiostrato e la chioma scarmigliata da colpi psichici nello zuccotto: la torta del cervello ha una spolverata blu di droga, di BLUE BANANA.
Alberto Angela fa blublublublublù! assecondando il ritmo neurale dettatogli sul momento da un traliccio del trenino di Saxa Rubra ai confini del parcheggio dipendenti che gli pare Scooby-Doo ma col muso prognato a cranio di cane da incontri.
«Avevi gli occhi blu come il cielo, papà. Stavi in cielo?».
Teresa a casa coi colori blu del cielo che ha impiastricciato in punta di dita, punta di naso.
Tutta blu.
Alberto Angela però in poltrona, la posa dell’elucubro Secondo Impero, che sente solo rimbombare, solo lui in Italia

Ambi
Ambi An
Mugasalan
An An

Opera di Graham Dean

L’amore non è palindromo

A non vuole essere considerata solo come un bel corpo, con un bel faccino da scopare. Dice che è una delle cose più deprimenti che deve affrontare ogni giorno. Perché la gente, si chiede, non riesce a capire che c’è altro oltre a un buco da riempire? Che dovrei fare per essere considerata più di un mero oggetto sessuale? A. va a scuola con B. che la mamma definisce un ragazzo sensibile. B. non è un brutto ragazzo, anche se lui si descriverebbe così. B. vede A. come un bel faccino da scopare, d’altronde è un bel faccino da scopare ma B. è anche innamorato di A., o almeno pensa di esserlo, anche se probabilmente è solo la combinazione di “bel faccino da scopare di A.” + “sensibilità di B.”. C. è stronzo. C. è bello e sembra poco sensibile, ma non sappiamo se è poco sensibile perché è bello o se è poco sensibile solo perché è stronzo. B. un giorno prende coraggio e si dichiara ad A. che gli risponde anche no e corre dalle sue amiche con il cuore di B. in mano lasciando a terra una lunga striscia di sangue. Poco dopo suona la campanella della ricreazione, C. entra in classe e dà una pacca sul sedere ad A. che gli urla qualcosa dietro ma poi sorride compiaciuta con le amiche. B. si convince ancora di più di essere brutto e che le donne siano tutte delle puttane e lo dice anche a sua mamma quando apre la porta del bagno e lo trova a piangere dentro la vasca. La mamma gli risponde che è vero, tutte le donne sono delle puttane, e poi lo stringe forte forte. A. pensa che C. sia bello ma è anche sempre stronzo con lei così si è convinta che, come tutti, la veda solo come una con un bel corpo e con un bel faccino da scopare. B. come dicevamo non è poi così brutto come pensa di essere e infatti D. ha una cotta per lui, ma non lo dice a nessuno, perché è grassa e pensa di non meritarselo. Anche B. pensa che sia grassa e infatti non la considera nemmeno per striscio nonostante sia un ragazzo sensibile e una volta abbia addirittura scritto nel suo diario segreto Chissà qual è il suono di un bacio non dato? Un giorno C., dopo una partita di calcio, si sta asciugando i capelli quando si accorge di non riuscire a smettere di guardare l’uccello di E. Ha come fame. E. se ne accorge e gli grida Cazzo guardi? C. comincia a soffrire per questa storia della fame che gli è venuta e più la reprime e più se ne vergogna. E più se ne vergogna e più va in giro a toccare il culo delle ragazze e a comportarsi come uno stronzo. E. un giorno riesce a convincere A. a uscire. Si presenta a casa sua con un mazzo di rose rosse e le fa mille complimenti per la sua bellezza, come se le dicesse che corpo che hai! E che bel faccino da scopare, ma lei in questo caso non se la prende, ne è addirittura lusingata, perché E. è bello e gentile. E infatti quella sera per premiarlo lei glielo prende in bocca (fare l’amore no, gli dice, è ancora presto) senza rendersi conto che si è appena fatta scopare il faccino. Nel preciso momento in cui E. riempiva la bocca di A. del suo liquido seminale, C. riempiva del suo un tubolare bianco che aveva sottratto di nascosto a E. durante l’allenamento, D. vomitava la sua cena dopo essersi ficcata due dita in gola provando per la prima volta piacere, mentre B. fumava di nascosto dietro casa la sua prima sigaretta. La prima di una lunga serie di sigarette post coito. Quello degli altri. Mentre fuma guarda il video che ha girato quel pomeriggio in cui si vede una tartaruga di terra che sta sopra a un’altra intenta a scappare. La tartaruga che è sopra allunga il collo nello sforza di riuscire a inserire, così immagina B., il suo piccolo pene sotto il guscio della femmina. A B. viene in mente l’immagine di due caschi da bicicletta che scopano, e sorride. La femmina continua a scappare e il maschio la insegue. La femmina va a destra e il maschio va a destra, la femmina va a sinistra e il maschio va a sinistra. Senza mai smettere di starle sopra. Il video dura diversi minuti durante i quali il maschio corre, cerca di stare in equilibrio sopra di lei e nel frattempo tenta di infilargli il pene sotto il guscio stando il più dritto possibile su due zampe. Fino a quando nell’inquadratura compare la scarpa di B. che si mette davanti alla femmina, interrompendo la sua fuga.

Premolare 35

Quella notte il dolore era diventato insopportabile.
Marzio ancora non riusciva a concepire cosa fosse accaduto improvvisamente al suo premolare numero 35 della semiarcata inferiore sinistra (aveva imparato la classificazione tecnica dei dentisti curiosando su internet).
Che ogni giorno degli ultimi sette, da quando quel maledetto dente aveva iniziato ad ammalarsi, si ripetesse catatonico che né i suoi nonni paterni e materni, né suo padre e sua madre e né lui per i suoi primi quarant’anni di vita avevano mai avuto una carie a quelle piccole ossa masticatorie non bastava a consolarlo, ma anzi lo rendeva ancora più incredulo e arrabbiato
Sarebbe anche passato sopra al fatto che a qualcuno della sua genia prima o poi fosse accaduta una cosa del genere e che fosse malauguratamente successo a lui non lo toccava poi tanto. Quello che gli era impossibile comprendere, con tutta la fantasia e l’immaginazione addizionabile alla sua razionalità, era l’evoluzione di quello che stava accadendo al suo povero dente in quel lasso brevissimo di tempo.
Una piccola macchia nera era comparsa sul premolare come primo sintomo, e l’aveva notata a causa di una sensazione di intenso brivido freddo provata mentre beveva un bicchiere d’acqua appena fresca di frigorifero, nulla di anormale. Era un punto scuro minuscolo con un lieve alone giallastro sulla corona esterna del dente, appena sopra il colletto gengivale. L’aspetto del premolare, a parte quel piccolo moschino immobile, era buono; lo smalto era brillante e luccicava ancora di bianco orgoglio sotto la luce led della mensola superiore dello specchio in bagno, dove Marzio lo stava ammirando scorato.
Il punto nero c’era però, maledetto e inaspettato.
Quel pomeriggio stesso, Marzio era stato tentato di cercare subito un dentista, ovvio, ma non ne conosceva nessuno e aveva il terrore di doversi rivolgere a un medico sconosciuto. Tali considerazioni tarparono le ali a quella risoluzione logica e consequenziale avviata in fieri contro quella macchia. Non si diceva del resto nei proverbi popolari che se un problema lo si affronta quando è ancora piccolo lo si può risolvere con minor danno e minor dolore? Sì, aveva convenuto Marzio. Ma aveva sentito proprio in quel momento salire dentro di sé un sottile e strisciante malessere provocato dall’ipotizzare quello che avrebbe trovato dal dentista. Cosa avrebbe provato quando l’ago della siringa per l’anestesia locale avesse violato le sue rosee e immacolate gengive? Avrebbe avuto una reazione nervosa incontrollabile al rumore del trapano al momento dell’accensione e dell’avvicinamento alla sua bocca? E infine sarebbe stato assalito da un senso di schifo, non motivato vista la sterilizzazione, per l’aspiratore salivare che chissà quanti puzzolenti aliti avevano violentato con i loro miasmi prima di lui?
Erano tutti pensieri che si accavallavano l’uno sull’altro per spingerlo nel baratro dell’inerzia e dell’angoscia. Aveva deciso di lasciar passare qualche giorno prima di affrontare di nuovo l’idea di prendere un appuntamento.
La mattina successiva alla scoperta della carie si era svegliato di cattivo umore. Non li ricordava, ma era certo di aver fatto brutti sogni, si era girato e rigirato più volte nel letto dormendo a scatti. Quando la sveglia elettronica aveva trillato alle sei e trenta era nella terra di nessuno di un dormiveglia inquieto. Sua moglie Vanna era accanto a lui e ronfava della grossa; lei aveva minimizzato la cosa dopo che Marzio l’aveva edotta della novità e con il suo usuale pragmatismo gli aveva detto: «Chiama quel cazzo di dentista prima che la situazione peggiori». Aveva infilato le ciabatte e si era diretto in bagno per pisciare. La lingua gli sembrava un corpo morto marcito da giorni, allappava secca e maleodorante.
La lingua batte dove il dente duole.
Certo, aveva pensato Marzio mentre allocava il suo pezzaccio rosso di carne pendula sulla corona malata del premolare, durante la notte la lingua doveva essersi spennellata ben bene chissà quante volte sul dente, assorbendo quel saporaccio di patate fradice che evidentemente i patogeni sprigionavano.
Aveva affrontato lo specchio del bagno stavolta con timore, come se avesse già colto un vago presagio di cattive notizie.
Aveva trattenuto a stento un urlo.
La macchia si era allargata, irradiandosi su metà della corona dentale esterna. Il nero della carie trascolorava verso il marrone e il giallo ocra alla periferia del suo nuovo lotto di avorio conquistato; l’area infetta sembrava pulsare di vita propria esponendola ai riflessi della luce sotto varie angolazioni, aveva guadagnato una proporzione incredibile di superficie rispetto a poche ore prima!
Il generale Custer muove in ritirata sulla collina, il nemico avanza, minaccia l’accerchiamento, urgono decisioni urgenti o sarà una carneficina.
Marzio, immaginando la battaglia di Little Bighorn come triste metafora della situazione del suo premolare, aveva richiuso la bocca avvilito. Era uscito dal bagno, aveva fatto colazione. Non provava un dolore eccessivo, sempre il solito fastidio ai caldi e ai freddi. Un accordo con la vigliaccheria stava montando dentro di lui ed era pronto per essere siglato, lui che nella sua vita non lo era mai stato.
«Lasciamolo stare. Non posso credere a quello che ho visto. Sto vivendo un’allucinazione, sì è così… magari tra poco mi sveglio e tutto è passato… e se non succede non me ne frega un cazzo, non posso accettare che un mio dente si stia comportando così.» si era detto mormorando tra sé e sé in cucina, finendo il suo tè al limone.
Non ci tornò sopra fino a quella notte di mercoledì.
Si era svegliato quattro volte in preda ai dolori. Aveva masticato un paio di antidolorifici ma niente: il patimento restava insopportabile. Vanna si era alzata alle tre dal letto, mandandolo affanculo e andandosene a dormire sul divano del soggiorno.
La sveglia stavolta tacque, perché Marzio l’aveva fermata prima che suonasse. Si sentiva uno straccio. Immaginò la sua mandibola trasformarsi in un incudine ed essere presa a martellate senza motivo da un fabbro incazzato per le corna subite da sua moglie. Gli venne da abbozzare un mezzo sorriso, ma il dolore era così intenso da tramutarlo in un ghigno straziante. Dalla tapparella abbassata solo parzialmente i primi barlumi di luce filtravano nella stanza e lo aiutarono a uscire dall’abulia di quell’incubo oscuro ma reale, da quel tormento senza fine che era stata quella notte allucinante.
Erano passati sei giorni da quando non aveva più avuto il coraggio di guardare il dente allo specchio. Era terrorizzato all’idea di vedere quali evoluzioni avesse preso quel male nero che arricchiva i dentisti e portava alla perdizione dei sensi e della ragione i pazienti: le vittime di quelle vili aggressioni di agenti patogeni inizialmente invisibili, che cantavano poi in coro gli osanna al supplizio, stendendo il loro oscuro sudario sull’avorio immacolato.
Marzio constatò con amarezza, alzandosi dal letto, che i suoi occhi lacrimavano. Il suo non era un pianto comune però, era la resa finale alla codardia verso una nuova terribile forma di coraggio che non riusciva ancora a nominare.
Non avrebbe visto allo specchio cosa stesse diventando o fosse già diventato quel dannato premolare. Se lo figurò soltanto: lo vide schernito e vilipeso da milioni di batteri che si moltiplicavano come conigli in calore, mangiato fino alla polpa e alla radice in un baccanale senza fine, sentendo infine il raschiare insopportabile delle loro microscopiche bocche fameliche sull’osso mandibolare.
Si portò le mani tra i capelli sconvolti in elicoidali e appiccicosi assembramenti e li tirò verso l’alto, sperando che fossero come i fili di una marionetta scesi per un attimo all’interno della sua testa, muniti ognuno di un amo, per agganciare quel corpo osseo martoriato fino a trascinarlo via in qualche modo.
Desiderava con tutte le sue forze che quel miracolo accadesse, ma sapeva che non sarebbe stato ascoltato da nessuno. Che le cose sarebbero solo peggiorate. L’umiliazione era devastante, e se la immaginava nelle risate sommesse alle sue spalle del dentista e dell’assistente se si fosse presentato sulla poltrona del calvario, nel momento in cui avesse aperto la bocca per mostrare al mondo la sua portentosa carie. Se la immaginava nello sfottò maleducato di sua moglie Vanna con quelle troie delle sue amiche, che probabilmente aveva già messo in atto allo smartphone da giorni.
Non era una situazione accettabile, da qualsiasi lato la si investigasse.
Restava un’unica soluzione.
Marzio si diresse alla porta finestra della camera da letto, l’aprì, issò la tapparella e uscì sul terrazzo che si affacciava dal quinto piano sul cortile interno della palazzina. L’alba stava guadagnando spanne di luce all’oscurità, l’aria era fresca e pungente, ma questi erano dettagli che i suoi occhi e i suoi sensi registrarono solo come l’ultima mera constatazione della sua presenza tra i vivi.

Il patologo aveva svolto il suo lavoro all’obitorio con la solita alacrità. L’ultimo corpo che aveva sottoposto ad autopsia quella sera era stato quello di un giovane uomo di quarant’anni, un certo Marzio Fulcroni, che si era gettato dal balcone del suo appartamento per motivi ignoti.
Tra le note particolari del suo responso autoptico, solo una cosa lo aveva colpito… non le fratture multiple scomposte di braccia e gambe e non lo schiacciamento del cranio che aveva fatto collassare il cervello facendo schizzare dalle orbite gli occhi come due pupazzi a molla. La cosa che non lo avrebbe fatto dormire per diverse notti erano le condizioni delle arcate dentali: ben trentuno denti compresi quelli del giudizio erano completamente cariati, neri in ogni loro parte, come se quell’uomo avesse fumato per dieci vite dieci pacchetti di sigarette senza filtro al giorno… solo un dente, il premolare 35, era intonso, perfetto, intatto, e il suo avorio luccicava magnetico e bellissimo come un diamante.

Illustrazione di Horacio Quiroz

Gli esemplari

Il giorno dello spettacolo meglio recensito degli ultimi dieci anni, che fu anche il giorno dell’incidente, tutti gli ordini di palchi erano occupati, dalle barcacce alla platea.
L’uomo con le motoseghe installate nelle braccia, barcollante e ubriaco di sangue, s’inoltrava nel pubblico alla fine di ogni rappresentazione, con la cesta delle offerte assicurata al cranio. Anche quando i geyser di carne e liquami non gli inclinavano la maschera, ostruendo la parte superiore del mondo, gli risultava impossibile vedere gli spettatori dalle ginocchia in su. Il lucore ramato del palco delineava solo le zampe degli scranni, i piedi nudi intrecciati, gli stinchi filiformi. L’uomo poteva al massimo indovinare quando un bouquet di dita oblunghe, carico di anelli, teso in uno sforzo di delicata precisione – per non schiacciarlo – discendeva dalle altitudini oscure del teatro e lasciava cadere un soldo, una pepita o una breve recensione nel cesto delle offerte.
«Grazie. Obbligato. Grazie.»
Dopo il suo passaggio, molti spettatori attingevano alla scia di sangue per segnarsi la fronte, o per inumidire un fazzoletto rigido come la tavolozza di un pittore che dipinge solo tramonti e incendi. Alcuni trovavano pezzi di maggior valore, che raccoglievano furtivi: un’infiorescenza carnosa su uno stelo d’osso, il liscio boccolo di un nervo, una briciola rossa glassata di cheratina che gli uomini con le tenaglie al posto delle mani perdevano sul cammino. Le parti riconoscibili valevano di più, come l’orecchio quasi intero che il Responsabile del Consiglio aveva pagato una somma esagerata, chiacchierata e mai divulgata. Non era neanche il pezzo migliore della sua collezione.
Già due anni prima sarebbe stato inconcepibile. Il direttore artistico, col beneplacito dell’industria, aveva ordinato che le tubature trasparenti che formavano il nome del teatro, sul muro esterno, fossero temporaneamente opacizzate attraverso un ingegnoso sistema a pressione, così da estorcere al pubblico in strada – in attesa di assaggiare il flusso estatico che costituiva l’esperienza media degli spettatori in sala – il pagamento di una quota collettiva che avrebbe allentato la pressione sulle tubature e mostrato il bolo sanguinolento al loro interno – la materia organica raccolta nelle vasche sotto al palco, triturata, capitalizzata e infine destinata al bioreattore annesso. E non solo gli uomini con le gengive tempestate di lamette si abbassavano a seminare capolavori per invogliare gli spettatori a tornare; il teatro stesso organizzava mostre speciali a porte chiuse che culminavano in performance personalizzate a prezzi non trattabili, riservate in esclusiva ai clienti più facoltosi.

Sofferenze e umiliazioni. Ecco cosa. Alleviate solo dalla consapevolezza che la tradizione e lo spirito artistico, magari con qualche livido e un occhio nero, sarebbero sopravvissuti anche a questo periodo disgraziato.
Lo spettacolo in questione era il terzultimo della giornata. Occupava la fascia di maggiore affluenza, quando andavano in scena gli esemplari maschi, piccoli e grandi – che, per motivi poco chiari, ricevevano un punteggio sempre superiore agli altri. Si era ipotizzato che i capelli lunghi delle femmine impedissero la chiara percezione dell’espressione quando si appiccicavano al viso nei momenti di massima catarsi – questa almeno l’opinione di alcuni critici e fruitori esperti – ma le sperimentazioni successive (femmine coi capelli corti, maschi coi capelli lunghi) non avevano corroborato l’ipotesi, che dunque venne scartata in favore del mistero.
Una cosa era certa: a reggere tutto era l’irriducibile varietà che caratterizzava la trasformazione da esemplare vivente a opera d’arte, il cui spreco immediato (vasche, tubature, bioreattore) accorciava il tempo di fruizione aumentandone esponenzialmente l’intensità emotiva – in delizioso contrasto con i cosiddetti trofei, pezzi speciali lasciati in pasto all’immaginario del pubblico per qualche minuto in più, a volte conservati per le suddette mostre a porte chiuse.
Dopo due ore e mezza di escalation – era il momento dei maschietti più teneri, riservati al finale – accadde che un fantasioso agglomerato di piastre a pressione, a seguito dell’esplosione di un tubo d’aria compressa, smottò verso la rete trasparente di contenimento che separa il palco dalla platea, lacerandola dalla sommità. Un maschietto – non quello che era sotto la piastra, ridotto a un tappetino bitorzoluto mezzo strisciante, ma quello in fila prima di lui – usò la macchina inclinata come trampolino per lanciarsi giù dal palco.
Non che non fosse mai successo. In genere gli esemplari non si orientano nei corridoi, a volte neanche riescono a uscire dalla sala, e prima o poi un addetto alla trasformazione li accalappia. Quella sera il maschietto si fece agguantare da uno spettatore, mentre con un piede rotto azzardava l’arrampicata sui gradini della platea. La cosa ringalluzzì il pubblico, che da qualche scena era sazio di piacere estetico e, al netto degli inconvenienti tecnici, era più interessato al brontolio dei propri stomaci.
Lo spettacolo s’interruppe: i tecnici tolsero la corrente per evitare danni ulteriori, arrestarono il flusso degli esemplari, sganciarono la rete di contenimento per sostituirla con un’altra più resistente e tagliente, ma non riaccesero le luci principali. Da dietro le quinte sbucò il direttore artistico, a cui l’esperienza decennale e i tempi grami avevano suggerito come trasformare un incidente deprecabile in un’occasione di reciproco guadagno sia per il teatro che per il pubblico.
Il direttore salì su una scala, per non importunare la schiena di nessuno, e rivestì i palmi dello spettatore con un foglio di plastica morbida. Il maschietto non se ne curò, prima per la disperazione indotta dalla vista di un suo simile senza maschera – latrati, testate ripetute, rotolamenti, versi inarticolati che potevano essere richieste d’aiuto (forse consce, forse no) – poi per il muto terrore con cui cercò di processare il volto dello spettatore, che la curiosità aveva attratto verso il basso, nell’umida luce rossastra del palco, su uno sfondo di volti simili.
Un tecnico srotolò un tubo flessibile e lo introdusse con delicatezza nella vasca improvvisata. Ne sgorgò un fiotto trasparente che il direttore monitorò dietro la finestrella di una visiera protettiva. A contatto col maschietto, il liquido arrossì come una vergine innamorata. Nessuno spettatore fu così sfrontato da cogliere l’arto ancora integro che il maschietto tendeva nella semioscurità, forse sperando che qualcuno potesse salvarlo in tempo. Il direttore arrestò il flusso per non annacquare l’opera, e concesse a tutti l’abluzione.
Deliquio. Gradimento sproporzionato. Recensioni storiche.
Se non che, in fila dietro al piccolo fuggitivo, al momento dell’incidente, ce n’era un altro. Quando la piastra a pressione malfunzionò, l’addetto al contenimento, che in genere circola dietro le quinte con una varietà di pungoli e storditori elettrici, avrebbe dovuto quantomeno tenere d’occhio gli esemplari ancora non trasformati, se non proprio costringerli verso il palco – l’odore di sangue e urina rende recalcitranti quelli meno suscettibili ai farmaci. Forse il maschietto si nascose dietro una tenda, o si finse morto vicino a quello che strisciava sotto le piastre inclinate. In ogni caso, evase dallo stesso strappo nella rete e si fermò a fissare il capannello di piedi ossuti che circondava il suo conspecifico. Nel panico (forse conscio, forse no) approfittò della distrazione generale per correre sotto uno scranno vuoto e arrampicarsi lungo le zampe cesellate, fino all’indentazione che sporgeva dalla parte inferiore della seduta.
Non osò muoversi per tutto lo spettacolo successivo, ma durante quello finale si affacciò a spiare il palco. Gli risultava difficile elaborare tanta informazione in uno stato di tachicardia perpetua, sbalzi di temperatura e alluvioni di sudore. Annusò una possibilità di fuga nella sacca profumata che lo spettatore sopra di lui aveva infilato tra i piedi divaricati. Quell’odore stantio e pungente lo inebriava, fra tutte le sensazioni possibili, di totale protezione materna. In mancanza di alternative, il maschietto si calò nella sacca con attenzione, toccando tutto e non riconoscendo niente. Trovò un angolo ovattato che gli diceva: Qui, e precipitò in un sonno indistinguibile dalla perdita di coscienza.

«Io non lo so, me lo sono ritrovato in borsa quando siamo usciti.»
Quattro volti, due acerbi e due maturi, alternavano espressioni inintelligibili dietro una fila di sbarre tortili in legno blu.
«Se glielo riportiamo ci danno una ricompensa. Sono tutti numerati, lo sanno che gliene manca uno. Un maschio piccolo, poi.»
Qualcuno aprì la porticina della gabbia.
«Sì ma non allungate le mani. Loro hanno un cuore più debole del nostro, non lo vedete che è spaventatissimo?»
Un giovanotto inquadrò nella porticina un occhio pieno di iridi.
«Mamma, ti prego
«Io lo riporterei e m’intascherei la ricompensa.»
Il maschietto si tastò il collare, suscitando squittii di dolcezza da tre spettatori su quattro.
«Dai, non possiamo portarlo indietro. Guarda cos’è.»
I piccoli esultarono intorno alla madre con discrezione decrescente. Il padre contenne la situazione con un discorso sulla responsabilità, il rispetto per il prossimo, la differenza tra un animale e un giocattolo, il cibo, la cacca e la pipì. I figli giurarono di fare il proprio dovere prima ancora di sapere quale fosse.
Confezionarono un piccolo nido – soluzione temporanea prima di comprare un lettino prefabbricato – lo infilarono nella gabbia e lasciarono la porticina aperta: che il maschietto esplorasse e familiarizzasse a tempo debito, senza pressioni. Intanto avrebbero pensato a un nome.

Dusty Ray, “Slouching towards marbled slumber”

Οἶδα o delle implicazioni del vuoto

Come curarti dallo stillicidio di Dio dal fondo dell’anima tua? Dove un tempo albergava l’esperienza dell’altamente significativo ora s’apre un crepaccio vacuo che ti sprofonda nel petto per poi ramificarsi metastatico lungo il tronco e giungere a scioglierti le ginocchia. Gli accessi di nulla assumono la forma di lacune semantiche interiori in preda alle quai crolli a terra. È successo mentre celebri messa, mentre visiti col Prefetto gli alloggi dei migranti, mentre porti la comunione ai carcerati.

Il Vescovo ascolta come la fede e il senso scolino fuori da te e ti manda dallo psichiatra che diagnosticando una depressione con somatizzazione dell’ansia ti prescrive Limbytril. Passano mesi e illuminazioni oscure e pensieri eterocliti t’opprimono asfissiandoti: potresti credere all’inferno solo se non avesse il soffitto, Jahvè ha distrutto Sodoma non per questioni omosessuali ma perché i suoi abitanti avevano covato il desiderio irrefrenabile di violare il sacro congiungendosi carnalmente agli angeli la cui aura numinosa li aveva mandati in frenesia erotica, il paradiso indicato dal Cristo non è che una condizione psicologica.

Hai un divorante bisogno d’evocare una ierofania che ti salvi. Tenti il digiuno e la veglia. Ottieni parestesie della mano destra. Allora – prima del suicidio verso cui pericoli – ripensi alle tue radici messicane e ti convinci che a propiziarla sarà la vecchia Ska Maria Pastora. La inali nel tuo studio in canonica e la poltrona su cui siedi diventa una foglia di tiglio accartocciata che è il prolungamento delle tue mani palmate. La foglia che dunque tu sei si libra nel deserto dalle dune d’ametista che s’è spalancato ai tuoi piedi, poi dalla sabbia inizia ed emergere – prima una mano, poi due crani, poi legione – l’orda dei morti il cui tanfo mefitico color lapislazzuli t’avvolge cantando stridulo e fosco in coro un inno ctonio che dice: «Oggi è il primo giorno del resto della tua vita, risveglia il tempo alla vita». Ora hai visto, quindi sai.

Le vittime

Quel figlio di puttana.

Avrei potuto alzarmi e ignorarlo, girarmi dall’altra parte e fare come se non esistesse, così come faceva più dei tre quarti della gente che lo incrociava sulla propria strada.

Erano le sette e mezzo di mattino. Quel tipo di orario in cui non hai la minima voglia di parlare né tantomeno che ti venga rivolta la parola. Nello stomaco una dose tripla di caffè. Sulla panca in cemento della stazione combattevo l’urgenza delle palpebre di calare come la serranda del kebabbaro vicino a casa quando scoppiava una lite tra egiziani esagitati da Ceres e fumo di copertone. Avevo dormito a malapena. L’intera nottata era passata con me chino sulla scrivania armato di evidenziatore e matita a ripassare immerso in un groviglio di libri, appunti e dispense. La sola fonte di energia a tenermi accesi i neuroni era l’ansia di dover dare uno degli esami più complicati del semestre. L’ultimo prima della tesi e del fanculo all’università.

E come ogni giornata difficile, non poteva che iniziare di merda: il treno era in ritardo e mi ero dimenticato a casa le cuffiette. L’unico modo rimasto per intrattenermi era dare fuoco a un drum dopo l’altro e controllare di minuto in minuto l’orologio appeso alla tettoia della banchina.

A popolare quel luogo fatto di attese, rimandi e corse dell’ultimo secondo, la calca di pendolari e studenti che si trascinava appesantita dalla quotidianità con la faccia di chi dice sempre che va tutto bene. Un miscuglio di malinconia e stoicismo che aspettava di essere stipato sui vagoni verso la propria meta.

«Ce li hai due euro?»

Impegnato com’ero a osservare il posto e succhiare feroce dal filtrino della tabaccata, la voce mi arrivò all’orecchio a stento, lontana, come quando cercano di svegliarti ma sei nel pieno della trama sconclusionata di un sogno.

«Due euro per il biglietto».

«Non ho moneta dietro, solo carta» risposi in automatico senza prestare attenzione.

«Anche cinque euro vanno bene».

L’insistenza sfacciata mi scosse dall’alienazione mattutina. E la risatina che seguì la frase mi diede così sui nervi che mi voltai per dare un aspetto concreto a quella voce.

«Fammi spazio che ho bisogno di sedermi».

Neanche il tempo di obiettare che aveva già spinto la tracolla coi libri premendomela contro la coscia e stava per appoggiare il culo rinsecchito sulla panchina.

«Aaah finalmente! Sono sveglio da tutta la notte» disse.

La maglia lurida di macchie di sudore incrostate e chissà che altro, la piazza pelata sul cranio dai cui lati scendevano ciocche unte e le braccia smilze e venose, coperte da strati di sporcizia e adornate dai segni bluastri dei buchi come a formare una costellazione.

Mi guardò con un sorriso cordiale di denti putrefatti e mancanti.

«A chi lo dici…» dissi pentendomi mentre ancora le parole mi uscivano dalla bocca.

Ecco perché, pensai. È per questo cazzo di modo di fare. È per questa faccia da bravo ragazzo e la totale incapacità di mandare a fare in culo qualcuno che sono un magnete per tipi strambi. Che sia al bar, in piazza o a una fermata. Tossici e ubriaconi, barboni sudici e scoppiati di ogni tipo mi si accollano come la merda sotto le suole.

Forse è una specie di dono divino – o maledizione – e invece di farmi il culo a biologia avrei dovuto buttarmi nel sociale e lavorare con questi poveri stronzi.

«Guardali,» il fetore del suo alito mi corrose le lenti degli occhiali, «come si affannano per cose inutili. Sono patetici. Rincorrono un premio che non li soddisferà mai. Io invece ho scelto di essere libero. L’unica preoccupazione che ho è procurarmi la prossima spada e farmi. Così come nell’antichità gli uomini non dovevano pensare ad altro che a trovare una preda da cacciare per sfamarsi».

Che cazzo, ci mancava solo l’eroinomane alla stazione che parla di scelte di vita. Il remake scarso di Trainspotting.

Mi feci un po’ più in là per scampare un minimo al tanfo ma non funzionò. Ripiegai sulla sigaretta per tenere la bocca occupata e non dargli corda.

«Tu sei uno studente, vero? Sì, si vede che sei un tipo sveglio. Lascia che ti racconti una storia».

Non risposi. Ero in dubbio. Volevo alzarmi e lasciarlo solo nel suo delirio. Ma aspettare in piedi l’arrivo del treno con la stanchezza che avevo addosso mi pareva intollerabile. Il male minore era ascoltarlo. Un modo come un altro per distrarre il cervello dall’incombenza dell’esame.

«Sentiamo» dissi.

Si strofinò le croste che gli marchiavano la faccia e tirò su col naso.

«Questa cambia tutto, capito?»

No, non avevo capito. Annuii.

«A quanto pare quando ero piccolo mio padre mi molestava. Non lo faceva per cattiveria. Poveretto. Il problema è che mia madre era frigida e non gliela smollava mai. Mai. Lei fumava Diana blu e lo guardava male. Credo che fossi la cosa più vicina alla sua fica a cui potesse ambire. Perché ero uscito da lì, ovviamente».

Fece una pausa a cercare la mia approvazione.

Porca troia. Quelle sinapsi bruciate dalla roba avevano subito preso una china imprevista.

Annuii di nuovo dissimulando la sorpresa come si parlasse dei risultati in campionato dell’Atalanta.

«Non mi ha mai sodomizzato o porcate del genere, eh. Ma quando la sera ci mettevamo sul divano a guardare la tele insieme, tirava fuori il cazzo e se lo menava mentre mi accarezzava la schiena e la testa poggiata sulla sua coscia. Non ci vedevo niente di male: credevo fosse un gioco. Il suo modo di coccolarsi. Visto che mamma non lo faceva».

Allungò la mano ossuta indicando la sigaretta e gli passai il mozzicone con gli ultimi tiri rimasti. Lo prese tra i polpastrelli di indice e pollice e succhiò famelico fino a scottarsi le labbra per poi schiacciarlo sotto gli stivaletti logori.

«Il problema, è che, una decina di anni fa, quando convivevo con la mia compagna, che ai tempi aveva già un figlio di quattro anni fatto con il suo ex, è successa una cosa del genere. Me ne stavo a cazzeggiare in salotto, il bimbo addormentato di fianco a me e io che giocherellavo coi suoi capelli tra le dita. In quel clima tranquillo ho pensato: perché no? Perché non farmi una bella sega rilassante? Mi segui?»

Guardai verso l’orologio per mascherare l’espressione di ribrezzo e vidi che mancava poco all’arrivo del treno.

«Mmh mmh» risposi.

«Ma proprio mentre me lo menavo su e giù con cautela, attento a non svegliare il piccolo, quella rientra in casa dal lavoro. E va fuori di testa. Mi dà del pervertito, del pedofilo, mi caccia di casa e dice che se mi avvicino di nuovo mi denuncia. Quella bastarda poi ha pure sparso la voce. Mi ha fatto passare per uno stupra bambini. I miei amici, i parenti, i conoscenti, tutti. Tutti hanno troncato i rapporti. Mi schifavano. Così un giorno ho detto: fanculo, sai che c’è? Che la smetto di sbattermi e preoccuparmi. E da quel momento ho iniziato a farmi. A farmi di brutto.»

Il capostazione annunciò dall’altoparlante l’arrivo del treno per Milano pregando di allontanarsi dalla linea gialla. La folla, al contrario, si avvicinò come un branco di tonni tra le correnti oceaniche.

Il tossico si alzò, strinse la cintura ai pantaloni stinti e mi guardò con un sorriso soddisfatto e un’espressione interrogativa negli occhi.

«Lo hai capito il punto?» chiese.

Sistemai sulla spalla la tracolla coi libri e rimasi a fissarlo per un istante.

«No, non l’ho capito».

Il suo sorriso si fece più largo, lasciando intravedere le gengive marce, come se si fosse tenuto il gran finale proprio per quell’esatto momento.

«Il punto è che non devi più darmi i cinque euro» disse in una risata soffocata accompagnata da un occhiolino.

Lo stridio acuto delle ruote sui binari come aghi nei timpani. Le voci sospese dall’incredulità prima e le urla isteriche poi. Il pianto dei bimbi aggrappati alle gambe delle madri. I volti deformati dal disgusto. Chi si affrettava a scappare via. Chi rimase inchiodato incapace di reagire. I brandelli di carne sulle felpe, sulle giacche e sui maglioni. Le budella riversate tra le carrozze e il bordo della banchina. Gli arti strappati dal busto. Le ossa spezzate a vista. Il cranio frantumato immerso in una poltiglia rosea. Gli schizzi di sangue che colava caldo e viscoso sui muri, sulle vetrate, sui bidoni, sulle persone, su di me. E il rumore sordo della collisione impresso per sempre nella memoria.

Quel tossico. Quel figlio di puttana. Aveva deciso di suicidarsi proprio lì. Davanti ai miei occhi.

Una frazione di secondo prima dell’arrivo del treno, dopo quella risposta enigmatica sui soldi, si era lanciato nel vuoto oltre la linea gialla, venendo travolto a mezz’aria dal macchinista ignaro.

La polizia arrivò a sigillare la stazione e a fare domande, i pompieri a ripulire i suoi resti con gli idranti e la protezione civile a fare qualunque cosa faccia la protezione civile. Le corse furono sospese fino a nuovo ordine e dovetti rimandare l’esame per cui mi ero fatto il culo al prossimo appello, perdendo l’ultima occasione che avevo di laurearmi in tempo.

Sulla strada di casa, col sonno, la rabbia, la tracolla e il suo sangue addosso, rimuginavo sul perché di quel gesto, del motivo dietro a quel cazzo di sorriso oppiaceo e beffardo che aveva stampato in faccia.

E poi mi fu chiaro.

Cristallino.

Non era altro che uno sfregio.

Aveva sfruttato la mia ingenuità per rovinarmi i piani così come lui si era rovinato la vita a causa della sua.

Opera di Chet Zar

Nuotare

Caldo. Sudo nel lenzuolo. Da ore mi rivolto irrequieto nel letto, lottando contro il caldo, e il mio sudario in cotone di dubbia qualità. Non riesco a prendere sonno.

All’inizio, è stato il vocio proveniente dal piano terra dell’hotel. Ci deve essere un convegno. Non so. Pieno di Giapponesi, questo albergo. Si incontrano nella hall, impettiti, sorridenti. Si inchinano rapidamente, si porgono a due mani biglietti da visita come preziosi doni. Mormorano cose incomprensibili. Poi spariscono oltre una doppia porta. Due hostess compunte li fanno accomodare. E stasera, poi, ci deve essere stata una qualche cena, o festa: rumore di risate, e applausi.

Poi è stato di nuovo il traffico. L’onnipresente colonna sonora di questa città. Ora che è notte, ora che il fracasso del giorno s’è chetato, riempie lo spazio sonoro. Sembra che tutta la città si sia accordata per fare un pellegrinaggio automobilistico qua sotto. Il rumore nervoso degli scooter, quello aggressivo delle auto, il sonnacchioso, elefantesco rumore dei camion e dei mezzi pubblici. Clacson che abbaiano, squittiscono, perforano l’aria. Lentamente, anche quello è andato scemando nella notte. Solo qualche auto che sfreccia veloce, qualche autobus notturno.

Poi sono arrivati i “ping!” dell’ascensore al piano. I passi nel corridoio. I commiati davanti alle porte. Le ultime risate, o battute. Le porte, che si aprono-chiudono, talvolta sbattono. Il rientro in camera è durato in tutto, tra ping-segnali e rumori di sciacquoni e docce dalle stanze attigue, ventisette minuti. E quindici secondi.

Già. Perché la mia veglia ha una sua unità propria di misura. Quindici secondi. Per quanto metro scientificamente inadeguato, è il tempo che intercorre tra il ronzio che segnala lo spegnersi della lettera “R” dell’insegna dell’albergo proprio fuori dalla mia finestra, e quello del suo riaccendersi. MARISE. Fffft. MA( )ISE. Fzzzt. MARISE. Quindici secondi. Fzzt. MA( )ISE. Ronzio. Fzzt Lampo di luce. MARISE. La luminosità della stanza si intensifica di un erresimo di luce, accendendo d’una sfumatura rossa il quadro astratto prodotto in serie appeso di fronte al letto, unico ornamento della parete della camera. Allunga le ombre del tavolinetto basso su cui giacciono sparsi i miei biglietti da visita e le mie poche cose. Fzzt. Lampo di buio: il quadro sparisce di nuovo nell’oscurità, liberandomi dalla pena di vedere quella crosta.

Mi copro la faccia col cuscino. Troppo caldo. Il viso avvampa. Mi sento soffocare. Il caldo sembra essersi centuplicato. Getto il cuscino. S’affloscia con un tonfo sordo vicino alla porta del bagno. Fzzzt. Chiudere le tende e le finestre, per bandire luce e rumore, vorrebbe dire trasformare questo posto in una sauna. Il condizionatore ha l’aria di aver rinunciato a lottare da tempo. Il salvifico getto di aria fredda resta imprigionato da qualche parte, e il maledetto marchingegno rimane inerte e insensibile a qualsiasi impulso del telecomando, a ogni bestemmia e maledizione. Ffzzzt. MA( )ISE. Impossibile accenderlo, impossibile spegnerlo: un costante e soffice ansimare di impianto, un occasionale gorgoglio di tubi, denunciano l’esistenza di stanze più fortunate, e aggiungono un ulteriore elemento d’insonnia. Non ho le forze per scendere alla Reception. Domani.

Caldo e rumore sono, tuttavia, comode, accettabili scuse. Il mio sonno se ne è andato da un po’. Ogni notte dormo meno. Sempre meno. Non posso nascondermi dai pensieri. Di giorno, li affogo sommergendoli nelle mille cose prosaiche, eppure necessarie, della vita. Documenti, preoccupazioni, supermarket, telefonate, soffocano il grido dei ricordi, il graffio della coscienza. Ma la notte, no: la notte è loro. Appena finisce il quotidiano, appena il caos del giorno s’accheta, eccoli. Orribili pipistrelli che lasciano la loro grotta. Sciamano dentro alla mia testa, rimbalzano sulle pareti del cervello. Fzzt. E dove colpiscono, riportano qualcosa alla mente che non volevi. Una maledizione. Dormire è anche peggio. Quelli ci godono, quando dormi! Perché al ricordo, già tremendo di suo, si aggiunge l’elaborazione, l’onirica fantasia, il senso di colpa ingigantito della coscienza e trasformato nell’incubo. Cerco con la mano la bottiglia di J&B, senza successo. La prima, vuota, è sul tavolino. Fzzt. MA( )ISE. La seconda? Deve essere rotolata da qualche parte sotto al letto.

All’inizio l’alcol aiutava. Affidava il mio corpo ad un sonno di morte, senza pensieri, o sogni. E pazienza se la mattina successiva erano feroci mal di testa. Santa Farmacia, Nostra Signora del Doposbronza! Poi, come quasi tutti gli amici, mi ha abbandonato. Stasera, l’effetto benefico è durato ancora meno. Gli ultimi saluti sono stati conati piegato sulla tazza, l’addio un pulsante di plastica nel muro. Fzzt. MARISE. Niente sonno, Lorenzo-san.

Dopo trecentosessanta erresimi di notte, si è aggiunto un altro ritmo alla sinfonia insonne. I miei vicini, una coppia di forse mezza età che ho incrociato più volte in ascensore, ci stanno dando dentro. La testiera del letto che sbatte contro il muro, dietro la mia, racconta le spinte di lui. Il ritmo del loro rapporto batte uno staccato da telegrafo. Tum. Fzzt. Tum. Fzzt. MARISE. Tum. Tum. Fzzt. Tum. Tu-tum. Fzzt. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. MA( )ISE …Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Tu-tu-tum-tu-tu-tum-tututum-tututum. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Sesso Morse. Cuore sincopato dentro al muro. Me li immagino, presi nella frenesia dell’amplesso. Il battere mi restituisce le pause ed i parossismi. Fzzt. Mi immagino quello che fa lui, immagino la faccia di lei. Attingo a quel poco che ho intravisto dalla scollatura dell’abitino di lei, alla mia esperienza personale, alla mia Hollywood a luci rosse. Mi figuro scene e posizioni, parole e graffi. Senza quasi accorgermene, la mia mano prende a muoversi, sotto l’elastico delle mutande. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Chissà se anche loro hanno la finestra aperta. Chissà quali ombre disegnerà la “R” sui loro corpi nudi. Chissà se uno dei due ha notato l’erresimo, se quei quindici secondi li ha presi come misura per darsi il ritmo. Mi annullo nell’immaginazione. Venti erresimi dopo, la mia immaginazione impiastriccia il lenzuolo. Poco male. Faceva schifo già di suo. Ma almeno mi ha donato cinque minuti di non-pensiero. Impagabili. Via ‘sto lenzuolo.  Tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum-tu. Fzzt. Silenzio. Infarto dell’orgasmo. Qualche colpo, a distanza, sempre più ovattato. Di corpi che si aggiustano sul letto. Di parole e baci. Oppure di teste appoggiate sul petto e carezze. O di sonno pesante. Fzzt.

L’invidia brucia come una ferita. Da quanto non dormo come si deve? Dalla fiera a Rangoon. Da quella bambina e da suo padre. Dal suo corpo morbido. Dai miei quattrocento dollari e i suoi occhi accesi, dal mio piacere proibito e le sue grida di dolore. Dal mio ansimare ai suoi occhi vitrei, al suo corpo freddo, al suo collo stretto fra le mie mani. Da allora, le mie notti sono diventate un inferno. La mia coscienza non mi lascia pace. Non posso parlarne con nessuno. Non capirebbero, o mi denuncerebbero. Non posso andare da uno psicologo. Come potrei? Come sopportare lo schifo, il biasimo, che trasparirebbe dagli occhi? Le labbra serrate, che si trattengono dall’esprimere il giudizio, il disprezzo? Dormo poco, dormo male. La notte non concede ristoro. Mi sveglio stanco, affaticato, nervoso. La mia vita personale va a rotoli. Quella lavorativa, anche. Fzzt. MARISE. Questa commissione non andrà in porto. Niente software. I’m sorry, Mr. Candùci, but that’s not what my Company needs. Non puoi vendere software se ti droghi di caffè di giorno e se ti fai di tranquillanti o alcol la notte. Se fanno sempre meno effetto. Se sei un fascio di nervi. Se tremolii, e scatti involontari, punteggiano il tuo parlare. Se servono sempre più mentine per mascherare il fiato, più caffè per restare attivo. Se la tua faccia comincia ad assomigliare ad un vestito non stirato. Se la fatica ti impasta i pensieri, e l’inglese, il francese, si mischiano come liquidi nella zuppa del pensiero confuso. Fzzt.

Caldo. Mi sento soffocare. Aria! Questa non è la Francia, cazzo, è il Borneo! Barcollo verso la finestra. Il mignolo del piede destro ritrova la bottiglia, e la spedisce mezzo metro ancora più sotto al letto. Fzzt. Alla finestra, mi appoggio con le mani alla cornice, facendo un po’ forza sulle braccia. Sento i muscoli gonfiarsi. Immagino di allargarla così, solo con la forza dei miei muscoli, deformandola. Spalancandola come in un grido. Oppure, di usare le mie dita come siringhe, per iniettare i miei ricordi nei mattoni della parete e drenarli dal mio cervello. Fzzt. MARISE.

Con uno scatto sporgo la testa dalla finestra, respirando l’aria umida a pieni polmoni. Fzzt. La stanza è un mare, un liquido viscoso, dentro cui sto affogando. Emergo. Respiro. Fzzt. La cornice della finestra è il pelo di un’acqua scura, densa, invisibile. Mi spingo con le braccia. Mi viene quasi da muovere le gambe, per nuotare fuori da quell’acqua-stanza ancora più velocemente. Ma non c’è acqua. Solo aria inquinata, e rumore, e traffico, e la terra è là in fondo. Sorrido. Ecco. Sono libero. Sarò libero. Cado. Se sono fortunato, morirò subito.

Fzzt. Anzi, mo()irò.

Illustrazione di Eric Lacombe

Impronte

Decomposizione. Non inteso come quando ti mangiano i vermi, più tipo una destrutturazione, un calice di vino bianco che pian piano si riscalda e non va più giù, ti da solo alla testa, non lo assapori. Sto perdendo un pezzo alla volta di me, mentre il vento rinvigorisce, impavido cresce sul molo che respira, fischia tra gli alberi secchi dei panfili, le ancore arrotolate dei pescherecci assopiti, senza alzare le briciole, senza alzare la polvere. Sposta i pensieri da una parte all’altra della capoccia, rimbalzano infantili, rincorrono ingigantiti, scoppiano i palloncini gonfiati con l’elio, per inspirare e cambiare voce. Porta con sé le voci dei morti dal carcere abbandonato, non sono lamenti, non è come nei film dell’orrore, sono solo nomi, poi ancora nomi propri di persona, ripetuti all’infinito come ai giochi olimpici, puzzle che riempie le pareti come Jorit, si nasconde dietro feritoie da dove non ti vedo, dovresti essere tu, ma sono solo panni stesi a uno stendino acrobata, ben ancorato alla ruggine di un’attempata ringhiera. Le lenzuola bianche sono fantasmi, volteggiano di salsedine come ballerine ai saggi di primavera, vogliono essere giudicati.
“Gianluca, lega gli ombrelloni che adesso volano via, questo vento non mi piace per niente.” Ma magari si porta via tutto il ristorante, è di famiglia Gianluca, era di tuo nonno Gianluca, poi di tua madre, è uguale, io qua non ci voglio stare, non ci voglio lavorare. Il vento è forte, è caldo, è una giostra illuminata per bambini, si vedono le lucette rosse delle lampadine montate sulle teste di cavallo, ma non arriva il suono, perché c’è Jovine alla festa del paese che copre tutto, mentre discute col fonico perché sulla spia vuole dei bassi più flat.
“Scusi, avevo chiesto una margherita con bufala, ma questa decisamente non lo è! Potrebbe provvedere ragazzo?” Imperativo categorico nascosto in una domanda retorica, in cui la signora si aspetta una risposta, mentre io le darei una capocciata.
“Signora gentilmente, potrebbe chiedere alla collega, non so se è chiaro ma sono in bilico su una sedia neanche troppo sicura, a legare questi due ombrelloni di merda, non vorrei cadessero sulla sua finta bufala, grazie.”
Indietreggiare. Sembro aver vinto questo round, passano quattro lunghissimi secondi, nessuno parla, tutti mi guardano mentre cerco di fare dei nodi alla buona, i nodi che avrei dovuto imparare a fare ai boy scout, gli ombrelloni si gonfiano, pagherei oro affinché mi portassero via, ovunque.
“Vengo in questa pizzeria da quando sono nata e le gestioni precedenti erano di sicuro migliori. Comunque ragazzo mangerò questa pizza che decisamente non è quella che ho chiesto, ma mi aspetto perlomeno uno sconto per il disturbo.” Comincio a sudare copiosamente, sudo sotto le ascelle e anche tra le chiappe, le cordine degli ombrelloni non arrivano una all’altra perché il vento le muove e sto faticando più del dovuto.
“Gianluca, quanto ci vuole a legare gli ombrelloni servi in sala!” Certo, servo in sala padre, ti servo a casa padre, ti servo a cosa padre, per esempio avresti potuto fare altri figli padre, così mentre sto legando i tuoi due ombrelloni di merda mio fratello invisibile avrebbe servito in sala, mia sorella invisibile avrebbe detto alla signora che la mozzarella che sta mangiando è di bufala, invece di stare sempre qui a lavorare avresti potuto dedicarti un po’ di più a mia madre padre, e non farla morire tagliando verdure davanti un forno a legna, mentre fuori c’era l’inferno.
Prendere coraggio. Tornare alla carica, non voltarsi indietro. La signora non ci sta, non sta mangiando la sua piazza come aveva appena detto, continua a fissarmi, mi vuole sfidare, vuole che io cada dalla sedia, vuole il mio cervello spacciato sul pavimento, ecco adesso parla.
“Ragazzo, vedo che non sta prendendo sul serio la mia richiesta, io avrei chiesto una margherita con bufala, ma questa decisamente non lo è!”
Dio dei camerieri se esisti, dio degli anni passati all’alberghiero, dio delle suore dalle tette enormi, dio delle biciclette elettriche con le gomme di aironi neri che attraversano il cielo di Procida, dio di Procida, della salita del carcere abbandonato, dell’isolotto vulcanico che è proprietà privata, dei motorini che sfrecciano controsenso, dei quartieri residenziali che sembrano labirinti dai muri alti, i cancelli sbarrati, di Jovine che fa sei canzoni e saluta l’assessore alla cultura, delle spiagge che ci arrivi solo facendo 180 scalini precisi, palesati, manda una bufera che spazzi via sta vecchia, sta pizzeria, e poi anche me. Che mi ritrovino cadavere sulle rotte della Caremar, una bustine di Pan Gocciole fluttuante nel mediterraneo dei pesci cani.
Decisionale. Il coraggio si sa, è adolescente, è l’odore dei cornetti surgelati alle sei di mattina, è un cucchiaino che gira lo zucchero nel terzo caffè della giornata, è il mio cuore dalle ruote a terra e i cerchi da raddrizzare. Scendo dalla sedia, che il vento porti via gli ombrelloni, che volino a Ischia, non mi importa.
“Allora signora sarò breve, la bufala si riconosce perché funziona come con le scottature solari. Se premi con il pollice sulla pelle e si infila quel tanto nella carne che si vede il bianco che poi torna al rosa, c’è un ustione in corso. Questo per dire che in una pizza Margherita, con mozzarella normale, se ci infili il pollice si rompe, arrivi al pomodoro e ti bruci. Se invece è con bufala, ci infili il pollice come se stessi entrando nella carne, ma non si rompe, torna su pian piano e non ti bruci.”
Mi avvicino alla signora, che spalanca le palpebre, la guardo, mi guarda, alzo il pollice, guarda il pollice, e glielo piazzo dritto nella sua margherita con bufala. Lo strato di mozzarella non si rompe, torna pian piano a livello. “Vede signora, è proprio come le dicevo io. Buon appetito!”

“Slice World Order 1” di D’Noit Airbrush

Persephonìa – a post punk story –

Più reali diventano le cose, più somigliano ai miti.”–
Rainer Werner Fassbinder –

 

Alligatori nelle fogne. Sirene tutto il tempo. Andiamo di fretta, noi, e lèvati. È la Città che non dorme mai, babe. Funziona così. Start spreading the news…
Sono cazzate.
Ecco la verità.
Semplici cazzate per turisti.
Chiunque abbia trascorso almeno settantadue ore quaggiù lo sa bene.
A forza di after nessuna metropoli sul pianeta durerebbe tre giorni senza fulminarsi, e la Grande Mela non fa eccezione, anche se quella feccia di strippati a coca e Valium che ci vive dentro adora darsi un tono e campare di leggende spicciole.
Ma a un certo punto Sinatra sfuma, sapete, e poi arriva sempre la realtà.
Persino qui.
Una gran vagonata di miseria, kemosabes, più puntuale della sotterranea e salata come una cena da Delmonico il venerdì sera. La realtà dei tanti Jack, Joe e Jill che marci di lavoro fanno i pendolari dalle otto alle sette, con le loro scarpe vagabonde,
mentre provano a diventare i pezzi grossi, i re della collina; un limbo dove la Lex è deserta, la Borsa riattacca i telefoni e Manhattan piomba finalmente in coma.
Ora da certi angoli cinguettano sommessi patois. Taxi dalle occhiaie gialligne
scrutano Powell Boulevard a caccia dell’ultima corsa e dal fiume, nel frattempo, un’umida brezza spira verso Broadway. C’è la pace dei giusti, una vera benedizione.
Così, trapassate le foschie di lascivia e Quaalude che ancora infestano la Cinquantaquattresima Ovest, la Notte è pronta per il tango.
Canal Street è una milonga. E sul turbinio delle spazzatrici già vortica uno strascico di sogni.
Mentre fra Seward Park e la Bowery bruiva l’eco di quegli scarabei meccanici, Riff guardò il suo Daytona nuovo di zecca. Le due erano diventate le due e mezzo.
Devo parlarti – aveva biascicato Leandro al telefono – è urgente.
E figuriamoci.
Coi portoricani è urgente ogni volta, ma se sul piatto non servono sconti o sussidi quelli neanche ci provano ad arrivare in orario. Sarà sempre colpa della mala suerte.
Mi abuela s’está muriendo. Non ho trovato parcheggio. Mira, c’era traffico.
Quando alle tre una zoppia di tonfi ovattati rimbombò lungo la scala che portava dabbasso, nello studio, Riff sollevò gli occhi dal Journal e attese. Già la sentiva, però, già sentiva la lingua dell’amico che accampava l’ennesima scusa da due soldi.
«Alla buonora, Cristo.» gli sibilò, vedendoselo scendere gli ultimi gradini a passo di bradipo «Fossi venuto a nuoto da Staten Island avrei fatto comunque prima di te.»
«Oye, non rompere le palle, eh? Me serviva un cafè.»
«Lo vedo. Hai ancora un po’ di zucchero sul…»
Leandro si ripulì la bamba dalle narici e sniffò l’aria.
«Coño, ma tu la senti ‘sta puzza de cane lesso?»
«È il rendang.» svelò Riff «Ezra ha ordinato di nuovo dal filippino all’angolo.»
«Che? Ezra è qui?»
«Da un po’.»
«E te pesava el culo de avertirme, chingado
«L’ho fatto, señor stronzo, ma eri già volato a raglie. Rispondeva la segreteria.»
Allora Leandro gettò uno sguardo verso l’ufficio a destra della sala registrazioni.
La targa sulla porta recitava privato a caratteri scarlatti.
«È dentro?» chiese.
Riff annuì.
«Bene, así no hay problema.»
«Perché… Hai problemi col vecchio, tu?»
«Abbiamo, secondo me.»
«Parla per te, guapo. Io sono a posto.»
«Mira» la voce di Leandro s’affievolì, scivolando nei grigi mormorii di chi non aveva mai abbandonato certe scorciatoie da palazzone «non te pare che il rabbino está tomando un po’ troppo? Cioè… Sì, lavora, pero además de chiudere i contratti o escucharse un vinile ogni tanto, que hace? Te lo digo io, ‘mano. Un bicho.
El parásito incassa solo gli assegni, e noi nel frattempo “andale, andale, negritos!”.»
«Sei fuori strada.»
«Ni de broma, carnal. Il cinquanta per cento es un pinche atraco e lo sai. Nosotros tenemos que llamar a la puerta» bussò lui sul tavolo «de todos i club e li agenti della città. E sgobbiamo alma y sangre, ma mentre él s’entasca metà della torta por sí mismo, a noi che buscamos gli artisti queda un cuarto a cranio. El puto menudo, coño
Riff accolse la filippica grattandosi la guancia. La testa mimava no.
«Lo trovi divertente?»
«Abbastanza. Vai fortissimo in matematica per uno che non ha finito le superiori.»
«Oh, chupame la verga, lambón. Me soy sempre sacrificado para mi lavoro. Te
ricordi el festival de Rochester, sì? Mira, mira lo que me hicieron» gli ordinò, mentre s’indicava la gamba zoppa «pero nunca mi sono lamentato, y dal viejo manco grazie.»
«Ma di che doveva ringraziarti, mongoloide? Quel giorno te la sei cercata tu. Provarci con la squinzia di un Angel… » Riff si ravviò i capelli all’indietro «E non ti scordare che cammini ancora, perciò t’ha detto pure culo. Avessi fatto il viscido con la mia, di donna, t’avrei staccato le gambe per suonarci In the air tonight
«E va bene, tienes razon, ma el punto aquí rimane che la piña está agria, chacho
«Così vuoi fargli le scarpe.»
«Oye, no. Es più tipo… Rinegociare i patti.»
«Seh.» la lingua di Riff schioccò «Rinegoziare.» disse lui, sfilandosi una Salem
accartocciata dalla tasca «Di’ un po’, che facevi prima? Prima di questo lavoro, cioè.»
«Ya lo sabes
«Lo so, sì, lo so. Te n’andavi su e giù per Jefferson Street a smontare i copponi dalle macchine, o qualche radio, se proprio buttava bene. Questo facevi. Ora invece hai un bell’attico sulla Columbus, vesti Hermès, guidi una Khamsin e ti ripassi una pelle nuova ogni giorno. Sei quassù. In cima alla cazzo di catena alimentare» gesticolò Riff, la mano tre spanne sopra la testa «mentre i tuoi compari saranno dentro le peggio topaie di Bushwick a ingoiare cazzi un cinquino la pompa, oh, sempre che nel frattempo non
l’abbiano già lessati.» aggiunse «Te la cavi, niño, ma non sei Ezra. Comprende
«E che farebbe Ezra meglio di me?»
Riff accese la sigaretta.
«Un mucchio di roba.» sussurrò appena «Primo, capisce cosa manda la gente in
orbita… E nel nostro mestiere è fondamentale.»
«Io también, hombre
«Sicuro, e io sono Phil Spector.» lo schernì l’altro «Ti manca il fiuto, Puerto Rico. Tu perdi ancora tempo appresso a ogni stracciaculo fuori dal CB. Cerchi il nuovo Sid Vicious, ma dei punk ormai non frega più un cazzo a nessuno, solo agli europei, forse.
È ora che ti svegli, bello mio» Riff aspirò dalla Salem «a noi servono i pesi massimi, la nuova Siouxsie… O il nuovo Curtis, pace all’anima sua.» e allora glissò «Ricordi le prove dei tizi a Lodi? Avevano quel tappo di cantante tutto muscoli, Glenn qualcosa… »
Leandro accennò un .
«Mh, e mentre tornavamo hai detto che non valevano manco la benza del viaggio.»
«Non erano nada d’especiale, Riff, solo Cramps con la faccia pitturata.»
«E invece pensa un po’, Lester Bangs dei miei coglioni, la Ruby l’ha scritturati la
settimana dopo e due mesi fa è uscito il loro primo album. Una roba fotonica. Fotonica.
Ma che grazie al tuo ritardo è finita nel cesso più veloce della diarrea.»
«Però coi Pantacruel ci siamo rifatti diez volte más, no?»
«No. Ed eccolo qua il tuo secondo problema. Sei avido.»
«En mi barrio una comisión del tredici por ciento es un golpazo, non un problemo
«Lo diventa, un problemo, se tralasci certi… Dettagli. Sapevi che quell’animale di batterista si scopava le ragazzine, ma di fronte alla tua fetta sugl’incassi non ci hai perso ‘sto gran sonno… E ora, ma-chi-se-l’aspettava, Zulu Bryant è a Rikers per stupro di minori e la band s’è sciolta.» clap, clap, applaudì Riff «Bel lavoro del cazzo hai fatto.»
«Oye, pari mi mamá. No me jodas
«Senti, Don Cojón, mica l’ho iniziato io il discorso» insisté «e a dirla tutta c’è pure un altro motivo per cui Ezra becca più grano di te. Il nome Waylon Sharp ti dice nulla?»
«Quién, il chitarrista dei Fleischfresser?»
«Il cantante dei Voodoo Boudoir.»
Leandro scosse la testa.
«Beh, tre anni fa Sharp voleva farla finita. Sai… » Riff si puntò l’indice alla tempia, «Così, dopo aver bucato due serate, s’è messo in macchina e ha
tirato quattrocento miglia fino alla catapecchia dei genitori morti. Allora chiama Ezra, e gli biascica una roba tipo “Kemosabe, mi serve che vieni quaggiù”» l’uomo spense il mozzicone «perciò il vecchio sgroppa fin giù a Elkins e lo ritrova catatonico sul divano,
con mezza pera in circolo e una ventidue accanto.»
«E que pasó
«Che il cervellino da opossum del nostro bifolco aveva preso a squagliarsi. Di brutto.
Sharp non scriveva più mezza riga, pensava solo a farsele, e via via s’era pure creduto che il fantasma del padre c’entrasse qualcosa con la sua cazzo di crisi mistica. “Se non posso creare, tanto vale morire”, diceva.»
«Y Ezra?»
«Lui ha messo da parte la pistola, tranquillo, e gli ha fatto “Andiamo a ucciderti”.»
«Como sarebe ucciderti?»
«Non voleva seccarlo per davvero, genio. Mica è Vito Corleone» ironizzò Riff «se ne sono andati assieme da una che vive nella riserva di Carvins, un’avventista, una specie di santona o boh… Insomma, Ezra la conosce, è una pazzoide amica sua. E a quel punto lei prende Waylon, gli leva i vestiti, lo porta al lago…»
«E?»
«Lo battezza.»
«Lo battezza?»
«Croce sul cuore. Ha immerso lo stronzo nell’acqua e l’ha battezzato.»
«Tu m’estás tomando el pelo, di’ la verità.»
«È già la verità. Io non lo so com’abbia avuto un’idea del genere così dal niente, ma è arrivata quando serviva. Capisci? Sharp ormai spadella una mina ogni sei mesi, e lo sai perché? Perché Ezra ha un dono. Lui guarda nelle persone. Le spinge a reagire, a dedicarsi alla musica, a donare… Tutte loro stesse.»
Leandro abbozzò una risposta, ma le parole gli morirono sulla lingua.
Calò un silenzio più soffocante del fetore di rendang che ancora li circondava.
«Perciò questa conversazione non è mai avvenuta, chiaro? Il vecchio t’ha levato dalla strada, cazzo. Se sapesse che vuoi fregarlo, ci morirebbe. Un po’ di gratitudine, no?»
Il portoricano glissò. Sudava vergogna.
«De chi es l’album nuevo?» domandò. Il suo indice puntava l’ufficio di Ezra.
«Dei Dirge for Nevermore, il gruppo di-»
«Selenia Monroe.» completò Leandro «L’hai vista prima?»
Riff accennò un .
«Ha smollato la demo al vecchio e puff
«Fortuna che non c’ero, allora. Oye, bato, lo giuro su Dio, esa mala perra me rivolta las tripas. A te no? Parece una di quelle spanate de la Familia Manson.»
«Fosse l’unico problema…» azzardò Riff «Gliene mancano di venerdì».
«Già.»
«E così tanti che non t’immagini. Lo sai, ogni volta guardo quell’albina del cazzo e sento un peso. Una specie di groppo, proprio qui» rivelò l’altro, sfiorandosi appena lo sterno «è più una voragine, anzi. E cresce, cresce, e mi ruba il respiro, come se volesse risucchiarmi tutto. Fino alle scarpe.» esitò «Quand’ero in mano ai gialli avevo la stessa paura. È terrificante. Lei sale sul palco e tutti a sbavare. Poi però ci scambiamo un’occhiata, e di colpo vorrei solo sparirmene a stravaffanculo il più veloce possibile.»
«Lo creo, carajo. Ha gli occhi rossi. Es como guardare una chingada vampira.»
«Secondo te sono vere le storie?»
«Sulla Monroe? Macché, amigo. Sarà un poquito de color messo in giro dai suoi fan, robina che fa spettacolo, tipo esa puttanata che Elvis è ancora vivo.»
«Dici?»
Leandro annuì.
«No me sembravi uno superstizioso.»
«Mica è superstizione. Riflettevo solo ad alta voce.»
«Cazzate. Non hai la faccia a posto. En qué piensas
«È anormale.» ammise Riff, mentre giocherellava col suo Zippo «Parliamo di una ragazzina.» clic, clac «A diciassette anni io ero ancora a segarmelo sulle foto di Arlene Bell» clic, clac «invece lei apre i concerti di Lydia Lunch al Mudd e non ha manco l’età per farsi una birra. A te non pare strano?»
«Quién sabe, chacho. Avrà le cosce a fisarmonica.»
«No. L’avremmo saputo. Uno che si racconta le scopate in giro lo becchi sempre.»
«E allora no se. Escucha, per me t’estás fissando.»
«Sarà la storia dei cani. Continuo a pensarci.»
«Che storia?»
«Non la sai?»
«No.»
«Ok, gli trovammo dei localetti. Ricordi?»
«Seguro
«Beh, in pratica è successo che poco prima di quelle tre date i cani dei titolari sono scomparsi nel nulla. E non s’è mai capito come o perchè.»
«Imagínate, a New York scappano centinaia de bestie todos los días, Riff.»
«Sì, però ammettilo. È una coincidenza troppo assurda per non farsi due domande.»
«Quindi secondo te sarebbero stati loro? E por farci que? Un pinche spezzatino?»
«Non lo so. Magari sono sbiellati che fanno rituali nei cimiteri, sacrifici o cazzi del-»
Leandro lo interruppe secco.
«Oh, callate, callate, finiamola qua.» gesticolò «Non le voglio sentire ‘ste macumbe voodoo alla Robert Johnson. Me vengono gl’incubi.» allorché, tirando su col naso, imboccò le scale «Io mi do, chacho. Salutam’el viejo quand’acaba de menarselo.»
«Lo saluto, ma tu ricorda. Rompi di nuovo i coglioni sulle quote e sei fuori. Claro
«Claro, carnal. Adesso però vattene a dormire…»
«Tra un minuto.»
E così, tonfo a tonfo, l’imbeccata di Leandro sfumò in un’eco zoppa che risaliva verso Canal Street, mentre Riff, bolso e inebetito, poggiava l’ultima Salem a fil di labbra.
Il Daytona segnava le quattro meno venti.
Tempo di chiudere il baraccone.
L’uomo sfiatò un tiro e bussò allo studiolo di Ezra, l’oasi dove il vecchio – al grido di metsuyan, metsuyan – sceglieva sempre le bombe migliori di tutte.
Allora Riff aprì la porta; dalla stanza spifferò un lezzo tremendo, addirittura peggiore del rendang, un alito che sapeva d’acquitrini e frutta guasta.
Lui entrò e proseguì.
«E-Ezra?» balbettò, eppure di «Ezra?» neanche l’ombra, se non un pendolo di
Newton, immobile sulla scrivania, con attorno un mucchio di foto scattate quand’ancora esisteva la fila dei neri.
Riff s’avvicinò.
Un po’ di più, un po’ di più.
Gli bruciava il naso, come dopo un pessimo tuffo giù da una scogliera.
E i suoi occhi guardavano, senza vedere.
Accanto all’agenda del vecchio, lì dov’era posata la custodia dell’album dei Dirge, spuntava un bigliettino dal corsivo sinuoso, ma lo sguardo di Riff saettò subito al telefono; e per un istante riuscì quasi a sentire la voce della centralinista, 9-1-1, prego, dichiari l’emergenza. Il mio capo… È-è scomparso, prima che il fruscio del giradischi lo riportasse a quella realtà profanata. Signore, come sarebbe da una stanza chiusa“?
Pronto? Pronto? I poliziotti avrebbero pensato a uno scherzo, ma non lo era.
E neppure si trattava di leggende metropolitane.
No. Dentro quel tumulo pannellato ad Auralex mancava una persona. Mancavano centoquaranta libbre di vittima della Shoah. Ed era una verità empirica, nessun trucco. Riff ebbe un brivido e quasi cadde in ginocchio. L’angoscia che il suo stesso torace volesse inghiottirlo a poco a poco gli drenava sangue da ogni possibile organo.
E nel frattempo, dalla copertina di Persephonìa, lo scrutava l’atroce ritratto d’una Brigitte Helm spennellata da Francis Bacon, i cui sguardi parevano bramosi di carne.
Solamente allora – coi talloni al ciglio d’un abisso che gli cresceva ovunque
tutt’intorno – l’uomo esaminò la nota sotto il disco. Parole a strapiombo sul buio.

 

Illustrazione di Diana Gallese

Il ragno

Il risveglio non è indolore.
Prima ancora di aprire gli occhi, percepisce la mano appiccicosa sul cuscino. Le lenzuola lo avvolgono in un bozzolo umido e gli impediscono i movimenti. Tasta la chiazza di sudore e bava, gli occhi ancora incapaci di distinguere le forme della stanza, l’origine del suono, i contorni squadrati della sveglia. Si rivolta sul materasso, strattona le lenzuola, cerca di estrarre ossigeno da quella melassa che riempie la stanza. Allunga un braccio per fermare il pulsare ritmico che lo scuote fino alle sinapsi, tocca qualcosa di vischioso e ritrae la mano. Apre gli occhi nel buio e controlla l’orario sul quadrante luminoso: mancano cinque minuti alle sei, non è ancora suonata la sveglia.
Si alza e si dirige verso il bagno con gesti automatici, le braccia che pendono rigide lungo il corpo seminudo. Sbatte le ginocchia contro i sanitari, percepisce l’odore sgradevole della propria urina scivolare lungo le pareti di ceramica. Si strofina gli occhi davanti a uno specchio vuoto, i gesti per lavarsi la faccia sono stilizzati e inutili, servono solo a mandare avanti la routine del mattino, lo schema che gli permette di prepararsi e uscire di casa senza avere ancora attivato il cervello. Il corpo si muove per automatismi: mette la caffettiera sul fuoco, prende le fette biscottate dalla dispensa e la marmellata dal frigo. Quando apre lo sportello appiccicoso di ditate zuccherine non può evitare la zaffata di qualcosa andato a male. Allunga una mano fino all’interruttore. Anche questo è appiccicoso, sembra che qualcosa di denso coli dal soffitto per ricoprire le pareti del suo appartamento, i suo mobili, il pavimento stesso. Anche masticare e deglutire sono gesti automatici, la poltiglia che scende nella sua trachea non lascia traccia nel gusto o nella memoria. Lascia mezza fetta con marmellata di fragole sul piatto, finisce il caffè e si alza dal tavolo senza aver ancora prodotto un pensiero cosciente. Striscia i piedi sudati su un pvc altrettanto umidiccio fino alla camera da letto, ogni passo più difficile del precedente.
Prende il cellulare dal comodino per farsi luce e si accorge di come l’ora del display non combaci con quella della sveglia. Cerca il caricabatteria a tentoni, prima di rinunciare e indossare i vestiti da ufficio ammucchiati in fondo al letto. Un completo stropicciato e una camicia che progetta di lavare da almeno una settimana. Il sudore nuovo si mischia con quello dei giorni passati e un brivido lo fa starnutire sulla mano impreparata. Se la asciuga sul lenzuolo, prende il cellulare con l’altra e torna nell’ingresso, dove lo aspettano la borsa e le scarpe. Sente un ronzio provenire dalla cucina, lo sfrigolio di centinaia di mosche che strisciano le proprie zampe anteriori. Ignora quel suono così come il battito doloroso che lo insegue da prima del risveglio. Ora si è trasformato in una specie di sibilo strisciante, denso, ma lui ormai indossa le scarpe da ufficio, prende la borsa di similpelle e apre la porta di casa. Mentre esce sul pianerottolo sente qualcosa di umido cadere e colpire una superficie irregolare, un tonfo difficile da identificare.
Percorre le quattro rampe con passi precisi, misurati dalla ripetizione, trascinando dietro di sé la borsa, più pesante di quanto si ricordasse. Davanti al portone, la luce dei lampioni filtra dai vetri rotti e gli permette di assistere al corpo di una blatta che cede rumorosamente sotto al suo peso. Intravede altri scarafaggi muoversi lenti negli angoli dell’androne. Spinge il vecchio portone e lo lascia richiudersi dietro di sé, con un suono che gli ricorda quello della blatta sotto le scarpe.
Una volta sul marciapiede guarda verso l’alto e vede le finestre spente dei condomini illuminate dai lampioni stradali. Nella piccola porzione di cielo visibile da lì non ci sono né luna né stelle, solo una tenebra densa che fa da tela per la luminosità riflessa dalla città. Un altro starnuto gli ricorda di mettersi in moto, iniziare la lunga passeggiata che lo porta in ufficio tutti i giorni e lo riporta a casa ogni tanto.
I passi proseguono di cono di luce in cono di luce, calca i marciapiedi della città con passo incerto ma inarrestabile. Non si ferma neanche ai semafori, inutili a quell’ora del mattino. L’unica breve ombra che riesce a scorgere per la via è la propria, quando passa sotto ai lampioni, per poi tornare nelle tenebre da cui è venuto. Prosegue fra condomini sempre più alti, balconi e finestre fatiscenti, fra cassonetti sfasciati e auto abbandonate. Supera le bici prive di una ruota o di un sellino, i motorini rigati, inciampa nelle radici degli alberi che crepano il marciapiede. Ignora le vetrate dei negozi chiusi, le insegne al neon spente, i cartelli sbiaditi “VENDESI”. Alterna la borsa dell’ufficio da un braccio all’altro, le dita e le spalle sofferenti per il peso.
Ogni tanto si ferma a prendere fiato, controlla il cellulare e nota il livello della batteria sempre più basso. Ricorda anche l’orario sballato e lo ripone in tasca senza farsi altre domande. Le mani emergono dalle tasche più umide di come vi erano entrate. Forse anche per questo la borsa risulta così scivolosa e difficile da tenere, gonfia com’è.
Mentre supera l’ennesimo portone scheggiato, vetri rotti e graffiti, sente una fitta al piede sinistro. Prova a ignorarla per qualche metro, ma sotto al lampione successivo è costretto a fermarsi per controllare: un chiodo arrugginito ha penetrato la suola della scarpa, ridotta sempre peggio. Si appoggia a un muro per estrarre il chiodo e controllare il piede. Il calzino è macchiato di sangue, la pelle gli fa male ma crede di poter camminare. Si rinfila la scarpa e sposta il peso da un piede all’altro per testare i propri limiti, e mentre è lì, impegnato in quello strano e impercettibile esercizio fisico, concentrato sul proprio corpo sudaticcio, nota una figura scura appoggiata al lampione successivo. Una sagoma umana abbandonata fuori dal cono di luce, quasi invisibile nell’oscurità.
Esita un momento, prima di riprendere la borsa appoggiata per terra, non senza uno sforzo cosciente. Forse per via del piede ferito, ma gli sembra sempre più pesante mentre zoppica di lampione in lampione, da un marciapiede all’altro. Sente l’urgenza di arrivare a destinazione.
Di rado un’auto veloce lo supera o gli viene incontro, le ruote che grattano l’asfalto, i fanali che per un attimo illuminano l’intonaco scrostato dei condomini e i veicoli abbandonati ai bordi delle strade. In un furgoncino dalle ruote forate, vede per un attimo una figura immobile, un uomo addormentato forse, al posto di guida. Ignora l’informazione e prosegue, affaticato e dolorante. È costretto a fermarsi dopo pochi metri per controllarsi le mani arrossate per il peso della borsa e il piede che continua a sanguinare. Si riposa sotto a un lampione e studia i fogli delle persone scomparse, per non pensare ai propri dolori. È tentato di buttare le scarpe e proseguire scalzo, ma desiste. Vorrebbe solo arrivare in ufficio, sedere alla sua scrivania, accendere il computer.
Alza la borsa rigonfia con entrambe le mani questa volta, fatica a staccarla dal marciapiede appiccicoso, sporco. Cerca di camminare con il peso sulla destra, un passo lento ma regolare. L’obiettivo è non fermarsi più.
Eppure rallenta quando vede una mano sporgere da sotto una saracinesca mezza abbassata. Riesce a notare le unghie scheggiate e nere anche senza fermarsi, la pelle macchiata, rugosa, quella di un vecchio. Sulla vetrina successiva nota un cartello strappato che recita, o recitava, “prossima apertura”.
Si rende conto di essere sempre più lento, ma l’importante è non fermarsi. Ormai porta la borsa con entrambe le mani, la trascina quasi, le spalle e i gomiti doloranti. I piedi faticano a staccarsi da terra, forse ha pescato una cicca, o i residui degli alberi, i pollini, la resina, non sa cosa pensare e non gli importa trovare una spiegazione razionale alla propria fatica, vorrebbe solo che avesse fine.
Per attraversare una strada, alza la borsa e la fa ricadere sul marciapiede successivo, dopo qualche passo affrettato su di un asfalto sciolto e colloso. Il dolore dal piede sinistro si è propagato a tutta la gamba, forse perché cammina storto, o forse per via di quella borsa che lo tira tutto sulla destra.
Quando svolta in una strada più grande ma altrettanto vuota, riconosce le file di insegne a led delle sale slot, le scritte OPEN blu e rosse che punteggiano la notte. Davanti a una di esse, un uomo è disteso lungo tutto il marciapiede, avvolto in stracci lerci e consumati. È costretto ad alzare le gambe e soprattutto la borsa per superarlo. Scavalca il corpo senza guardarlo in faccia, anche se non può evitare di distinguere i piedi scuri e gonfi, deformi.
Suda per la fatica e non solo per l’aria sempre più densa che lo circonda. Fa troppo caldo per il suo vestito, ma se si togliesse la giacca non saprebbe dove metterla. Lascia cadere la borsa che sembra sul punto di esplodere. Colpisce il marciapiede con un suono umidiccio e rimane lì davanti, impassibile. Sospira, la supera e si volta. La afferra con entrambe le mani e inizia a trascinarla sul marciapiede, procedendo di spalle.
I lampioni illuminano lo sforzo sul suo viso, i capelli che gli si appiccicano sulla fronte, i vestiti che lo avvolgono in un bozzolo di pieghe sintetiche e strati di sudore. Spinge sui talloni, tira con le spalle, le dita contratte attorno all’impugnatura della borsa, fino a che non gli cedono all’improvviso, per il dolore e la fatica.
Cade all’indietro, sorpreso più che sofferente per l’impatto con la superficie irregolare del marciapiede. Solo dopo qualche istante sente una fitta allargarsi nel cranio fino alle pieghe del cervello. Chiude gli occhi, sfinito, e rimane immobile, disteso a terra, la borsa ai suoi piedi.
Li riapre giusto in tempo per vedere un lungo artiglio peloso uscire dall’apertura laterale della valigetta.

“Homage to Redon” di Jimm Gerstman