Premolare 35

Quella notte il dolore era diventato insopportabile.
Marzio ancora non riusciva a concepire cosa fosse accaduto improvvisamente al suo premolare numero 35 della semiarcata inferiore sinistra (aveva imparato la classificazione tecnica dei dentisti curiosando su internet).
Che ogni giorno degli ultimi sette, da quando quel maledetto dente aveva iniziato ad ammalarsi, si ripetesse catatonico che né i suoi nonni paterni e materni, né suo padre e sua madre e né lui per i suoi primi quarant’anni di vita avevano mai avuto una carie a quelle piccole ossa masticatorie non bastava a consolarlo, ma anzi lo rendeva ancora più incredulo e arrabbiato
Sarebbe anche passato sopra al fatto che a qualcuno della sua genia prima o poi fosse accaduta una cosa del genere e che fosse malauguratamente successo a lui non lo toccava poi tanto. Quello che gli era impossibile comprendere, con tutta la fantasia e l’immaginazione addizionabile alla sua razionalità, era l’evoluzione di quello che stava accadendo al suo povero dente in quel lasso brevissimo di tempo.
Una piccola macchia nera era comparsa sul premolare come primo sintomo, e l’aveva notata a causa di una sensazione di intenso brivido freddo provata mentre beveva un bicchiere d’acqua appena fresca di frigorifero, nulla di anormale. Era un punto scuro minuscolo con un lieve alone giallastro sulla corona esterna del dente, appena sopra il colletto gengivale. L’aspetto del premolare, a parte quel piccolo moschino immobile, era buono; lo smalto era brillante e luccicava ancora di bianco orgoglio sotto la luce led della mensola superiore dello specchio in bagno, dove Marzio lo stava ammirando scorato.
Il punto nero c’era però, maledetto e inaspettato.
Quel pomeriggio stesso, Marzio era stato tentato di cercare subito un dentista, ovvio, ma non ne conosceva nessuno e aveva il terrore di doversi rivolgere a un medico sconosciuto. Tali considerazioni tarparono le ali a quella risoluzione logica e consequenziale avviata in fieri contro quella macchia. Non si diceva del resto nei proverbi popolari che se un problema lo si affronta quando è ancora piccolo lo si può risolvere con minor danno e minor dolore? Sì, aveva convenuto Marzio. Ma aveva sentito proprio in quel momento salire dentro di sé un sottile e strisciante malessere provocato dall’ipotizzare quello che avrebbe trovato dal dentista. Cosa avrebbe provato quando l’ago della siringa per l’anestesia locale avesse violato le sue rosee e immacolate gengive? Avrebbe avuto una reazione nervosa incontrollabile al rumore del trapano al momento dell’accensione e dell’avvicinamento alla sua bocca? E infine sarebbe stato assalito da un senso di schifo, non motivato vista la sterilizzazione, per l’aspiratore salivare che chissà quanti puzzolenti aliti avevano violentato con i loro miasmi prima di lui?
Erano tutti pensieri che si accavallavano l’uno sull’altro per spingerlo nel baratro dell’inerzia e dell’angoscia. Aveva deciso di lasciar passare qualche giorno prima di affrontare di nuovo l’idea di prendere un appuntamento.
La mattina successiva alla scoperta della carie si era svegliato di cattivo umore. Non li ricordava, ma era certo di aver fatto brutti sogni, si era girato e rigirato più volte nel letto dormendo a scatti. Quando la sveglia elettronica aveva trillato alle sei e trenta era nella terra di nessuno di un dormiveglia inquieto. Sua moglie Vanna era accanto a lui e ronfava della grossa; lei aveva minimizzato la cosa dopo che Marzio l’aveva edotta della novità e con il suo usuale pragmatismo gli aveva detto: «Chiama quel cazzo di dentista prima che la situazione peggiori». Aveva infilato le ciabatte e si era diretto in bagno per pisciare. La lingua gli sembrava un corpo morto marcito da giorni, allappava secca e maleodorante.
La lingua batte dove il dente duole.
Certo, aveva pensato Marzio mentre allocava il suo pezzaccio rosso di carne pendula sulla corona malata del premolare, durante la notte la lingua doveva essersi spennellata ben bene chissà quante volte sul dente, assorbendo quel saporaccio di patate fradice che evidentemente i patogeni sprigionavano.
Aveva affrontato lo specchio del bagno stavolta con timore, come se avesse già colto un vago presagio di cattive notizie.
Aveva trattenuto a stento un urlo.
La macchia si era allargata, irradiandosi su metà della corona dentale esterna. Il nero della carie trascolorava verso il marrone e il giallo ocra alla periferia del suo nuovo lotto di avorio conquistato; l’area infetta sembrava pulsare di vita propria esponendola ai riflessi della luce sotto varie angolazioni, aveva guadagnato una proporzione incredibile di superficie rispetto a poche ore prima!
Il generale Custer muove in ritirata sulla collina, il nemico avanza, minaccia l’accerchiamento, urgono decisioni urgenti o sarà una carneficina.
Marzio, immaginando la battaglia di Little Bighorn come triste metafora della situazione del suo premolare, aveva richiuso la bocca avvilito. Era uscito dal bagno, aveva fatto colazione. Non provava un dolore eccessivo, sempre il solito fastidio ai caldi e ai freddi. Un accordo con la vigliaccheria stava montando dentro di lui ed era pronto per essere siglato, lui che nella sua vita non lo era mai stato.
«Lasciamolo stare. Non posso credere a quello che ho visto. Sto vivendo un’allucinazione, sì è così… magari tra poco mi sveglio e tutto è passato… e se non succede non me ne frega un cazzo, non posso accettare che un mio dente si stia comportando così.» si era detto mormorando tra sé e sé in cucina, finendo il suo tè al limone.
Non ci tornò sopra fino a quella notte di mercoledì.
Si era svegliato quattro volte in preda ai dolori. Aveva masticato un paio di antidolorifici ma niente: il patimento restava insopportabile. Vanna si era alzata alle tre dal letto, mandandolo affanculo e andandosene a dormire sul divano del soggiorno.
La sveglia stavolta tacque, perché Marzio l’aveva fermata prima che suonasse. Si sentiva uno straccio. Immaginò la sua mandibola trasformarsi in un incudine ed essere presa a martellate senza motivo da un fabbro incazzato per le corna subite da sua moglie. Gli venne da abbozzare un mezzo sorriso, ma il dolore era così intenso da tramutarlo in un ghigno straziante. Dalla tapparella abbassata solo parzialmente i primi barlumi di luce filtravano nella stanza e lo aiutarono a uscire dall’abulia di quell’incubo oscuro ma reale, da quel tormento senza fine che era stata quella notte allucinante.
Erano passati sei giorni da quando non aveva più avuto il coraggio di guardare il dente allo specchio. Era terrorizzato all’idea di vedere quali evoluzioni avesse preso quel male nero che arricchiva i dentisti e portava alla perdizione dei sensi e della ragione i pazienti: le vittime di quelle vili aggressioni di agenti patogeni inizialmente invisibili, che cantavano poi in coro gli osanna al supplizio, stendendo il loro oscuro sudario sull’avorio immacolato.
Marzio constatò con amarezza, alzandosi dal letto, che i suoi occhi lacrimavano. Il suo non era un pianto comune però, era la resa finale alla codardia verso una nuova terribile forma di coraggio che non riusciva ancora a nominare.
Non avrebbe visto allo specchio cosa stesse diventando o fosse già diventato quel dannato premolare. Se lo figurò soltanto: lo vide schernito e vilipeso da milioni di batteri che si moltiplicavano come conigli in calore, mangiato fino alla polpa e alla radice in un baccanale senza fine, sentendo infine il raschiare insopportabile delle loro microscopiche bocche fameliche sull’osso mandibolare.
Si portò le mani tra i capelli sconvolti in elicoidali e appiccicosi assembramenti e li tirò verso l’alto, sperando che fossero come i fili di una marionetta scesi per un attimo all’interno della sua testa, muniti ognuno di un amo, per agganciare quel corpo osseo martoriato fino a trascinarlo via in qualche modo.
Desiderava con tutte le sue forze che quel miracolo accadesse, ma sapeva che non sarebbe stato ascoltato da nessuno. Che le cose sarebbero solo peggiorate. L’umiliazione era devastante, e se la immaginava nelle risate sommesse alle sue spalle del dentista e dell’assistente se si fosse presentato sulla poltrona del calvario, nel momento in cui avesse aperto la bocca per mostrare al mondo la sua portentosa carie. Se la immaginava nello sfottò maleducato di sua moglie Vanna con quelle troie delle sue amiche, che probabilmente aveva già messo in atto allo smartphone da giorni.
Non era una situazione accettabile, da qualsiasi lato la si investigasse.
Restava un’unica soluzione.
Marzio si diresse alla porta finestra della camera da letto, l’aprì, issò la tapparella e uscì sul terrazzo che si affacciava dal quinto piano sul cortile interno della palazzina. L’alba stava guadagnando spanne di luce all’oscurità, l’aria era fresca e pungente, ma questi erano dettagli che i suoi occhi e i suoi sensi registrarono solo come l’ultima mera constatazione della sua presenza tra i vivi.

Il patologo aveva svolto il suo lavoro all’obitorio con la solita alacrità. L’ultimo corpo che aveva sottoposto ad autopsia quella sera era stato quello di un giovane uomo di quarant’anni, un certo Marzio Fulcroni, che si era gettato dal balcone del suo appartamento per motivi ignoti.
Tra le note particolari del suo responso autoptico, solo una cosa lo aveva colpito… non le fratture multiple scomposte di braccia e gambe e non lo schiacciamento del cranio che aveva fatto collassare il cervello facendo schizzare dalle orbite gli occhi come due pupazzi a molla. La cosa che non lo avrebbe fatto dormire per diverse notti erano le condizioni delle arcate dentali: ben trentuno denti compresi quelli del giudizio erano completamente cariati, neri in ogni loro parte, come se quell’uomo avesse fumato per dieci vite dieci pacchetti di sigarette senza filtro al giorno… solo un dente, il premolare 35, era intonso, perfetto, intatto, e il suo avorio luccicava magnetico e bellissimo come un diamante.

Illustrazione di Horacio Quiroz

Gli esemplari

Il giorno dello spettacolo meglio recensito degli ultimi dieci anni, che fu anche il giorno dell’incidente, tutti gli ordini di palchi erano occupati, dalle barcacce alla platea.
L’uomo con le motoseghe installate nelle braccia, barcollante e ubriaco di sangue, s’inoltrava nel pubblico alla fine di ogni rappresentazione, con la cesta delle offerte assicurata al cranio. Anche quando i geyser di carne e liquami non gli inclinavano la maschera, ostruendo la parte superiore del mondo, gli risultava impossibile vedere gli spettatori dalle ginocchia in su. Il lucore ramato del palco delineava solo le zampe degli scranni, i piedi nudi intrecciati, gli stinchi filiformi. L’uomo poteva al massimo indovinare quando un bouquet di dita oblunghe, carico di anelli, teso in uno sforzo di delicata precisione – per non schiacciarlo – discendeva dalle altitudini oscure del teatro e lasciava cadere un soldo, una pepita o una breve recensione nel cesto delle offerte.
«Grazie. Obbligato. Grazie.»
Dopo il suo passaggio, molti spettatori attingevano alla scia di sangue per segnarsi la fronte, o per inumidire un fazzoletto rigido come la tavolozza di un pittore che dipinge solo tramonti e incendi. Alcuni trovavano pezzi di maggior valore, che raccoglievano furtivi: un’infiorescenza carnosa su uno stelo d’osso, il liscio boccolo di un nervo, una briciola rossa glassata di cheratina che gli uomini con le tenaglie al posto delle mani perdevano sul cammino. Le parti riconoscibili valevano di più, come l’orecchio quasi intero che il Responsabile del Consiglio aveva pagato una somma esagerata, chiacchierata e mai divulgata. Non era neanche il pezzo migliore della sua collezione.
Già due anni prima sarebbe stato inconcepibile. Il direttore artistico, col beneplacito dell’industria, aveva ordinato che le tubature trasparenti che formavano il nome del teatro, sul muro esterno, fossero temporaneamente opacizzate attraverso un ingegnoso sistema a pressione, così da estorcere al pubblico in strada – in attesa di assaggiare il flusso estatico che costituiva l’esperienza media degli spettatori in sala – il pagamento di una quota collettiva che avrebbe allentato la pressione sulle tubature e mostrato il bolo sanguinolento al loro interno – la materia organica raccolta nelle vasche sotto al palco, triturata, capitalizzata e infine destinata al bioreattore annesso. E non solo gli uomini con le gengive tempestate di lamette si abbassavano a seminare capolavori per invogliare gli spettatori a tornare; il teatro stesso organizzava mostre speciali a porte chiuse che culminavano in performance personalizzate a prezzi non trattabili, riservate in esclusiva ai clienti più facoltosi.

Sofferenze e umiliazioni. Ecco cosa. Alleviate solo dalla consapevolezza che la tradizione e lo spirito artistico, magari con qualche livido e un occhio nero, sarebbero sopravvissuti anche a questo periodo disgraziato.
Lo spettacolo in questione era il terzultimo della giornata. Occupava la fascia di maggiore affluenza, quando andavano in scena gli esemplari maschi, piccoli e grandi – che, per motivi poco chiari, ricevevano un punteggio sempre superiore agli altri. Si era ipotizzato che i capelli lunghi delle femmine impedissero la chiara percezione dell’espressione quando si appiccicavano al viso nei momenti di massima catarsi – questa almeno l’opinione di alcuni critici e fruitori esperti – ma le sperimentazioni successive (femmine coi capelli corti, maschi coi capelli lunghi) non avevano corroborato l’ipotesi, che dunque venne scartata in favore del mistero.
Una cosa era certa: a reggere tutto era l’irriducibile varietà che caratterizzava la trasformazione da esemplare vivente a opera d’arte, il cui spreco immediato (vasche, tubature, bioreattore) accorciava il tempo di fruizione aumentandone esponenzialmente l’intensità emotiva – in delizioso contrasto con i cosiddetti trofei, pezzi speciali lasciati in pasto all’immaginario del pubblico per qualche minuto in più, a volte conservati per le suddette mostre a porte chiuse.
Dopo due ore e mezza di escalation – era il momento dei maschietti più teneri, riservati al finale – accadde che un fantasioso agglomerato di piastre a pressione, a seguito dell’esplosione di un tubo d’aria compressa, smottò verso la rete trasparente di contenimento che separa il palco dalla platea, lacerandola dalla sommità. Un maschietto – non quello che era sotto la piastra, ridotto a un tappetino bitorzoluto mezzo strisciante, ma quello in fila prima di lui – usò la macchina inclinata come trampolino per lanciarsi giù dal palco.
Non che non fosse mai successo. In genere gli esemplari non si orientano nei corridoi, a volte neanche riescono a uscire dalla sala, e prima o poi un addetto alla trasformazione li accalappia. Quella sera il maschietto si fece agguantare da uno spettatore, mentre con un piede rotto azzardava l’arrampicata sui gradini della platea. La cosa ringalluzzì il pubblico, che da qualche scena era sazio di piacere estetico e, al netto degli inconvenienti tecnici, era più interessato al brontolio dei propri stomaci.
Lo spettacolo s’interruppe: i tecnici tolsero la corrente per evitare danni ulteriori, arrestarono il flusso degli esemplari, sganciarono la rete di contenimento per sostituirla con un’altra più resistente e tagliente, ma non riaccesero le luci principali. Da dietro le quinte sbucò il direttore artistico, a cui l’esperienza decennale e i tempi grami avevano suggerito come trasformare un incidente deprecabile in un’occasione di reciproco guadagno sia per il teatro che per il pubblico.
Il direttore salì su una scala, per non importunare la schiena di nessuno, e rivestì i palmi dello spettatore con un foglio di plastica morbida. Il maschietto non se ne curò, prima per la disperazione indotta dalla vista di un suo simile senza maschera – latrati, testate ripetute, rotolamenti, versi inarticolati che potevano essere richieste d’aiuto (forse consce, forse no) – poi per il muto terrore con cui cercò di processare il volto dello spettatore, che la curiosità aveva attratto verso il basso, nell’umida luce rossastra del palco, su uno sfondo di volti simili.
Un tecnico srotolò un tubo flessibile e lo introdusse con delicatezza nella vasca improvvisata. Ne sgorgò un fiotto trasparente che il direttore monitorò dietro la finestrella di una visiera protettiva. A contatto col maschietto, il liquido arrossì come una vergine innamorata. Nessuno spettatore fu così sfrontato da cogliere l’arto ancora integro che il maschietto tendeva nella semioscurità, forse sperando che qualcuno potesse salvarlo in tempo. Il direttore arrestò il flusso per non annacquare l’opera, e concesse a tutti l’abluzione.
Deliquio. Gradimento sproporzionato. Recensioni storiche.
Se non che, in fila dietro al piccolo fuggitivo, al momento dell’incidente, ce n’era un altro. Quando la piastra a pressione malfunzionò, l’addetto al contenimento, che in genere circola dietro le quinte con una varietà di pungoli e storditori elettrici, avrebbe dovuto quantomeno tenere d’occhio gli esemplari ancora non trasformati, se non proprio costringerli verso il palco – l’odore di sangue e urina rende recalcitranti quelli meno suscettibili ai farmaci. Forse il maschietto si nascose dietro una tenda, o si finse morto vicino a quello che strisciava sotto le piastre inclinate. In ogni caso, evase dallo stesso strappo nella rete e si fermò a fissare il capannello di piedi ossuti che circondava il suo conspecifico. Nel panico (forse conscio, forse no) approfittò della distrazione generale per correre sotto uno scranno vuoto e arrampicarsi lungo le zampe cesellate, fino all’indentazione che sporgeva dalla parte inferiore della seduta.
Non osò muoversi per tutto lo spettacolo successivo, ma durante quello finale si affacciò a spiare il palco. Gli risultava difficile elaborare tanta informazione in uno stato di tachicardia perpetua, sbalzi di temperatura e alluvioni di sudore. Annusò una possibilità di fuga nella sacca profumata che lo spettatore sopra di lui aveva infilato tra i piedi divaricati. Quell’odore stantio e pungente lo inebriava, fra tutte le sensazioni possibili, di totale protezione materna. In mancanza di alternative, il maschietto si calò nella sacca con attenzione, toccando tutto e non riconoscendo niente. Trovò un angolo ovattato che gli diceva: Qui, e precipitò in un sonno indistinguibile dalla perdita di coscienza.

«Io non lo so, me lo sono ritrovato in borsa quando siamo usciti.»
Quattro volti, due acerbi e due maturi, alternavano espressioni inintelligibili dietro una fila di sbarre tortili in legno blu.
«Se glielo riportiamo ci danno una ricompensa. Sono tutti numerati, lo sanno che gliene manca uno. Un maschio piccolo, poi.»
Qualcuno aprì la porticina della gabbia.
«Sì ma non allungate le mani. Loro hanno un cuore più debole del nostro, non lo vedete che è spaventatissimo?»
Un giovanotto inquadrò nella porticina un occhio pieno di iridi.
«Mamma, ti prego
«Io lo riporterei e m’intascherei la ricompensa.»
Il maschietto si tastò il collare, suscitando squittii di dolcezza da tre spettatori su quattro.
«Dai, non possiamo portarlo indietro. Guarda cos’è.»
I piccoli esultarono intorno alla madre con discrezione decrescente. Il padre contenne la situazione con un discorso sulla responsabilità, il rispetto per il prossimo, la differenza tra un animale e un giocattolo, il cibo, la cacca e la pipì. I figli giurarono di fare il proprio dovere prima ancora di sapere quale fosse.
Confezionarono un piccolo nido – soluzione temporanea prima di comprare un lettino prefabbricato – lo infilarono nella gabbia e lasciarono la porticina aperta: che il maschietto esplorasse e familiarizzasse a tempo debito, senza pressioni. Intanto avrebbero pensato a un nome.

Dusty Ray, “Slouching towards marbled slumber”

Il ragno

Il risveglio non è indolore.
Prima ancora di aprire gli occhi, percepisce la mano appiccicosa sul cuscino. Le lenzuola lo avvolgono in un bozzolo umido e gli impediscono i movimenti. Tasta la chiazza di sudore e bava, gli occhi ancora incapaci di distinguere le forme della stanza, l’origine del suono, i contorni squadrati della sveglia. Si rivolta sul materasso, strattona le lenzuola, cerca di estrarre ossigeno da quella melassa che riempie la stanza. Allunga un braccio per fermare il pulsare ritmico che lo scuote fino alle sinapsi, tocca qualcosa di vischioso e ritrae la mano. Apre gli occhi nel buio e controlla l’orario sul quadrante luminoso: mancano cinque minuti alle sei, non è ancora suonata la sveglia.
Si alza e si dirige verso il bagno con gesti automatici, le braccia che pendono rigide lungo il corpo seminudo. Sbatte le ginocchia contro i sanitari, percepisce l’odore sgradevole della propria urina scivolare lungo le pareti di ceramica. Si strofina gli occhi davanti a uno specchio vuoto, i gesti per lavarsi la faccia sono stilizzati e inutili, servono solo a mandare avanti la routine del mattino, lo schema che gli permette di prepararsi e uscire di casa senza avere ancora attivato il cervello. Il corpo si muove per automatismi: mette la caffettiera sul fuoco, prende le fette biscottate dalla dispensa e la marmellata dal frigo. Quando apre lo sportello appiccicoso di ditate zuccherine non può evitare la zaffata di qualcosa andato a male. Allunga una mano fino all’interruttore. Anche questo è appiccicoso, sembra che qualcosa di denso coli dal soffitto per ricoprire le pareti del suo appartamento, i suo mobili, il pavimento stesso. Anche masticare e deglutire sono gesti automatici, la poltiglia che scende nella sua trachea non lascia traccia nel gusto o nella memoria. Lascia mezza fetta con marmellata di fragole sul piatto, finisce il caffè e si alza dal tavolo senza aver ancora prodotto un pensiero cosciente. Striscia i piedi sudati su un pvc altrettanto umidiccio fino alla camera da letto, ogni passo più difficile del precedente.
Prende il cellulare dal comodino per farsi luce e si accorge di come l’ora del display non combaci con quella della sveglia. Cerca il caricabatteria a tentoni, prima di rinunciare e indossare i vestiti da ufficio ammucchiati in fondo al letto. Un completo stropicciato e una camicia che progetta di lavare da almeno una settimana. Il sudore nuovo si mischia con quello dei giorni passati e un brivido lo fa starnutire sulla mano impreparata. Se la asciuga sul lenzuolo, prende il cellulare con l’altra e torna nell’ingresso, dove lo aspettano la borsa e le scarpe. Sente un ronzio provenire dalla cucina, lo sfrigolio di centinaia di mosche che strisciano le proprie zampe anteriori. Ignora quel suono così come il battito doloroso che lo insegue da prima del risveglio. Ora si è trasformato in una specie di sibilo strisciante, denso, ma lui ormai indossa le scarpe da ufficio, prende la borsa di similpelle e apre la porta di casa. Mentre esce sul pianerottolo sente qualcosa di umido cadere e colpire una superficie irregolare, un tonfo difficile da identificare.
Percorre le quattro rampe con passi precisi, misurati dalla ripetizione, trascinando dietro di sé la borsa, più pesante di quanto si ricordasse. Davanti al portone, la luce dei lampioni filtra dai vetri rotti e gli permette di assistere al corpo di una blatta che cede rumorosamente sotto al suo peso. Intravede altri scarafaggi muoversi lenti negli angoli dell’androne. Spinge il vecchio portone e lo lascia richiudersi dietro di sé, con un suono che gli ricorda quello della blatta sotto le scarpe.
Una volta sul marciapiede guarda verso l’alto e vede le finestre spente dei condomini illuminate dai lampioni stradali. Nella piccola porzione di cielo visibile da lì non ci sono né luna né stelle, solo una tenebra densa che fa da tela per la luminosità riflessa dalla città. Un altro starnuto gli ricorda di mettersi in moto, iniziare la lunga passeggiata che lo porta in ufficio tutti i giorni e lo riporta a casa ogni tanto.
I passi proseguono di cono di luce in cono di luce, calca i marciapiedi della città con passo incerto ma inarrestabile. Non si ferma neanche ai semafori, inutili a quell’ora del mattino. L’unica breve ombra che riesce a scorgere per la via è la propria, quando passa sotto ai lampioni, per poi tornare nelle tenebre da cui è venuto. Prosegue fra condomini sempre più alti, balconi e finestre fatiscenti, fra cassonetti sfasciati e auto abbandonate. Supera le bici prive di una ruota o di un sellino, i motorini rigati, inciampa nelle radici degli alberi che crepano il marciapiede. Ignora le vetrate dei negozi chiusi, le insegne al neon spente, i cartelli sbiaditi “VENDESI”. Alterna la borsa dell’ufficio da un braccio all’altro, le dita e le spalle sofferenti per il peso.
Ogni tanto si ferma a prendere fiato, controlla il cellulare e nota il livello della batteria sempre più basso. Ricorda anche l’orario sballato e lo ripone in tasca senza farsi altre domande. Le mani emergono dalle tasche più umide di come vi erano entrate. Forse anche per questo la borsa risulta così scivolosa e difficile da tenere, gonfia com’è.
Mentre supera l’ennesimo portone scheggiato, vetri rotti e graffiti, sente una fitta al piede sinistro. Prova a ignorarla per qualche metro, ma sotto al lampione successivo è costretto a fermarsi per controllare: un chiodo arrugginito ha penetrato la suola della scarpa, ridotta sempre peggio. Si appoggia a un muro per estrarre il chiodo e controllare il piede. Il calzino è macchiato di sangue, la pelle gli fa male ma crede di poter camminare. Si rinfila la scarpa e sposta il peso da un piede all’altro per testare i propri limiti, e mentre è lì, impegnato in quello strano e impercettibile esercizio fisico, concentrato sul proprio corpo sudaticcio, nota una figura scura appoggiata al lampione successivo. Una sagoma umana abbandonata fuori dal cono di luce, quasi invisibile nell’oscurità.
Esita un momento, prima di riprendere la borsa appoggiata per terra, non senza uno sforzo cosciente. Forse per via del piede ferito, ma gli sembra sempre più pesante mentre zoppica di lampione in lampione, da un marciapiede all’altro. Sente l’urgenza di arrivare a destinazione.
Di rado un’auto veloce lo supera o gli viene incontro, le ruote che grattano l’asfalto, i fanali che per un attimo illuminano l’intonaco scrostato dei condomini e i veicoli abbandonati ai bordi delle strade. In un furgoncino dalle ruote forate, vede per un attimo una figura immobile, un uomo addormentato forse, al posto di guida. Ignora l’informazione e prosegue, affaticato e dolorante. È costretto a fermarsi dopo pochi metri per controllarsi le mani arrossate per il peso della borsa e il piede che continua a sanguinare. Si riposa sotto a un lampione e studia i fogli delle persone scomparse, per non pensare ai propri dolori. È tentato di buttare le scarpe e proseguire scalzo, ma desiste. Vorrebbe solo arrivare in ufficio, sedere alla sua scrivania, accendere il computer.
Alza la borsa rigonfia con entrambe le mani questa volta, fatica a staccarla dal marciapiede appiccicoso, sporco. Cerca di camminare con il peso sulla destra, un passo lento ma regolare. L’obiettivo è non fermarsi più.
Eppure rallenta quando vede una mano sporgere da sotto una saracinesca mezza abbassata. Riesce a notare le unghie scheggiate e nere anche senza fermarsi, la pelle macchiata, rugosa, quella di un vecchio. Sulla vetrina successiva nota un cartello strappato che recita, o recitava, “prossima apertura”.
Si rende conto di essere sempre più lento, ma l’importante è non fermarsi. Ormai porta la borsa con entrambe le mani, la trascina quasi, le spalle e i gomiti doloranti. I piedi faticano a staccarsi da terra, forse ha pescato una cicca, o i residui degli alberi, i pollini, la resina, non sa cosa pensare e non gli importa trovare una spiegazione razionale alla propria fatica, vorrebbe solo che avesse fine.
Per attraversare una strada, alza la borsa e la fa ricadere sul marciapiede successivo, dopo qualche passo affrettato su di un asfalto sciolto e colloso. Il dolore dal piede sinistro si è propagato a tutta la gamba, forse perché cammina storto, o forse per via di quella borsa che lo tira tutto sulla destra.
Quando svolta in una strada più grande ma altrettanto vuota, riconosce le file di insegne a led delle sale slot, le scritte OPEN blu e rosse che punteggiano la notte. Davanti a una di esse, un uomo è disteso lungo tutto il marciapiede, avvolto in stracci lerci e consumati. È costretto ad alzare le gambe e soprattutto la borsa per superarlo. Scavalca il corpo senza guardarlo in faccia, anche se non può evitare di distinguere i piedi scuri e gonfi, deformi.
Suda per la fatica e non solo per l’aria sempre più densa che lo circonda. Fa troppo caldo per il suo vestito, ma se si togliesse la giacca non saprebbe dove metterla. Lascia cadere la borsa che sembra sul punto di esplodere. Colpisce il marciapiede con un suono umidiccio e rimane lì davanti, impassibile. Sospira, la supera e si volta. La afferra con entrambe le mani e inizia a trascinarla sul marciapiede, procedendo di spalle.
I lampioni illuminano lo sforzo sul suo viso, i capelli che gli si appiccicano sulla fronte, i vestiti che lo avvolgono in un bozzolo di pieghe sintetiche e strati di sudore. Spinge sui talloni, tira con le spalle, le dita contratte attorno all’impugnatura della borsa, fino a che non gli cedono all’improvviso, per il dolore e la fatica.
Cade all’indietro, sorpreso più che sofferente per l’impatto con la superficie irregolare del marciapiede. Solo dopo qualche istante sente una fitta allargarsi nel cranio fino alle pieghe del cervello. Chiude gli occhi, sfinito, e rimane immobile, disteso a terra, la borsa ai suoi piedi.
Li riapre giusto in tempo per vedere un lungo artiglio peloso uscire dall’apertura laterale della valigetta.

“Homage to Redon” di Jimm Gerstman

Il Dizionario del Diavolo, di Ambrose Bierce

Mondadori finalmente ripropone, nella sua prestigiosa collana Oscar Draghi, un’opera fondamentale di un autore ottocentesco che non dovrebbe mancare sugli scaffali di ogni buon novocarnista. Un autore, Ambrose Bierce, da posizionare tra i molto più considerati Poe e Lovecraft, ma che a questi ha davvero poco da invidiare.

Bierce nasce nella prima metà del XIX secolo e muore nel 1914 in modo del tutto misterioso. L’anno prima, infatti, ormai ultrasettantenne, parte come corrispondente per il Messico per seguire la guerra civile di Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Durante la battaglia di Ojinaga, Bierce scompare. Una teoria sostiene sia stato fucilato contro il muro del cimitero di Sierra Mojada dagli uomini di Villa. Secondo un’altra versione, lo scrittore non sarebbe sopravvissuto alle ferite riportate nella battaglia. Altri, infine, propendono per il suicidio. Ma il decesso è solo l’apice di una vita dedicata al giornalismo, alla narrativa, alla parola in generale.

Caratteristico dello stile di Bierce è l’atteggiamento satirico. Testimone ne è proprio questo Dizionario del diavolo (solo la prima parte del volume), una raccolta alfabetica di lemmi dalle definizioni ironiche e sarcastiche, spesso al limite del dissidente. Un modo di fare, questo, che, come affermano gli autori della bellissima introduzione, Franco Pezzini e Massimo Scorsone, gli causerà diverse antipatie nell’ambiente giornalistico e non solo, nonostante Bierce non fosse una persona scorbutica e difficile da frequentare. Non a caso infatti, specificano Pezzini e Scorsone, “la ferocia di Bierce è tutta tesa a far cadere maschere, finzioni scandalose, ipocrisie: il suo Satana è quello del Libro di Giobbe, pubblico ministero alla corte di Dio, e in effetti l’uomo Bierce ha un proprio ruvido, indignato senso di giustizia che anima sottotesto l’operazione lessicografica.”

Qualche esempio del tono cinico dei lemmi del Dizionario:

“ABITUDINE (habit), s.f. Manette per uomini liberi.

ANNO (year), s.m. Periodo di tempo formato da trecentosessantacinque delusioni.

IDIOTA (idiot), s.m. Membro d’una grande e potente tribù che ha sempre esercitato un dominio assoluto sulle vicende umane. L’attività dell’idiota non si limita a uno specifico campo di pensiero o d’azione, ma “pervade e regola il tutto”. Ha sempre l’ultima parola; inappellabile è la sua decisione. È arbitro della moda, delle opinioni e del gusto, stabilisce i limiti del discorso e delinea i confini della condotta.

SANTO (saint), s.m. Peccatore morto, riveduto e corretto […]”

E si potrebbe andare avanti per molto…

Tutt’altro che progressista e democratico, dunque, Bierce mal sopportava le avanguardie letterarie, privilegiando lo stile al contenuto di una storia, che, inoltre, avrebbe dato i suoi frutti migliori nella sua forma breve. Completano infatti questo volume alcune raccolte antologiche di racconti che spaziano dalla narrativa di guerra (la cui maniera influenzerà successori altrettanto illustri come Hemingway e Crane) alle più note ghost stories.

In un’ideale top 5 inserirei sicuramente: Uno degli scomparsi, le brevi vicissitudini di un soldato posto difronte al suo stesso fucile; L’uomo e il serpente, emblematica situazione in cui quello che vediamo non sempre corrisponde alla realtà; La scienza in primo piano, che rimanda a spazi non-euclidei proto-lovecraftiani che permetterebbero l’esistenza di singolarità extradimensionali; Una conflagrazione imperfetta, in cui le competenze affabulatorie dello scrittore continuano a illudere il lettore e a catapultarlo in strutture ricorsive di contenuto e forma; e infine, forse il mio preferito, Il padrone di Moxon, racconto fantascientifico che anticipa le visioni lisergiche di un certo Philip Dick.

Un esempio per tutti estratto proprio da quest’ultimo:

“Perché non potrebbe senza affermare ciò che vorrebbe negare, ovverosia una collaborazione intelligente fra gli elementi costitutivi dei cristalli. Quando i soldati formano le linee o i quadrati, lei la chiama ragione. Quando gli stormi d’oche selvatiche in volo disegnano una V, lei parla d’istinto. Quando però gli atomi omogenei d’un minerale, muovendosi liberi in una soluzione, compongono forme geometriche perfette, o le particelle d’umidità ghiacciata le meravigliose strutture simmetriche dei fiocchi di neve, lei non ha nulla da dire. Non ha nemmeno inventato un nome per nascondere la sua eroica irrazionalità.”

Ma limitarsi a cinque titoli significa svilire notevolmente il volume, ricco di dettagli e particolarissime storie, che, finalmente tradotte nella nostra lingua (da Michele Piumini e Maria Grazia Bosetti), rendono giustizia a un autore altamente sfaccettato come Bierce. Come giustamente sostengono i curatori, fino a questo momento, in Italia, “le antologie circolanti […] hanno sottolineato molto un colore fantastico che in Bierce rappresenta però solo una delle tinte d’affresco, né forse la principale. Più corretto sarebbe parlare di macabro, non tanto nel senso di un Grand Guignol più o meno coevo all’ultima produzione di Bierce, o di certo horror di fumetti e di pulp che a lui si ispireranno spesso”, quanto un macabro inteso come “un precipitato di storia americana: storia civile e incivile, potremmo dire, oltre che religiosa, spiritismo compreso, in una sovversione cinica e nichilistica che rende il sottofondo persino più truce degli orrori dipinti”. E a noi che il macabro piace, non possiamo farci sfuggire questo balenottero di quasi settecento pagine.

La casa alla fine del mondo, di Paul Trambley (Mondadori, 2022)

Paul Trambley è autore colto, raffinato ed estremamente versatile.
Vincitore di due Premi Bram Stocker per i romanzi, qui ve ne presento uno, La casa alla fine del mondo, pubblicato da Mondadori nella collana Oscar Fantastica, tradotto da Curtoni e Parolini.

In una parola: la fine del mondo, l’apocalisse, la fine-di-ogni-cosa; come la prendereste voi?
Se qualcuno ve la venisse ad annunciare, ci credereste?
E se per scongiurarla quattro strani emissari che sfoggiano armi e colori che evocano armi e tinte dei quattro cavalieri dell’Apocalisse di Giovanni, vi esortassero a sacrificare deliberatamente un componente della famiglia, voi che fareste?

La ricostruzione puntigliosa dell’ambientazione e l’attenta caratterizzazione dei personaggi sono sicuramente un punto di forza di Trambley; grazie a questi il substrato irrazionale della situazione prende una piega ancor più orrorifica, scioccante, e il lavoro da tornio narratologico sulla creta dell’incredibile mescolato alla rappresentazione dei sentimenti quotidiani della famiglia protagonista prende forma e sostanza, ci inabissa in una storia strana, in cui lo strano, man mano che si procede, diventa forse più reale, più plausibile, forse accettabile seppur non meno terrificante, in un climax che si fa sempre più sostenuto, lirico, intenso.
La famiglia in questione è composta da Eric e Andrew,  due uomini caratterialmente molto diversi ma che si amano intensamente,  e la loro figlia adottiva di sette anni Wen.
Si prendono una pausa dalla quotidianità sistemandosi in un cottage solitario del New Hampshire isolato tra i boschi e in riva a un lago. Certo, è uno degli stereotipi su cui si formano molte storie horror: l’isolamento è sempre attrattiva per succulente prese di posizione del Maligno, calamita per pazzi maniaci assetati di sangue, di scrittori che sbroccano alla Shining o di villains soprannaturali del calibro delle molte Case dell’orrore cinematografiche.
Nel nostro caso, ne La casa alla fine del mondo, Trambley è molto più astuto, e chi si farà sulla soglia della tranquilla famigliola americana, sarà un altro tipo di personaggi, molto più ambivalenti e spaventosamente umani (e anche le loro armi, ragazzi, oh quelle armi! vi faranno impazzire!). Ma non voglio svelarvi di più della trama, perché questo romanzo è da gustare tutto senza indizi, perché le occasioni che vi faranno sviare e tentennare e che vi faranno chiedere: ma è così o no? saranno molte (cesellate con bravura posata, quasi chirurgica dall’autore).
Interessante e in parte originale (non originalissimo in verità) il modus operandi dell’autore nel passare da un punto di vista a un altro per ogni capitolo: vedremo dunque il susseguirsi della storia sotto il punto di vista di un marito, di un altro, di uno degli aggressori e di un altro di questi, della figlia, ecc. fino alla sarabanda finale, all’azzardo stilistico dell’ultimo capitolo (lirico e intenso) di presentare una specie di doppio punto di vista su entrambi gli uomini insieme a una terza voce narrante, onnisciente, che vi si intromette, assumendo in pratica la personificazione di entrambi – sperimentazione piuttosto bizzarra ma che ci regala, oltre che uno storia che vi arpionerà sulle pagine, anche un prezioso contributo alla metanarrativa.

Insomma, Tremblay è da leggere, apprezzato da King e da tutti i grandi autori moderni, è tra i contemporanei ormai una certezza. Ai novocarnisti che leggono il nostro sito, sono sicuro che troveranno in questo romanzo spunti interessanti per articolare il loro immaginario violento e insieme poetico, fantastico e mai banale.

IN UTERO, di Gianluca Morozzi

Morozzi non è un autore dalla scrittura prorompente o visionaria, neppure lirica o ricercata. È molto essenziale e tagliente. Non scrive una parola di troppo e non lascia sognare l’autore con voli pindarici di alta letteratura.
Eppure è uno che conosce assai bene l’arte del creare una storia. È scrittore “di mestiere”, sa quel che fa e lo fa con accortezza, con stile conciso e disciplinato. Sa farti entrare in una storia con chirurgica finezza e anch’io, leggendo In utero, opera edita da Cut-Up Publishing  nella collana Incubazioni curata da Stefano Fantelli (sua la prefazione), non riuscivo a smettere di leggere, talmente l’esposizione della storia fosse invitante, curata. Le premesse di questa novella, i primi capitoli, ci fanno supporre che sia una specie di libro di formazione. Ci sono tutti gli ingredienti: i giovani amici nel cupo paese di provincia che non regala nessun tipo di ambizione, una vita modulata tra giri in bicicletta, qualche birretta, il passaggio nei rari bar/osterie della zona e poco altro. C’è la scoperta di una passione, la scrittura, e c’è la scoperta del capoluogo, Bologna. E poi c’è il segreto insondabile, la paura di crescere, ci sono misteri del passato e ambiguità famigliari.

Morozzi, autore poliedrico, qui per la prima volta tratta il genere horror e l’orrore se ne esce (ma come se ne esce!) da oltre metà libro, come se tutta la parte precedente fosse solo la rincorsa per questo salto nel buio. Rincorsa calibrata, non c’è dubbio, il giusto proemio a questa immersione nella Spleentown del protagonista, come lui chiama il suo paesino emiliano di appartenenza.
L’orrore però, quando scaturirà, sarà veramente agghiacciante e in questo libro i sapienti preliminari di cui ho parlato prima, modellano quell’agghiacciante strappo della realtà che le ultime pagine ci regaleranno, con quel metodo sinuoso, in un certo modo dal moto centripete narrativo che circolarmente ti conduce allo zenit, facente parte di quella letteratura che sapientemente lascia gli indizi per strada per assicurarsi un finale da shock. Non posso non citare vagamente due episodi veramente da brivido, che mi hanno colpito non poco: una bizzarra e nerissima favola che racconta la madre del protagonista e l’inquietante voce che scaturisce dal pilastro del voltone sotto la Torre dell’Arengo (a Milano c’è una struttura similare, a Piazza dei Mercanti: “la galleria dei sussurri).


Inutile stia qui a raccontarvi la trama, gli indizi già ve li ho elargiti; si parla di crescita, sesso e dannazione, di malefici e insicurezze, con una conclusione da sballo. La solida ambientazione italiana è un motivo in più per leggere questo volume.
La copertina è fantastica e la cura grafica ed editoriale pure, come siamo abituati con i libri Cut-Up.
Libro accattivante per una storia breve e di veloce lettura, non vi lascerà indifferenti.
Entrate anche voi, per qualche ora, a Spleentown.

Zombie Night – Ultima Parte

13.

La sera successiva rivedo il tizio, quello ricco e ciondolante, con la faccia da bamboccio e gli occhiali scuri. È accompagnato dal padre.
Il ragazzo ha una voce da castrato, sottile e piagnucolante, ostentante una vanità capricciosa, da coglione agiato qual è.
– Eccoci papà, è un regalo per il nostro giorno speciale – dice, appena entrato, sventagliando le mani davanti a sé, come un anfitrione che presenta la tavola imbandita al proprio ospite tanto atteso.
Di che tipo sia questo giorno speciale non lo so, ma me lo posso immaginare quando riconosco il padre.
È Otis Kardashian, il magnate della carne in scatola. Un ampolloso figlio di puttana dal corpo di balena rinchiuso in un doppiopetto bianco e pantaloni con la riga in mezzo, capelli bianchi come la neve tagliati a spazzola, un ovale lardoso e sudato come testa. Stringe tra i denti un sigaro e sulla camicia di seta è visibile una cravatta texana. Mocassini bianchi e anelli sulle dita. L’anello sull’anulare è un teschio che digrigna i denti di diamanti. Non replica al figlio, scorreggia un grugnito dalla bocca, come se al posto della bocca avesse un culo. Poi bofonchia un borborigmo di compiacimento e l’orifizio tra le labbra sottili si distende in una piaga di pelle traslucida.
Sicuramente padre e figlio, questi due tizzoni di un inferno produttivo di carne spolpata, lessata e immersa nella gelatina, sono qui a festeggiare un nuovo buon affare andato in porto.
– Ah ah ah, Paul! – sghignazza il grassone, con ilarità improvvisa, quando il figlio tira indietro una sedia imbottita tra i tavolini e la porge alle chiappone del padre.
– Due Wild Turkey – schiamazza con la sua voce da topo Paul, in direzione di Sara.
Si siedono.
La penombra e le luci rosse trasformano la faccia di Otis in gelatina. La sinuosità elegante e spocchiosa di Paul, invece, sembra calamitare un buio dorato, che gli attraversa le orbite e gli zigomi donandogli la plasticità fosca di un quadro di José de Ribera.
C’è un altro gruppo di avventori assiepato in fondo alla sala. Bevono in silenzio e aspettano il momento giusto per scendere nella Bolgia.
Rebecca barcolla con la sua andatura zoppa verso il tavolo e porge i bicchieri con le due dita di bourbon.
Bisogna raddrizzare quella camminata, gli ho detto a Paula. Mi ha risposto che ci penserà, ma è presa ancora dal condizionamento della nuova arrivata.
– È una correzione da eseguire con la massima cura. Non vorrai che succeda qualcos’altro di spregevole, vero? – mi ha detto.
Il suo tono era tranquillo, ma io ho percepito in quella domanda retorica un che di minaccioso. In fondo sono nelle sue mani. Se qui qualcosa va male, le conseguenze possono essere catastrofiche.
Mi faccio servire la solita vodka da Sara, e quando giro di nuovo lo sguardo ai tavoli nella penombra, Paul e suo padre non ci sono più.
Sono scesi nella Bolgia.
Non perdono tempo.

14.

Tutto avviene poi in maniera così repentina e frenetica che sembra un incubo. Uno di quegli incubi che quando ti svegli non ti ricordi pienamente, ma una nota di inquieto terrore ti si attorciglia in pancia. E fa male.
Non sono passati che venti minuti da quando ho visto sparire la coppia nel piano sotterraneo che un fracasso condito da un grido straziante interrompe la mia meditazione verso il bicchiere vuoto che stringo nel pugno.
Armande scaturisce dalle scale con l’espressione tramortita e greve di chi ha visto un fantasma.
– Merda! – farfuglia con un tono spaventato, poi si addossa al muro, il volto cinereo e sfuocato, come se cercasse dentro di sé la forza di articolare un pensiero.
Dalla Bolgia, un grido: – Quella gran troia!
Poi un’altra voce, quella stridula e metallica di Paul, trapassata da una nota di panico: – Cosa è successo, papà!
Guardo dritto negli occhi di Armande, ma questi rimane immobile, terrorizzato. È grottesco come un bestione come lui sia ora annientato dalla situazione, strizzato contro la parete, inerme. Meno male che lo pago per assicurare l’incolumità di tutti.
Io già mi immagino un’altra défaillance organica di una non-morta. Mi vedo la testa di una di quelle troie che è cascata in terra mentre il ricco grassone la stringeva in vita cercando di leccarla sul collo azzurrato.
Attirato dalle urla e dal casino giunge anche Lucius; questa volta ha già in mano il suo fucile e lo sguardo freddo e audace in parte mi rassicura quando corriamo insieme giù per le scale.
Dalla sala rotonda Berenice mi viene incontro con gli occhi lucidi e stupiti, le ciglia azzerate dalle luminescenze verdi del lampadario. Si attorciglia le dita ossute delle mani.
– Non so cosa…
Da un corridoio bombardato dai neon rossi spunta Otis. Il ciccione ha le braghe calate sui polpacci e sullo stomaco abnorme veste solo una canottiera. Stringe a coppa le mani in mezzo alle gambe. Una salsa rossa gli spurga tra le dita, il sangue cola sulle cosce corpulente e glabre, puntinando il parquet di goccioloni; il volto grasso e opalescente, i capelli spettinati, untume di sudore che gli inonda la faccia configurata in una smorfia di dolore lancinante. Nella bocca allargata vedo la sua lingua che si muove, mollusco rapito dalla frenesia.
– Quella GRAN TRO-III-AAAA!
È stato morso. In mezzo alle gambe. Non so come sia potuto accadere.
Sembra impossibile.
Tutti hanno la propria croce, mi diceva mia madre.
Dalle spalle del vecchio che sbraita piomba barcollando il figlio. Veste la camicia completamente sbottonata, è a piedi nudi e si trattiene con una mano i pantaloni slacciati. Nell’altra mano impugna una pistola, e se la sventola davanti al naso, fuori di sé. Una fottuta Colt 45, un vecchio revolver. Ora che non indossa gli occhiali neri, posso vedere quei suoi occhi strizzati da crotalo, le occhiaie bluastre.
– Come cazzo è che ha una pistola quel frocio? – urlo, diretto non so esattamente a chi.
Lucius fa due passi, stringe con un ghigno il fucile, si appoggia il calcio nell’incavo della spalla e punta la canna in mezzo alla sala.
Qui sono cazzi.
Berenice si è riparata dietro la mia schiena, sento il suo respiro sibilante sul collo.
E io che neanche ho afferrato la Browning da dietro il bancone, come al solito.
– Con chi erano? – chiedo a Berenice senza staccare lo sguardo dai due cazzoni svestiti e stravolti che mi trovo davanti.
– Con Lucy e… con Cassandra.
Mi volto di scatto verso Beatrice. Lei si tira indietro, intimorita.
– Chi stava con Cassandra?
– Il giovane – risponde con un filo di voce.
È una pugnalata al cuore.
– Porca puttana! – grido. – Lo sapevi, lo sapevi…
Mi viene quasi da piangere.
– Zelda è nella Vergine, cosa dovevo… – balbetta Beatrice.
Esplode un colpo di pistola.
Paul. Quel figlio di puttana.
Proprio lui, a scopare con la mia Cassandra.
Quello schifoso rampollo viziato.
Lo stronzo sventola la pistola in aria come fosse la bandierina del traguardo di una gara di rally, dalla bocca della canna un filo di fumo argentato. Il grassone si è accasciato a terra, sulle ginocchia. Sbrodola sangue come se la vescica stesse pisciando ketchup.
Paul si abbottona i pantaloni, si accosta al padre, gli appoggia una mano sulla spalla, riflessi violacei si irradiano dai capelli neri.
Il vecchio digrigna i denti, con una mano incollata dal sangue gesticola indicando dietro di sé, verso il corridoio. Il suo anello a forma di teschio sembra ghignare furente con i denti smaltati di rosso.
– Ammazza quella troia, figlio… Mi ha staccato… mi ha staccato il cazzo. CON UN MORSO! CON I SUOI DENTI DA TROIA MORTA DEL CAZZO!
La testa di Lucy, a metà corridoio, spunta dalla tenda della sua cabina.
Il baluginio del neon le trasmette sul volto un sinistro riflesso di fiamma. Dalla bocca rimasugli scarlatti le sbrodolano sul mento.
Ma la non-morta è calma e controllata.
Come è possibile che abbia morso il vecchio?
Non ha perso il controllo, la disciplina di condizionamento si rispecchia nel suo sguardo assopito e mansueto.
E anche il siero e le droghe ipnotiche stanno facendo il loro lavoro; se così non fosse in questo momento sbaverebbe ringhiante alla caccia di carne viva. E anche la fame non c’entra, non può essere. La carne viene somministrata quotidianamente.
Ma poi penso: Lucy. Quella della lacrima.
Paula mi aveva avvertito. C’era qualcosa di insolito, di troppo strano, di anormale.
Qualcosa di troppo umano.
Non ho voluto crederle. Non ho voluto approfondire.
I vivi devono rimanere vivi, i morti devono restare morti.
Vero?
Paul si avvita su se stesso, si volta.
Otis manda un urlo agghiacciante mentre si strizza quel che gli rimane tra le gambe e il sangue gli scatarra una ragnatela rossa tra i polsi.
Lucius fa un passo in avanti. La canna dell’M40 dritto come una meridiana di ferro che punta sulla testa di Paul.
Dal corridoio, lo stesso dove è appostata Lucy, fa capolino anche la testa di Cassandra, dall’ultima cabina, la tenda nera che le accarezza le spalle nude.
Paul spara. Il colpo diretto alla testa di Lucy.
La non-morta non batte ciglio. Resta immobile. Il tronco del collo bagnato di luce vermiglia, le ciglia finte turgide come i denti di un pettine, il fard purpureo sulle guance che sembra combinarsi coi rimasugli di carne evirata in un’unica maschera di trucco. La sua lingua, lentamente, scorre sulle labbra, in un ralenti di sensualità cannibale, a recuperare i resti biancastri delle palle di Otis; poi ingoia, la gola che si muove come un cavatappi di pelle al neon.
La testa che esplode in un fiore di ventrigli cerebrali non è la sua.
Ma è quella di Cassandra, in fondo al corridoio. Paul ha sbagliato bersaglio.
Io urlo.
Paul ricarica la Colt, il tamburo ruota nella camera di scoppio. Il vecchio si è accasciato completamente nella palude della sua sbobba rossa.
La testa di Lucy scompare nella cabina, quella di Cassandra si spiaccica sulla parete, come una dalia di merda e cervella.
– Spara! – grido. Ho gli occhi umidi di lacrime e stringo insensatamente i denti.
Lucius non si fa attendere. Lo vedo che prende la mira, gli occhi azzurri che si strizzano, il dente d’oro che brilla di un’energia funesta.
Paul si accorge dell’obiettivo mancato, vede la propria preda che scompare oltre il tendaggio nero della sua cabina, si volta, inorridito cerca di capire se il padre sia ancora vivo. Il vecchio brontola consonanti senza più senso e sbava sul pavimento, ripiegato in una fisarmonica di grasso.
Paul ora volta lo sguardo su Lucius. Lo guarda con quell’espressione di torbida idiozia condita dallo spavento, dalla rabbia, dal tormento. Alza il revolver di pochi centimetri, all’altezza dell’ombelico, come indeciso su dove rivolgerla. Le sue dita bianche sembrano nebulizzarsi nella luce verde del lampadario d’osso, e poi paiono ancora e di nuovo materializzarsi, più nitide, facendosi ancora più bianche, il sangue che refluisce in alto, chissà dove, mentre stringono il calcio della pistola, mentre l’indice trema sul grilletto.
Lo sparo del fucile di Lucius rimbomba nell’antro circolare della Bolgia come la losanga di una tolda che viene cannonata.
I capelli neri di Paul si incendiano della poltiglia rosa del suo cervello, gli occhi spalancati in una terrificante espressione di sorpresa. Il rumore sordo del corpo che collide col parquet d’acacia crea un’eco metallica e appiccicosa.
– Vaffanculo! – urlo, e corro verso il corridoio, nel budello, all’ultima cabina.
Voglio piangere. Voglio sputare il fiume di lacrime che ho custodito nel petto per troppo tempo, questi pianti tumulati in gola, annodati nella pancia da questi tempi bui e solenni, da questi tempi bizzarri e macabri, senza amore, con nessuna speranza.
Voglio deliberatamene cibarmi di questo nuovo dolore. Voglio vedere Cassandra. La sfinge esplosa del suo volto, l’espressione riconfigurata nella seconda morte, quella definitiva.

15.

La morte.
Quella definitiva.
Certo.
Otis Kardashian: finché io sarò in vita, a sorvegliare il tuo corpo appeso, non conoscerai il significato della parola definitivo.
Per quel che puoi capire, ora.
Ma c’è un linguaggio conosciuto a tutti. Per tutti comprensibile. Ai vivi, come ai non-morti.
Limpido come il sole d’estate.
Questo linguaggio si chiama dolore.
Le urla.
Quelle, sono le solite. Quando ti abitui sembrano tutte uguali.
In questo caso, invece, queste grida di strazio, che erompono dalla bocca scucita di quest’ammasso di lardo sanguinolento appeso per le caviglie nei ganci del capanno, questo mucchio di carne straripante e membra frementi che una volta erano Otis Kardashian, magnate della carne in scatola, queste grida assumono alle mie orecchie un nuovo suono di delizia, una musica di godimento, puro e inebriante jazz senza malinconia.
Quel porco morto dovrà urlare per sempre, finché la sua carne non si staccherà, pezzo dopo pezzo. Finché il suo sangue non concimerà questa terra di papaveri e pietrisco ferroviario, risucchiato fuori dalla sua carogna fino all’ultima goccia, e poi ancora, il corpo mummificato come in un cristallo a forma di stella con gli occhi di insetto e le mani di un faraone. Dovrà urlare ancora, ancora e ancora. Fino alla dissoluzione, alla polverizzazione.
Cenere alla cenere, quella roba lì.
Lo faccio per Cassandra, mi dico.
No. Non è vero. Sono cazzate.
Lo faccio per esorcizzare la mia astrusa attrazione alla fiducia.
Lo faccio per consolidare questo mio forte senso di nausea, per alimentare fino alla pazzia il mio disgusto.

16.

Lucy è stata trasferita nell’edificio sul retro.
Per precauzione Lucius gli ha somministrato un’ulteriore dose di telepatina, mi ha detto Paula di sfuggita, passando dal bar, mentre mi scolavo l’ennesima vodka senza acqua.
Eppure sembra che non ne abbia bisogno, ha continuato, con quel suo volto corrucciato, portandosi una mano dalle unghie rovinate al petto, come per accarezzarsi, per farsi coraggio.
Mi ha detto che poi mi farà sapere, che Lucy è sotto stretta osservanza medica. Mi ha parlato con un tono di sfida. È furente, lo so. E amareggiata. Sa che aveva ragione. Che le prudenze non devono essere mai troppe, ma io ho lasciato fare.
Dopo l’accaduto Melania non ha più voluto avere niente a che fare con il night. Se n’è andata, presumibilmente nel suo paese d’origine, nelle campagne brulle ai confini del paese, forse a coltivare arance, a dirigere gli zombie contadini alle dipendenze della Never Dead Fruit, fuori Neopolis.
Armande è irretito, sembra spaesato, quando non lavora si dondola sull’amaca del parcheggio, fissando le nuvole con la forma di formicai, come se fosse ormai anche lui un soggetto fuori posto, in una sceneggiatura che non è più la sua, il copione stravolto; come se questo luogo gli avesse cacciato in gola una nota di malessere più alta di quella che può sopportare. Può essere brutale quanto sensibile, quel gorilla. E qui non c’è tempo per le emozioni.
Lucius è sempre lo stesso. Si prodiga indefessamente nelle sue varie mansioni, traghettando i cadaveri viventi dal locale all’edificio sul catafalco della Vergine, come un provetto Caronte in un inusuale tragitto al contrario sull’Acheronte, controcorrente.
La morte, la vita. Non hanno più senso.
La seconda tromba di Allah ha suonato per riportare in vita l’esercito dei caduti, ma il dio arabo si è scordato del Giudizio, e ora morti e vivi e nuovi morti camminano insieme per il mondo e il Paradiso è solo la cloaca dove gettare gli avanzi del cibo, la buca dove sputarci i reflussi gastrici, il luogo fetido e immorale adibito al lavacro del sangue omicida.
Nessuna purificazione, nessuna estasi, nessuna salvezza.
Mi accendo una sigaretta. Il fumo mi vortica tra le dita come una spirale d’acciaio. Le unghie sono sporche del sangue di Otis, di quel che rimane del grasso porco, produttore di sbobba in gelatina.
Otis: lo zombie che vivrà per sempre, le sue urla come le trombe di corno d’ariete dei Sacerdoti di una Gerico emozionale. Nulla più mi costringerà a costruire le mura di una sorta di speranza nella mia coscienza, d’ora in poi.
È una strada senza via di ritorno.

17.

Lucy è rimasta nella cella dell’edificio per due giorni, non è più scesa nella Bolgia.
È solo al terzo giorno che ho il coraggio di interpellare Paula.
C’è ancora quel quesito irrisolto, da sbrogliare. L’oscuro motivo per cui Lucy abbia attaccato il vecchio, evirandogli le palle, divorandogliele.
Non è una cosa da poco. I precedenti possono assumere una rilevanza devastante. Non dovrà succedere mai più.
Ma perché è capitato?
Paula lo sa, ne sono certo. È a conoscenza del segreto.
Ma non vuole confidarsi, c’è qualcosa che le vieta di pensare lucidamente alle cose. C’è quel nodo che le si attorciglia nella pancia, ne sono sicuro, nutrito dalla stessa paura che anch’io provo, che noi tutti, qui a Neopolis, avvertiamo; un cordone ombelicale della stessa materia cellulare del dolore, custodito nella stessa identica sacca placentale composta di angoscia, di sgomento, di repulsione.
La trovo nel suo studio, intenta a ordinare gli attrezzi di lavoro, con la schiena ingobbita e i sudati capelli biondi sfilacciati sulle spalle.
Richiudo delicatamente la porta alle nostre spalle, ma mi accorgo da un appena accennato movimento del suo volto di lato, che si è accorta di me, della mia intrusione.
Lo sa perché sono qui.
Sa anche cosa sto combinando nel capanno. Sente l’odore del sangue, quello dolciastro e affumicato del ferro delle lame che le mie dita rilasciano, l’olezzo rancido delle mia pelle strizzata nello sforzo della tortura, il mio respiro cadenzato dall’oscura elasticità della violenza e del supplizio, la puzza di carne morta che non vuole e che non deve morire ancora, non ancora, non ancora.
Ci conosciamo troppo bene, io e Paula. Così diversi e così simili, in fondo. Così imprigionati nei nostri corpi, così vincolati da una logica mentale abitudinaria, in questa consuetudine amarognola alla sopravvivenza.
– Te lo avevo detto – esordisce, prima che io possa aprire bocca.
Non si volta, ma ora riesco a scorgergli gli occhi, arrossati, come se si fosse passata uno straccio imbevuto d’alcool sul viso, un distillato di lacrime aggrumate nell’angolo delle palpebre. La sua voce è rotta. Guardo la sua mano che afferra una fiala vuota e una venuzza blu le balla intermittente sul polso come la vescicola di una medusa.
Mi accosto a lei e le guardo perplesso le labbra sottili. Una patina di sudore le unge in maniera sensuale i lobi delle orecchie e gli zigomi appuntiti.
– Cosa… Cosa mi avevi detto?
Si scosta dal mio fianco con uno scatto esuberante del bacino e mi volta di nuovo la schiena. Da quella posizione, mentre sembra indecisa se spostare o meno uno stuolo di flaconi da una mensola a un’altra, mi dice, con voce rauca: – La lacrima. La lacrima di Lucy.
La pazienza non è tra le mie virtù, ma ingoio la saliva, un sapore acido mi invade il palato e mando un sospiro che spero sia il più silenzioso possibile.
– Lo sapevi. – Si è voltata e mi punta il suo sguardo infiammato dritto negli occhi.
Sta crollando, lo sento. Definitivamente. Ma forse è tutto il mondo che sta crollando. Noi ci siamo solo capitati in mezzo.
Mi punta un dito in faccia e la sua espressione si acciglia in una smorfia, gli occhi socchiusi, il labbro inferiore comincia a fremere, come se stesse contenendo un pianto dirompente, forse liberatorio.
– Lo sapevi, ma volevi crederci – mi accusa. – Sapevi che qualcosa di troppo umano stava invadendo la vita di questa… di questa morte che non è più morte. Sapevi ma non volevi crederci. Perché questo voleva dire che anche quello che provavi per Cassandra poteva essere più reale di quanto tu desideravi che fosse. E sai perché? – Paula si sposta di lato, allarga le braccia e mostrare l’armadio che contiene la fila di vibratori, quelli utilizzati per l’addestramento.
La sua voce si fa strozzata, un pallore umidiccio ora le invade la pelle, che si è fatta di cera.
– Per questo! Perché dovevano essere e rimanere solo troie! Perché dovevano restare distanti, vero? Come tutto, nella tua vita. Distante… tutto distante… Perché i morti devono rimanere solo… solo cosa? Solo morti, no?
– Dimmi cosa è successo a Lucy – le intimo, con voce salda, allargando le gambe e risucchiando le labbra sui denti. Le voglio far intendere fermamente che non uscirò da questo studio senza una risposta.
– Lucy è incinta.
Ho un sussulto. Per un attimo mi si annebbia la vista.
Mi avvinghio con le mani alle sue braccia.
Non può essere.
La tengo ferma, stretta nella morsa delle mie dita che puzzano di sangue e di dolore.
– Cosa cazzo vuoi dire?
Devo capire. Una volta per tutte.
– Ha sbranato il cazzo di quello stronzo perché aveva fame. Non le bastava più la dose giornaliera di carne.
Paula si dimena e con uno scatto feroce si libera dalla mia presa.
Una smorfia di disgusto le si disegna sul volto. Un’espressione che però non è solo di disgusto, ma anche di rivalsa, la manifestazione palese di un moto di sadica rivincita.
– Deve mangiare – ringhia, guardandomi in volto con i suoi occhi allucinati. – Deve saziare la creatura che ha nella pancia.

18.

Mentre scucio la coscia del grassone una poltiglia di sangue scuro spurga come un rivolo di catrame.
La bestia grida e si dimena, il paranco oscilla. Un pulviscolo di ruggine si spalanca dalla catena come un refolo di sabbia del deserto.
Dalla radio portatile appoggiata sullo scaffale di zinco la voce di Billie Holiday gorgheggia struggente, il canto dell’addio, della lontananza, del desiderio.

I don’t know why but I’m feeling so sad
I long to try something I never had
Never had no kissin’
Oh, what I’ve been missin’
Lover man, oh, where can you be?

Non so cosa potrà succedere, adesso.
Non posso immaginarmi una nuova prole che scaturirà dalla morte rinata, la stirpe generata dall’amplesso col decesso.
Non so neanche come possa essere rimasta ingravidata Lucy, se da un non-morto o da un vivo; magari da un cliente, uno stupido e arrogante ubriacone produttore di bourbon, o forse da un affettato e vanesio giovane alla ricerca di un piacere proibito, alla ricerca della mano di un Icaro personale, morto senza tomba, nella fanghiglia onirica fuori dai confini dell’Ade.
Un cucciolo di demone squarterà quella vagina morta e vedrà la luce di Neopolis. Lo accudiremo, forse.
Lo addestreremo e lo renderemo servile, pronto a esaudire ogni desiderio di questa società oscena e corrotta. Un ingranaggio di carne malata introdotto in questo meccanismo di sesso e cupidigia, di sbobba in gelatina e vecchi bavosi, di speranze guastate e baluginii al neon rossi e lampade verdi sulla strada del Regno della perdizione, nella Bolgia di questa catabasi dell’orrore.
Getto il mozzicone in terra. La brace manda un sibilo al contatto con la pozza rossa che invade il pavimento e che arriva a impiastricciarmi le suole delle scarpe.
Billy Holiday mi sussurra all’orecchio.

Un giorno ci incontreremo
E asciugherai tutte le mie lacrime

La testa capovolta e tumefatta di Otis si sposta con uno scatto furente. Grugnisce. Gli occhi si ammantano di una luce obliqua, nera come le feci di un lupo.

La notte è fredda e io sono tanto sola
Darei la mia anima per poterti dirti mio
C’è la luna sopra di me
Ma nessuno che mi ami

Stringo il pugnale, più forte che posso, le dita bianche.
Col prossimo taglio gli squadernerò il petto come un fiore azzurro a cui tocca sbocciare.

Zombie Night – Parte Seconda

La Prima Parte potete leggerla QUI

7.

La prima cosa che fa Lucius è ficcarla nella Vergine, quando la non-morta è tramortita. Lì, nel parcheggio.
Non gli riesce sempre così agevolmente. A volte deve sudare di più. A volte deve chiedere l’aiuto di Armande.
Ma solitamente un suo tipico colpo assestato nel punto giusto fa sì che la zombie cali l’attenzione per gli attimi necessari.
Le chiavi per collare e bracciali borchiati sono universali, sempre le stesse, per cui Lucius afferra le solite dal suo cinturone e slega quelle mani e svita l’affare sul collo. Deve essere rapido e compiere i gesti giusti. Ma Lucius è bravo. Preciso, metodico e celere. Calcia la necro-troia nella fodera della Vergine, ancora imbambolata dallo sganassone. Con un ringhio le posiziona le braccia negli scompartimenti appositi, assesta la sbarra all’altezza della nuca, sui fianchi, nelle cosce, lungo le ossa del bacino, strizzata come una sardina nel suo barattolo, costretta come metallo liquido nel proprio stampo da fusione. È un’operazione millimetrica. Lucius srotola le cinghie di cuoio dalle guaine laterali e serra ben benino il busto, le braccia, le gambe, tutto il ben di dio risorto e sbavante. Le cinghie sono attrezzate con dei pettini di ferro che si incastrano nella fodera. Se respirasse, la non-morta ora farebbe una fatica del diavolo.
Confezionata come una banana nel suo cellophane di cuoio, ferro e legno. Questo è fondamentale. Le siringhe, dagli ugelli entreranno nei fori del sarcofago e si innesteranno negli aghi interni infilzati nella carne, nel punto giusto. Non più di due centimetri sopra o sotto. Ma Lucius ha acquisito una dimestichezza formidabile per quest’attività e, inutile dirlo, se ne fa vanto appena può. “Sono il professore dell’inquartamento” e si mette i pugni sui fianchi, tracotante. “Sono lo Strizzamorti”, e ghigna, con il suo dente d’oro che brilla in quell’espressione che sembra sempre truce e feroce anche quando non vorrebbe esserla, immagino.
Poi controlla gli aghi del coperchio, nella parte interna, pungiglioni di otto centimetri già fissati con le ventose e bloccati nei punti esatti. È tutto a posto.
Afferra il coperchio della Vergine, scostandolo per chiuderlo con entrambe le mani, accarezzando i listelli di lamiera dei bordi, tastando delicato il legno consumato, osservando ironico quella croce rossa di vernice scrostata all’altezza della faccia. Si sente il rumore ovattato e scricchiolante degli aghi che penetrano nella carne, come uno zodiaco di stalattiti che pungono le meridiane perfette in un cielo di pelle necrotica.
La non-morta urla. Il solito urlo, terrificante; pompato da polmoni che paiono popolati da vermi o da conchiglie di un mare di petrolio.
Ora Lucius può trasportare il corpo nel laboratorio, al primo piano dell’edificio di mattoni rossi dietro allo Zombie Night, in quella depressione che s’allarga in un cortile di terra gialla, oltre i bidoni di immondizia e i vapori dei locali della lavanderia – vapori che formano una strana e grottesca bruma, la nebbia surreale di questo paese arido, l’unica che possiamo permetterci, quella del lavacro dal sangue, dallo sperma e dal piscio sulle lenzuola rosa della Bolgia.

8.

Rebecca afferra i bicchieri vuoti e li appoggia sul vassoio, tra le cuspidi delle bottiglie scolate, nella penombra della sala ormai vuota. I fianchi le ballano leggermente fuori sincrono sulle ginocchia, come se la spina dorsale fosse annodata in qualche modo strano sul bacino. Lucius e Paula tengono le relazioni mediche con i cicli di somministrazioni sempre aggiornate. In un librone dalla copertina rigida sopra lo schedario nell’edificio. Le somministrazioni periodiche trimestrali di Cobra e telepatina potenziata non possono essere posticipate, neppure di qualche ora. Ma non è per questo che Rebecca cammina così. Non mi si avvinghierà con le braccia al collo per assaggiare la mia gola a causa dell’effetto svanito del siero, no, credo che neanche oggi succederà. Non è mai successo niente del genere qui, fino ad ora. Non come al Cold Meat. Brutta faccenda quella. È solo una questione di reazioni dell’organismo al condizionamento, per le quali Rebecca, specificatamente nella sfera dell’apparato motorio, ha sempre avuto qualche problemino. Niente di estremante preoccupante: Paula dovrà darsi da fare con le sue ragazze per cercare di recuperare quell’handicap con sessioni di condizionamento più intensive.
Paula, eccola: seduta dietro al bancone, sta accarezzando con la punta dell’indice il bordo di un bicchiere ricolmo di un liquido ambrato. Ha il viso stanco, lo vedo. La pelle le sembra essersi rinsecchita attorno alle labbra sottili, e i capelli biondi sono scarmigliati sulla nuca e appiccicati di sudore sulla fronte. Gli occhi azzurri sono più annacquati del solito, rimandano un riflesso di spossatezza e sono strizzati ai lati in rughe d’apprensione. Dev’essere sopraffatta dal lavoro, ne sono certo. In queste ultime settimane due nuove non-morte non sono poche, senza contare le continue sequenze di riassestamento di condizionamento di tutte le altre. È un ciclo continuo, che non deve essere interrotto. Di fianco a lei, Melania le sta parlottando all’orecchio, quasi le sfiora la pelle con le labbra. Per quanto ne so potrebbero essere pure amanti. Melania è una delle giovani apprendiste che l’aiutano nei condizionamenti. I suoi capelli corvini si addolciscono di un riflesso ramato sotto le luci dorate. Inclina il viso di sbieco quando mi vede, infastidita. Gli occhi le si strizzano in un’espressione che mi sembra di avversione. Quando mi avvicino, Melania esce dal bancone e si avvia alla porta, un gesto secco del collo a scostarsi il ciuffo di capelli dagli occhi, il suo culo grasso che volteggia nella penombra della sala, come un pallone di gomma, racchiuso in quel suo vestito di cotone aderente.
– Qualcosa che non va? – esordisco. – Melania mi sembra agitata, e anche tu…
Mi siedo allo sgabello del banco e avvicino la faccia alla sua. La scruto, forse cerco un approccio che voglio che appaia come sentita preoccupazione. La verità è che voglio sbrogliarmi da questo dilemma, il più in fretta possibile.
– Siamo oberati dal lavoro, Frank. – Alza gli occhi dal bicchiere e mi guarda con i suoi tristi occhi umidi, azzurri come un quadro di Kandinskij. Solo adesso mi accorgo che quel bicchiere che ha in mano deve essere solo l’ultimo di una serie.
– Lo Zombie è chiuso, nessuno ci può disturbare, dimmi… – Mi blocco un attimo, dietro le spalle di Paula è comparso Gorkij, il suo solito passo felpato, la ghigna della mascella protesa come un osso di gorilla, le sopracciglia irsute e i gomiti arrossati. Le sue labbra, carnose e grigie, sembrano possedere il ghigno di una paresi, una tagliola con neri denti mozzati. Il non-morto afferra dalla lavastoviglie un carico enorme di piatti e stoviglie e se ne torna in cucina facendo sibilare le ante della porta a vento. L’unico maschio che abbiamo, politica aziendale.
Faccio il giro del banco e afferro una bottiglia di Jim Beam e me ne verso due dita in un bicchiere a bolla.
Non vorrei farlo, proprio per niente. Ma appoggio lo stesso una mano su quella di Paula. La devo rassicurare, no? Mando giù in un fiato il bourbon e le gengive sembrano esplodere.
Paula sottrae la mano dalla mia e alza lo sguardo, osservando un punto imprecisato sul fondo della sala, una fetta di buio che si amalgama con la luminescenza rossa di una lampada.
– Non è solo il lavoro, Frank. Non è solo quello – si confida, con un filo di voce. – Almeno, non la quantità…
Afferro di nuovo la bottiglia. Non spreco tempo a versarmi il bourbon nel bicchiere e mi attacco al collo. La lingua mi si anestetizza.
– E cosa? – cerco di biascicare.
– Sono i morti. I morti. Questa gente risorta. Frank! – Si alza dallo sgabello, la sua voce è rotta.
Sta per implodere, penso.
– Frank. Gente risorta. Lo capisci? Ma come fai, tu? Sono morti, lo capisci? Mor-ti! Ci sei abituato, ormai? Te le scoperesti anche tu, come tutti gli altri?
No, non me le scoperei, no.
Ma poi penso a Cassandra.
La rabbia mi sale alle tempie, sferro un pugno sul tavolo. Il bicchiere che Paula stringe sul bancone vibra di una sonorità cupa.
Mi porto di nuovo la bottiglia alla bocca.
– Ecco come faccio! – Un ghigno balordo deve essermi comparso sulla faccia.
Paula scrolla la testa. I suoi capelli biondi ondeggiano. Le sue tempie sudate sembrano di plastica e colla.
– Lo sai cosa è successo ieri? – La sua voce trema. Dev’essere l’alcol, penso.
– Cosa? – Strizzo i denti mentre rispondo con un’altra domanda.
– Lucy, l’ultima arrivata… – Si porta una di quelle sue dita tremolanti a pettinarsi i capelli ribelli sulla nuca, con l’altra mano si avvicina il bicchiere alle labbra. Beve un sorso avido. Vedo la sua gola che si riempie, gli occhi che si spremono, la laringe che con uno spasmo getta il fuoco liquido nella trachea. – È successo qualcosa di strano.
Sara, Paula, tutti, ma che cosa diavolo sta succedendo?
– Che cosa di strano, Paula. Cosa?
Mi sento vulnerabile, come non mai.
Non mi piace la reticenza, e neanche la lentezza delle cose.
Questo è un mondo di morti. Lo saremo anche noi, fra non molto.
– Durante il condizionamento, dopo la somministrazione dei farmaci eseguita da Lucius… Lucy, quella nuova… Ero con le ragazze a impartirgli le prime lezioni, lo sai, le solite cose… i movimenti delle mani, la reattività mascellare, i massaggi muscolari. – Paula si ferma, beve un altro sorso dal bicchiere. Delle gocce di luce color miele sembrano invadergli le palpebre mentre le socchiude.
– Sì, continua. – L’esortazione sono sicuro mi esce più come un ringhio, un comando.
Paula alza gli occhi su di me. È sfiancata, stordita. In qualche modo anche stupita dal mio tono. Forse si aspettava altro. Forse si aspettava comprensione.
– Durante l’esercitazione alla fellatio… Lucy, ecco, ne sono sicura… – Paula ancora si frena, sembra masticare le parole dentro di sé. È incomprensibile. È snervante.
– Cosa? Cosa cazzo è successo, perdio! – sbotto.
Paula alza gli occhi ai miei. Il labbro inferiore gli scivola in basso. Sembra aver assunto il broncio di una bambina.
In quel momento una delle lampade ambrate sopra le nostre teste salta. Si brucia con il tipico rumore zigrinante da cortocircuito.
– Ha pianto. – Paula alita le parole in un tono soporifero, freddo. – Lucy ha perso delle lacrime dagli occhi. Piangeva. Te lo giuro.

9.

Il locale ha aperto per la serata.
Sara è al bancone, come al solito.
Le troie non-morte sono nella Bolgia, con Berenice ad accudire i clienti e Armande a controllarli, come sempre.
Sono nel cortile, accostato alla porta di servizio. Ho acceso la mia Benson e cerco la luna nel cielo. Ma il cielo ha il colore del fegato e le stelle sono state forse ingoiate dal dio pazzo che c’è lassù, come Saturno ha divorato i propri figli.
La caligine dei vapori della lavanderia crea fette di bianco che balenano a mezz’aria.
L’edificio di mattoni rossi è davanti a me. Al primo piano Lucius sta imbottendo di Cobra una non-morta. Sta infilando le fiale di siero e droga nei beccucci delle siringhe, e i cannelli a incastrarsi negli aghi a farfalla che combaciano con i fori. È il ciclo di mantenimento mensile del virus. A cadenza regolare, tutti i non-morti vengono sottoposti, secondo il calendario.
Al secondo piano le finestre sono serrate da solide barriere di plexiglass scuro. Nell’ultima parte del corridoio che sfila lungo tutto il piano ci sono le gabbie delle non-morte vergini. Quelle appena arrivate. Quelle da ammaestrare. Appena giunte dagli allevamenti governativi.
Gli allevamenti.
Dopo i primi mesi di caos e morte e dopo la rivelazione che gli zombie potevano essere stabilizzati, dopo che si erano trovate le mansioni adatte per ognuno secondo sesso e corporatura, un semplice quesito si era insinuato nella cinica mente burocratica del Potere: una volta che questi zombie, per uccisione, incidente e logoramento fossero morti, e questa volta morti veramente, strozzati, spappolati, con la testa rotta o bucata, con chi li si sarebbe sostituiti? La risposta fa parte della logica astuta, impersonale e imperturbabile che ogni organizzazione di potere avrebbe pensato. Mantenimento di forza lavoro volontaria e abbattimento a costo zero dei crimini capitali.
Più nessuna pena di morte, ma al contrario: la pena alla non-morte.
La zombificazione.
Un’iniezione e via.
Che strano, anni a combattere una pandemia che non si riusciva a capire e poi, una volta compresa, la deliberata volontà di amplificarla. Sostituire i vivi con i morti, definitivamente.
Sputo in terra e fisso il cielo di fegato che ho sopra la testa. Potrei tagliarlo col coltello, questo cielo, uno di questi giorni, allungandomi sopra una scala di sogno, infinita e lunghissima, come un Pierrot alla ricerca del suo sedile, e magari, affettandolo, scoprirci dietro solo altro grasso, di sotto altra carne, altra polpa che sputa sangue, ma nessuna stella.
Sono stato all’edificio, da Paula. Al secondo piano, nelle camerate del condizionamento, tra l’attrezzatura di impulsi trans-cranici, gli oli e i forcipi, le fiale e tutto il resto. Non mi ha fatto più nessuna rimostranza, sembra aver dimenticato l’accaduto. O forse fa finta. È fredda, con me. Anche le ragazze, Melania e Clara, sono scostanti. Ho l’impressione che continuino l’attività con freddo automatismo, ma i dubbi che le assillano siano ancora vivi e vegeti, pulsanti. Hanno paura di qualcosa.
Ma io non posso farci niente. Sanno che se vogliono uno stipendio la ruota deve girare. È il mondo che sta crollando, non è colpa mia.
Paula mi ha detto che Lucy è pronta.
Può prestare le sue doti alla causa, ha detto.
Mi prendeva in giro, lo so.
La causa.
Questa sera Lucy è stata infilata nella Bolgia.

10.

Lucius è andato a sistemare la carne nelle celle frigorifere, al primo piano dell’edificio. Il nutrimento per gli zombie.
L’ho visto passare per la sala con la sua solita faccia contratta e il cappello da cowboy che gli formava una falce scura sopra gli occhi.
Mi ha visto e mi ha salutato, con espressione guardinga e un cenno del mento.
Lucius deve essere sempre in movimento, deve continuamente darsi da fare, ha costantemente un compito che deve portare a termine, e se non c’è un servizio stabilito allora se lo inventa. Il giorno che lo vedrò riposare vorrà dire che qualcosa non va, che il mondo, definitivamente, è andato a puttane. Le fibre del suo corpo pare suggano una forza rinvigorente dalla fatica, dal movimento, dalla macchinosa messa in pratica di tutte le faccende, onorevoli o meno, a cui è dedito, a tutte le ore.
Il contrario di me. Io osservo, cerco di essere distaccato, ma non ci riesco, come potrei?
Sono alla quarta vodka. Mi accendo una sigaretta e Sara mi guarda di sbieco, mentre si abbassa sotto il bancone, con un atteggiamento risentito.
Sembra che tutte le donne da qualche giorno ce l’abbiano con me, per chissà quale motivo.
Si rialza con tre Bud in bottiglia tra le mani e le appoggia su un vassoio.
– Ci sbronziamo anche oggi? – mi dice, facendo finta di non prestarmi troppa attenzione mentre infila dei cubetti di ghiaccio in un bicchiere da long drink.
– Mi sbronzo quando cazzo voglio – le faccio seccato, di rimando. Ma subito mi pento di averle risposto in quel modo.
Sara fa un sorrisino amaro e intanto controlla la spillatrice. Dà una pulita al beccuccio e si volta a controllare la disposizione delle bottiglie sugli scaffali.
Però ha ragione. Mi sto ubriacando troppo spesso e questa sera, in particolare, sono proprio su di giri.
Rebecca si accosta al tavolo e lentamente afferra il vassoio, sento il suo odore di sabbia, alghe e lampone. Un mix di corpo corrotto e balsami curativi. Si allontana con la sua anca sbilenca verso i tavoli, la minigonna che le pizzica le natiche troppo in alto.
Gli manca proprio il senso del pudore, a questi morti.
Due tipi mingherlini con vestiti scuri da beccamorto confabulano al tavolo verso cui Rebecca è diretta. Staranno rimuginando su quale tipo di necro-troia papparsi. Uno dei due ha uno stuzzicadenti in bocca e quando l’altro gli si avvicina per dirgli qualcosa a un centimetro dall’orecchio, questi sbotta in una risata fragorosa, si smanaccia le cosce, le spalle sussultano. Quello che gli ha parlato digrigna il muso come una scimmia, la catenina con la croce d’oro gli balla sul petto. Riesco a vedergli gli incisivi sporgenti, le luci rosse che li dipingono di giallo, il labbro leporino, gli occhi due pozze. Tipici clienti da Zombie Night. Si vede che hanno la grana. Dal taglio dei vestiti lugubri e da quella tracotanza tipica di chi si sente migliore.
Mando giù il rimasuglio di vodka e una scorzetta di limone mi rimane incastrata tra le gengive.
Solite fitte alla bocca dello stomaco.
Penso a Cassandra. Lei non è come questi zotici coi soldi. Lei non è neanche come le altre non-morte. Ha una personalità, lo sento. Possiede una struggente propensione all’eleganza, alla compassione, alla comprensione.
Lo so, anche se non parla. Lo so perché sento che mi percepisce. Sa che io so.
Ogni tanto penso di stare per impazzire.
Non può essere, mi dico. Non esistono zombie che abbiano sentimenti. Tranne quello della rabbia, se di sentimento vero e proprio si può parlare in questo caso, quando non sono imbambolati dalla droga e devono sbranare altra carne. Non esistono emozioni in loro, mi ripeto. Me lo dico per convincermi.
Ma poi guardo Cassandra. E la sento.
Non saprei come altro dirlo.
C’è qualcuno qua dentro che ha capito della mia predilezione per lei. Una di queste è Berenice. Mi ha visto gironzolare presso la sua cabina troppe volte. Lo so cosa pensa. Immagino cosa possano pensare, tutti. Ma io non me la sono mai fottuta. Non ho mai scopato con un morto. Non travalicherò questo confine. Non sono come quei figli di puttana con la croce al collo, i soldi in bocca e il cazzo sempre duro.
Questa mia consapevolezza, questa mia astrusa attrazione mi porta a essere in qualche modo fiducioso, ad alimentarmi dentro una sottospecie di speranza, ma nel contempo a provare un preciso e forte senso di nausea, di disgusto.
È tutto così innaturale, mostruoso.
Vorrei che tutto fosse esattamente come quello che provo, e vorrei che tutto fosse anche il contrario. Mi piacerebbe che qualcuno mi contraddicesse, non che mi confermasse, rafforzandomela, questa mia idea, questa sensazione.
Ecco perché non voglio credere alle parole di Paula.
La lacrima di una morta.
Questo dimostrerebbe che c’è qualcosa di inumano, o forse no, al contrario, di troppo umano, in tutto quest’affare. E che i vivi e i morti, allora, forse sono interscambiabili. Che l’umano, alla fine, è peggio di un morto che cammina.
E poi questo confermerebbe che non abbiamo a che fare solo con cose. Ma che dentro queste creature cova ancora una scintilla di quello che erano prima.
O perché no: di qualcosa di completamente diverso.

11.

La sera successiva sono al mio solito posto, appoggiato al bancone. Sara è in piedi, di dietro, i cappelli scarmigliati, una sigaretta tra le dita. È un momento di pausa, quei momenti in cui l’aria sembra soffice, il silenzio è rotto solo dalle note del sassofono di Sonny Stitt, le conche di buio della sala sembrano trasudare direttamente dalle pareti, i neon rossi sono minuscole stringhe di colore nella bruma di fumo e tra gli aliti sibilanti dei frequentatori ai tavoli, tre o quattro, non di più. La solita marmaglia danarosa dai completi costosi, le facce opaline, croci d’oro al collo e le ghigne dentro quella tenebra alla Caravaggio.
Poi c’è un trambusto improvviso. Proviene dalla Bolgia, e arriva dritto fin qui. Mi rizzo in piedi. Sara, sgomenta, resta paralizzata con la mano a mezz’aria, le dita tremanti attorno alla sigaretta. Anche un paio di avventori si scostano nervosi sulle loro sedie, inquieti come gatti vicino all’acqua.
C’è un urlo, di un uomo. Sembra roco e ammonitore. Rabbioso. Non è Armande, lo riconoscerei. Dunque è un cliente.
Un altro suono, lo stridore di qualcosa che viene trascinato, il boato di qualcosa che si rompe, il baccano di legno che si incrina. Altre cose che si frantumano. Vetro, forse bicchieri.
Istintivamente inarco il busto oltre al bancone, allungo il braccio, c’è la pistola lì, una vecchia Browning calibro 7.45. Di solito resta lì ad ammuffire, tra le bottiglie scolate e i panni umidi.
Ma non faccio in tempo ad afferrarla che un uomo, la camicia sbottonata, il viso arrossato e i capelli biondicci spettinati, si scaraventa nella sala, issandosi dalla scala, direttamente dalla Bolgia.
Noto i suoi pantaloni ancora sbottonati, le maniche della camicia bianche che presentano delle virgole di sangue. Sangue scuro, che vedo inargentarsi presso i neon rossi come in un luminescenza da luminol in una scena del delitto. Un braccio sembra vagolare da sé davanti alla faccia, mentre avanza, barcollando, e poi mi accorgo cosa stringe l’altra mano. Sta trattenendo una non-morta per i capelli. L’uomo l’ha trascinata con violenza su per le scale, il corpo imbottito di droga e ammaestrato che non oppone resistenza, un feticcio di paglia e carne tremula.
Carne che si consuma, inevitabilmente.
Vedo una clavicola della non-morta che le spunta dalla spalla come un osso sepolcrale, una lugubre fetta di osso scorticato, impiastrato di sangue. E poi l’intero braccio, dissestato, ciondolante, attaccato per un filo di muscoli e nervi alla clavicola, la scapola che sembra un’ala di ferro che ha perforato la pelle, sembianza alata e psicopompa di un inferno delle viscere, della morte che rapisce la morte, ancora e ancora.
L’uomo trascina la non-morta in mezzo alla sala. Vedo il sudore su quella fronte rossa, il fiatone, la sua mano graffiata. Ansima e urla, non lascia i capelli della morta, vedo gli occhi di Gina, è lei, la riconosco, vedo quegli occhi senza emozioni, gli occhi vetrosi e immobili di una bambola, gli occhi di un’anima catturata in un corpo che non sente più suo, un corpo che sono solo ossa e fibre e muscoli e dentro un vuoto, un soffio di morte risorta infagottata con droga psichedelica e microrganismi antigeni temporanei.
– Cosa cazzo… – Mi catapulto tra i due. L’uomo lascia la presa.
La testa della non-morta batte in terra, con un sordo rumore colloso, gli occhi sempre aperti.
È come se si chiedessero, quegli occhi: dove sono, e perché? Senza forza, nessuna energia, spirito incasellato in uno stampo di carne già morta.
– Che diavolo di troie tenete qui? – urla l’uomo, la voce incrinata dalla rabbia, ma anche dalla paura, lo sento. Spruzza bava dalla bocca, si porta una mano alle tempie, ansima.
Armande si è arrampicato sugli scalini e ora è di fianco all’uomo, con le braccia aperte, come una guardia del corpo che protegge il suo cliente da una selva di fotografi.
– Signor Beaumont… – mormora, l’espressione addolorata. Ma poi volge lo sguardo a Berenice, anche lei sopraggiunta. Ha il fiatone, il crocchio di capelli rossi formano un’ombra alle sue spalle, sulla parete, una specie di testa mostruosa, gigantesca, un naso camuso e un cranio deforme. Con fare afflitto appoggia una mano sotto il braccio del cliente. Il signor Beaumont. Il facoltoso proprietario di una catena di concessionarie d’auto d’epoca.
Berenice mi lancia uno sguardo atterrito, prima di portare via l’uomo, che si fa trascinare di nuovo nella Bolgia con malcelato nervosismo.
– Ora le cambieremo i vestiti e le faremo fare un bel bagno, signore – dice Berenice per confortarlo.
Gina striscia in terra, oscilla muovendosi come un verme, batte i polpacci sul pavimento, scuote il collo come per cercare di osservarsi la spalla, la bocca raggrinzita, scaglie di pelle si nebulizzano in polvere nera. La ferita sul braccio perde una schiuma rossastra, proiettili di sangue rimbombano sull’impiantito, scorie viscide e lingue di nervi.
– Cosa è successo? – urlo, rivolto ad Armande.
– Le si sta staccando il braccio – mi risponde, quasi indifferente, come se la questione fosse ovvia, banale, voltandosi di lato.
– E nessuno si era accorto del suo stato di decomposizione del cazzo? – sbraito, ma nessuno mi ascolta.
I tre avventori sono sgattaiolati all’esterno dall’entrata principale. La porta è rimasta aperta, cigola sulle molle tra i cardini strattonati dall’aria di piombo della notte.
Il ciclo delle non-morte deve essere vagliato scrupolosamente. Non può cadere un braccio in faccia a un cliente, magari mentre gli sta facendo una sega.
Mi giro verso Sara, sconcertato. Cerco delle risposte. Ma sono sicuro, nessuno me ne darà qui, neanche una.
È il corso delle cose, mi risponderebbe Paula.
A Sara le trema ancora la mano, le dita sospese davanti alla faccia. Allunga le labbra e le infila attorno al filtro della sigaretta. Inspira con forza.
La brace della sigaretta si incendia, un falò microscopico, come un piccolo inferno dentro un altro inferno – un inferno più grande, più spaventoso.

12.

Anche la morte muore, dopo un po’.
Gli organismi si corrompono, non c’è niente da fare.
Lucius ha afferrato Gina per il braccio sano, trascinandola fuori dallo Zombie Night. Nel cortile l’ha issata su una carriola.
Ho sentito Gina che brontolava mentre veniva trasportata sulle ruote cigolanti, verso il capanno. Ho pensato che anche loro, come le bestie al macello, sentono la morte che giunge. Come l’angoscioso e straziante urlo del maiale quando viene appeso a testa in giù, e sgozzato, e poi ficcato nella vasca di acqua bollente.
In più, Gina la conosce già la morte, ci è già passata. Questo è solo il ripasso. Chissà che in questi momenti non si accendano in loro dei percorsi cellulari mnemonici assopiti, che gli ricordino la loro prima morte.
Ogni tanto mi metto a pensare a quale tipo di vita avessero queste non-morte prima di essere tali. Lo faccio soprattutto con Cassandra. Vagheggio su quale lavoro facesse, fantastico su dove potesse abitare, su quanti figli avesse, prima di morire. Chissà perché, Cassandra me la immagino come una donna in carriera, a capo di un ufficio di avvocati, oppure come una ballerina, un étoile dei teatri europei, che danza leggiadra sulle tavole di palcoscenici internazionali, come una farfalla. Poi penso anche a come è potuta accadere la morte. In quali circostanze. Ai particolari. Se è stata sopraffatta da un gruppo di zombie durante la notte, nel suo letto. Oppure se è capitata incidentalmente in una di quelle enormi zuffe nel centro delle città, quando il pandemonio rasentò l’apice, e una dentata di sfuggita in mezzo al caos l’ha infettata col morbo. Oppure, ancora più semplice, ed è naturale supporre che sia così viste le condizioni esteriori pressoché perfette, è una non-morta da allevamento. L’assassina del proprio pargolo ancora nella culla, o l’uxoricida del proprio marito manesco, condannata alla pena capitale, alla zombificazione, e infilata in uno di quegli allevamenti governativi. Una siringata e bye bye!, benvenuta nel lato oscuro della luna.
Queste cose non dovrebbero succedere, così, senza preavviso.
Paula e il suo staff avrebbero dovuto monitorare con più cura lo stato dell’organismo della non-morta. Non è stato un bello spettacolo da vedere.
Ma non mi sento di recriminare Paula, per questo. Non sta scorrendo buon sangue tra di noi, in questo frangente.
Lucius sparerà a Gina col suo M40 con calcio in vetroresina, nella baracca.
Poi farà una buca nel campo, nel punto in cui i papaveri si diradano e si crea una striscia di terra brulla che costeggia l’autostrada. Cospargerà la buca di benzina e darà fuoco al cadavere, prima di ricoprirlo.

 

Il numero 1 di MASSACRO – la rivista novocarnista è fuori ora!

MASSACRO è la rivista di horror, weird, fantascienza, narrativa, cinema, fumetti, musica, controcultura e cultura estrema dell’associazione culturale la nuova carne.
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MASSACRO è un dispaccio d’orrore che proviene da Marte, o dalla Cambogia di Kurtz; è un pensiero dogmatico frantumato; è narratologia dell’oscuro/dell’oscurato. MASSACRO sono le dita di San Tommaso che rovistano il costato di Dio; MASSACRO è il cazzo di Rasputin, MASSACRO è la gamba amputata di Rimbaud.
Nel numero 1 di MASSACRO:
Homunculus, di Giorgio Borroni
William Mortensen, di Niccolò Ratto
Essi vivono, noi dormiamo, di Marco Maculotti
Poesia Dark: Rapsodia di sangue, di Alessandro Manzetti
Divorati dall'”altro” cannibale, di Eleonora D’Agostino
L’ultimo volo di Bird, di Alessio Bacci e Diego Frazzi
Ballard e il rifiuto dell’utopia, di Stefano Spataro
Livello 49, di Alessandro Pedretta
Racconti:
Mister Sangue, di Caleb Battiago
Concerto, di Andrea Mungiello
L’uomo senza pisello, di Stefano “El Brujo” Fantelli
Illustrazione di copertina di Luca Brandi
Illustrazioni interne di Luca Brandi, Stefano Cardoselli e Piercarlo Carella
Grafica e impaginazione di Andrea Garagiola
A cura di Alessandro Pedretta

Zombie Night – Prima Parte

 1.

Sento le urla.
Sembrano le solite. Quando ti abitui sono tutte uguali.
Stesso tono, identica inflessione.
Strizzo il mozzicone dentro il posacenere sul bancone.
Lucius starà legando quella troia con le cinghie di cuoio.
Carne da allevamento, ancora da condizionare.
L’appiccicosa luce ambrata sopra il bancone mi colpisce la mano rendendola collosa, la sezione oscena di un corpo immateriale. Una mano disincarnata, come se l’avessi presa in prestito solo per effettuare quel semplice gesto.
I polpastrelli si surriscaldano tra la brace che sto stritolando.
Sollevo la mano agli occhi, con una smorfia. Le punte delle dita sono nere, le unghie sporche.
Pulviscolo di cenere.
Mi sento vecchio, anche se ho solo trentatré anni.
Come Cristo quando gli hanno ficcato qualche chiodo nel corpo. Un modo come un altro per fargli capire che non era il benvenuto, nelle terre di Gerusalemme.
Tutti hanno la propria croce, mi diceva mia madre. La sua era un cancro che gli ha invaso il petto e dilatato il collo come un cencio inzuppato, fino a farla schiattare soffocata. Mi ricordo i rantoli e i sibili, sul letto di morte. Non è stato piacevole. Pareva avesse un serpente in gola che stesse cercando un pertugio, tra i denti e le gengive marce, verso la luce, verso la vita.
La luce e il buio, la vita e la morte. Condividono sempre lo stesso spazio, in fondo. Come in una tela di Caravaggio, una fa risaltare l’altra, e viceversa.
Tutto questo prima che ci capitasse tra capo e collo questa cosa: il contagio dei risorti.
Dovrei smetterla di fumare le sigarette fino al filtro. Dicono che faccia male.
Quelle urla.
Ci sono abituato.

– Ci penso io – ha detto Lucius, quando ci è arrivata la comunicazione della nuova non-morta in arrivo.
Lucius ha afferrato la Vergine dall’angolo della sala e ha spostato quella specie di sarcofago verso la porta, su uno di quei carrellini con cui trasportiamo le casse di birra e i liquori. La teniamo esposta qui, quando non la usiamo. Ai clienti piace guardarla, è come un totem che esorcizza la paura, un simbolo di controllo. La croce rossa dipinta sull’apice, all’altezza della testa, è solo un residuo dello stile decorativo di una volta, pregno ancora del tanto amato sentimento cattolico.
Quando si pensava ancora che potesse c’entrare Dio. Quella roba lì.
Sono le 22.00.
Le urla cesseranno, fra poco.
Mi alzo dallo sgabello e vado alla porta; bisogna dar vita allo show.
Siamo imprenditori, in fondo.
Sento la luce ambrata che mi palpa la schiena, ora. Come la carezza di un lampione in una notte solitaria, come il bacio di una mantide in una pozza di miele.
Il locale deve aprire, come tutte le notti.
Benvenuti allo Zombie Night, nessun Dio da pregare, ma in compenso tanta fica morta di primissimo pelo.

2. 

Rebecca si muove irrigidita e silenziosa lungo i tavoli della sala. Come assopita nel suo coacervo di cellule risorte, resa docile dalla mistura che gli ha somministrato Lucius.
Ogni tot bisogna rificcarle nella Vergine, queste non-morte, e rimpinzarle nuovamente del siero Cobra.
Bel nome gli hanno affibbiato le autorità del ComitSan.
I burocrati posseggono quel senso dell’umorismo involontario tipico degli imbecilli. Come se un qualsiasi veleno potesse sortire un tale effetto, invece di stecchirli, una volta per tutte, definitivamente.
Le luci dorate che divampano come fuochi fatui dai fari sopra il bancone si affievoliscono lungo i tavoli della sala principale, donando a quell’intrico di sedie e divanetti bluastri e tavolini di tek un’atmosfera di buio vellutato.
Si sa, solo nelle tenebre ci si occupa di certi affari.
È nella penombra che pensano di nascondersi, anche da loro stessi.
Mi porto la sigaretta alla bocca e ordino una vodka a Sara, dietro al banco.
Sara è una viva.
– Sì, capo – sussurra, con un sorriso che sa di compiaciuta e ironica deferenza, scostandosi dalla bocca quei suoi ciuffi ribelli, neri come ali di corvo.
Non che mi piaccia circondarmi di vivi, non in particolar modo.
È che mi piace comprenderne la differenza, se ancora c’è.
È appena entrato dalla porta il tipico avventore del night. Un grasso imprenditore del sud, lo capisco dalla camicia a frange e dalle basette lunghe una spanna. Gli occhi sono incassati nella carne flaccida di quella faccia da maiale e la pelle è unta come se stesse sbrodolando di fuori la sua smania di perversione.
Veste un completo bordeaux e ha un anello grosso un occhio infilato al dito indice. Forse uno smeraldo. Lo stesso che scavano i non-morti a ovest, la nuova manovalanza delle miniere. Anche lì: doppia dose di Cobra e una di telepatina, quella potenziata nei laboratori fuori Neopolis. Due piccioni con una fava dunque: si acquietano la rabbia e la fame, e si condizionano le attività. Semplici comandi impartiti nelle sezioni di condizionamento.
Così come con Cassandra. Ormai sa che il suo compito è quello di sparecchiare e servire i cocktail.
Non sono stupidi.
Forse i vivi lo sono di più.
La Nuova Sindrome di Lazzaro, la chiamano.
Anche qui: che umorismo da bar! Forse Lazzaro di Betania si sta rivoltando (lo ha già fatto, letteralmente) nel suo nuovo sepolcro.
Ma i clienti non vengono al mio night per un Daiquiri o un Bloody Mary, anche se, bisogna dirlo, Sara li fa che sono una bomba.
Vengono per le bocche nere della notte, per la lingua dell’ultimo peccato, per le fredde vagine e le chiappe marmorizzate dal trapasso.
Oh, che bellezza è la vita, eh?
La si cerca dappertutto, anche nel culo della morte.

3.

Mi viene da vomitare.
Al terzo giro di vodka Sara mi guarda con una smorfia contrariata, ma sa che sono io il boss, e che non può far altro che servirmi.
– Tieni – mi fa, con un gesto svogliato della mano, e appoggia il bicchiere sul banco.
Senza ghiaccio, lo sa.
E poi non è tanto per l’alcol che lo stomaco mi si sta attorcigliando dentro, che chiede aiuto, che mi dice basta.
È la musica. Questo lento fluttuare delle note di Chet Baker.
Questo posto non si merita le note di miele di quella tromba divina. Non ora, proprio ora che vedo rimpinzarsi la bocca da un tramezzino con uova questo stupido bamboccio con camicia in raso e occhiali scuri anche nel buio. Sembra il tipico rampollo di una tipica famiglia ricca della zona. Imprenditori del tabacco, forse. O di quella merda di carne nella gelatina: i vecchi di qua ne vanno pazzi, la ingollano al tramonto seduti sui loro portici mentre scrutano il cielo di piombo. Come se quel cielo potesse rivelargli qualcosa che non sanno, o che fanno fatica a dirsi.
Il giovane riccastro mastica il suo panino e si incammina verso il corridoio laterale.
Procede oscillando nella penombra.
Briciole di pane di segale vaporizzano nell’aria.
I capelli neri con una perfetta scriminatura di lato baluginano di un riflesso violaceo.
Sta scendendo di sotto.
La parte del locale che noi chiamiamo la Bolgia.
Non in senso spregiativo, o che possa incutere spavento, ci mancherebbe. I clienti abituali lo conoscono il significato. Niente inferno qui, anche se i morti non mancano di certo. No, nessun supplizio, non è il mio mercato. La fossa di questo inferno privato è comandata dal piacere, da quello estremo e più perverso, fuori da ogni dogma o religione. Distante anche da ogni vecchia filosofia.
Perché questo è un nuovo mondo. Un Nuovo Lazzaro ci cammina attraverso, giostra il passo tra le sue sale ovattate, accarezza le mura lisce di pittura nera nettuniana, s’incendia il viso sotto i neon di luce purpurea, si divincola nei corpi senza respiro di una vita clonata dal decesso.
Quello che i vermi non hanno potuto mangiare lo divoriamo noi, adesso.

4.

Quello che all’inizio si evitava, ora è ricercato. Ora è merce rara.
È un articolo prelibato, adesso.
Strano, vero?
All’inizio erano sembrati solo una calamità, poi si è scovata la controffensiva, il modo di domarli. La maniera per arginare la cosa. E con lo spirito imprenditoriale che ci contraddistingue addirittura servircene.
Ora sono diventati manodopera, schiavi, intrattenimento.
Si parla sempre di carne morta, ma non nel senso stretto del termine.
Sono passati di là, ma ora rimbalzano sullo stesso elastico del nostro campo da gioco.
L’uomo è così: indicagli un basso istinto e lui ci si butterà a capofitto.
Alle nuove arrivate, acquistate direttamente dai NecroShop del Governo e quindi certificate, Lucius esegue lo stesso, identico trattamento. Sempre.
Le dosi dalla ComitSan sono ordinatamente infilate nelle loro sacchette di plastica impermeabili.
Dosi, siringhe e ugelli. Tutto il nécessaire.
Ne abbiamo una scorta pressoché infinita nell’armadio refrigerato nel locale dell’edificio, sul retro.
Ci pensa Armande a procurarsele, due volte all’anno, scarrozzando sulle strade dissestate della periferia di Neopolis fino alla Capitale, direttamente ai magazzini del Comitato. Abbiamo i permessi necessari, vidimati stagionalmente.
Facciamo tutto alla luce del sole, se così si può dire.
Le nuove non-morte arrivano sempre con uno di quei furgoni militari del Comitato.
Sbraitano e urlano. Com’è ovvio.
Sono ancora vergini di siero; ci piace somministrarglielo noi per la prima volta. Le vogliamo pulite. Efficienti. Non con qualche bolla nel sangue o del rimasuglio tossico procuratogli da qualche pervertito. Magari da qualcuno che se n’è già servito e che si è improvvisato provetto infermiere con qualche dose scaduta o conservata male in uno scantinato di provincia.
Ci piacciono fresche di virus. Quelle da allevamento.
– AAAAARRRR! – urla ancora, la futura puttana.
È sempre la stessa cosa.
È legata con la catena al collo, le borchie ai polsi stretti dietro la schiena. La maschera di cuoio sulla bocca. Le si intravedono le labbra secche e i denti che scartavetrano, tra le fessure.
È la seconda, questa settimana. Il lavoro non manca.
Strattonata giù dal cassone, la preleva Lucius e con la sua proverbiale dose di gentilezza gli assesta un pugno su una tempia. Di quelli che non lasciano lividi troppo evidenti. Con un asciugamano bagnato avvolto sulle nocche. Ci sa fare, il vecchio.
Lucius ha lunghi baffi bianchi a manubrio e insiste a calcarsi sulla testa quell’ingombrante cappello da cowboy. Il suo dente d’oro brilla nella luce d’argento dei fari nel parcheggio mentre un ghigno gli s’increspa sulla bocca larga.
Ci sa fare, non c’è niente da dire.
La non-morta china il capo sopraffatta, delle bolle di saliva le ciondolano dalle labbra blu e le colano oltre la maschera, gli occhi infossati sembrano bussare alla poltiglia del suo cervello. Il suo corpo nudo pare di pergamena, leggero come pane carasau.
Avremo tempo per farla bella. Anche per insegnarle la buona educazione.
Ora Lucius apre la Vergine, il suo coperchio cigola. Lucius manda una smorfia contrariata. So già cosa pensa. È un tipo pignolo. Controllerà i cardini più tardi, e magari ci innaffierà sopra del buon lubrificante.

5.

Voglio scendere nella Bolgia a dare un’occhiata. C’è Armande di sotto, che controlla. Ma non si sa mai. I clienti spesso si lasciano andare. Pensano che a un non-morto non debbano riserbargli la stessa cura che a un vivo. Si sbagliano. Questa è merce mia.
– Aspetta, Frank – mi sospira sul collo Sara. Mi appoggia una mano sul polso, appena alzo il culo dallo sgabello. Io fremo, non sono abituato al contatto umano.
Riabituarsi alla vita non è facile.
– Cosa c’è?
– Paula ti vuole parlare.
– Non gli bastano più i soldi che gli do?
Sara si tira indietro. Sospira.
– Non è questo, non penso…
– E cosa, allora?
Non ho tempo, adesso, di farmi incalzare da Paula sul fatto che ha bisogno di un corso di aggiornamento riguardo al condizionamento delle troie. Che nella Capitale ne fanno alcuni all’avanguardia. Che si sono studiati nuovi sistemi di controllo, di ultrasuoni, di collari elettrici, e altre diavolerie. Di solito è di questo che mi vuole parlare. Non ci sono soldi e non credo ai seminari sugli zombie.
– L’ho vista scossa oggi.
– E mi vuole parlare? Adesso?
– Be’, in verità…
– In verità cosa?
– In verità sono io che penso che tu debba parlargli.
– Ma cosa cazzo… – Arretro di un passo e guardo Sara fisso negli occhi, interdetto. Non mi piacciono i giochini.
Miles Davis dallo stereo sfiata le note lunghe e laceranti di So What.
Lei mi ricambia lo sguardo, fermamente, il piccolo naso arricciato, i larghi occhi lucidi. La sua pelle è bianca come il latte, morbida. Da angelo. È proprio finita nel posto sbagliato. Una creatura di luna ficcata fino al collo nel fango di questo mondo tormentato.
– Sta male. Non so cosa le sia successo. Gestisce il condizionamento, con le sue apprendiste… lo sai… Paula è importante. Non vorrai che un giorno di questi…
Scrollo la mano davanti alla sua faccia, stizzito. Non voglio sentirla. So cos’è successo al Cold Meat, il locale all’altro capo della città.
Ecco perché i clienti continuano a venire da me. Perché si fidano.
Giro lo sguardo nelle conche di buio che ammantano i tavolini nella sala. C’è qualche cliente che beve. Sento i rumori dei risucchi lungo le cannucce affondate nei bicchieri di whiskey e assenzio. Di solito quelli che bevono forte sono quelli della prima volta. Qualcun altro parlotta. È tutta una finta, una messinscena da cerimoniale del brivido. Un farsi coraggio a vicenda. Un preliminare senza piacere. Quello che vogliono, tutti, quando sono qui, è scendere nella Bolgia.
Scoparsi un cadavere che cammina.
Sentirselo duro tra le labbra fredde di un morto ammaestrato.
Lascio Sara interdetta dietro al bancone del bar, senza risponderle.
Mi brucia lo stomaco e non ho voglia di considerare eventuali problemi.
È un mondo di morti, questo. E i vivi ci sguazzano dentro.

6.

Nella Bolgia, quindici gradini sotto la sala principale, regna quella luce catacombale a cui ti ci abitui dopo qualche secondo. Tubi di neon rossi balenano come lampi intrappolati, sopra ogni cabina, a una spanna dalle tende nere.
Una sala circolare irrompe alla fine del corridoio e da lì dipartono altri budelli scuri, altre tende, altre luci rosse. Un lampadario d’osso sostiene delle luci a goccia che emanano una fluorescenza verdastra, da abisso marino. Delle poltrone e alcuni divanetti sono sparsi nella sala. Tavolini rettangolari sostengono alcuni dépliant, una caraffa colma di tè freddo e dei bicchieri lucidi. Berenice è in piedi, il solito corpo affusolato insaccato in quell’attillato ed elegante vestito nero. Mostra il catalogo a un cliente, un vecchio dalla faccia segnata da rughe come cicatrici e gli occhi azzurri da uccello. Berenice sfoglia il catalogo sotto lo sguardo attento del vecchio. Mostra la merce. Sussurra i nomi. Ne decanta le caratteristiche. Il vecchio, lo vedo bene, si passa la lingua bianca sulle labbra raggrinzite. La chioma rossa di Berenice sembra fluttuare in quell’enorme chignon sopra il suo viso affilato, il naso a punta, e le sue dita leggere indicano sul librone ora una figura, ora un’altra.
Sono curioso di sapere dove sia andato il giovane con gli occhiali da sole. Spero non da Cassandra, sono stato chiaro su questo punto. Per Cassandra solo clienti selezionati.
C’è Armande che cammina circospetto davanti alle tende. Fuoriesce ora da un budello, si accorge di me. La sua camicia di flanella sembra non contenere la tonicità dei muscoli del petto. Braccia come enormi pinze. Un volto olivastro, il naso un mantice, nuvola di riccioli scuri sulla testa da Neanderthal.
Gli chiedo: – Il tizio appena entrato?
– Da Zelda – mi risponde solerte. – Non è la prima volta.
Il suo tono di voce ha un che di catramoso. Come se avesse la gola ricolma di sassi.
– Mi pare di non averlo mai visto.
Ogni tanto perdo un colpo. D’altronde, pago gli altri per tener conto di queste cose. Non posso stare dietro a tutto.
– È un habitué. Gironzola da queste parti sempre con lo stesso paio di non-morte.
– È un tipo a posto?
– Finora non ha mai pisciato fuori dal vaso – mi rassicura Armande.
Berenice ha appena fatto alzare dalla poltrona il cliente, lo sostiene con grazia per un braccio, lo accompagna verso il budello a sinistra, il primo che diparte dalla stanza circolare. Il vecchio deve aver scelto il boccone a cui vuole dare un morso. Berenice mi vede e sorride. Ha un sorriso sempre sbalordente, acceso, appagante. È una donna affascinante, seppur l’avanzare dell’età e il logorio di questa vita da abissi le ha scalfito il viso in più punti, rendendola pungente, sottile, la zona sotto gli occhi uno zodiaco di grinze. Ma col suo sorriso travalica il tempo, ti confina nel suo spazio accomodante, ti gratifica lo sguardo. Una maîtresse di tutto rispetto. Forse è nata per questo lavoro.È da vent’anni che la Nuova Sindrome di Lazzaro è stata circoscritta e si sono trovate le contromisure. Ed è da vent’anni, che io sappia, che Berenice lavora in questo campo. Anche prima dello Zombie Night, mi ha raccontato che se la sbrigava in quelle case di tolleranza governative, prima che si privatizzasse tutto il pacchetto.
Insomma, niente da dire sulla sua professionalità e la sua esperienza. Una donna d’altri tempi. Saprebbe mettere a proprio agio anche un granchio nella marmellata.
Lascio che Berenice accompagni il vecchio alla propria alcova e io mi dirigo nel budello accanto, quello parallelo.
Odore di cannella e di sudore. Di polvere intrappolata negli spessi tendaggi neri. Il corridoio è rivestito con parquet rosso di acacia, lingue azzurre baluginano dalle candele di plastica ficcate nel ferro battuto inchiodato alle pareti, i bagliori sopra le cabine sprizzano un suono rosso da cortocircuito.
Dall’interno di una cabina, oltre la tenda nera, odo il grufolare di un coito soffocato. Più in là, dietro un altro sipario scuro, un lacerante e rabbioso urlo e lo stropiccio di carne percossa. Il tramestio di membra trascinate, più avanti ancora, dall’alcova la cui luce rossa ballonzola in ammicchi di neon sfrigolante.
Finché non esagerano tutto è concesso. Per questo esistiamo.
Per chi vuole addentarsi in una più nobile e attraente attività ci sono sempre le ZTR. Le famigerate Zombie Torture Rooms. Ma Neopolis ne è sprovvista.
I morti, d’altronde, non hanno sentimenti, dicono.
Io non ne sono molto convinto.
In cosa i vivi sono meglio?
Quali sono questi grandi ed encomiabili sentimenti di cui l’uomo si può far vanto?
Io qua vedo solo gente che vuole infilare il cazzo in una cavità di oscuro indecifrabile, per poter decrittare il proprio osceno futuro, la lascivia della Fine. Vogliono palpare il Mistero stillato da un bacillo di cadaveri, godere nella bava della propria superstizione.
Scopare con la paura, ecco. Tutto qui.

Cassandra è nella cabina alla fine del budello.
L’odore acido della lussuria sembra svanire man mano che procedo verso il fondo del corridoio, come se il miasma del conflitto della carne calda contro quella morta si incastri in una bolla che non riesce a cavalcare il termine di quel cunicolo.
Mi sembra di respirare meglio quando arrivo alla cabina di Cassandra. Non lo so se è solo una mia impressione, se fa parte di una specie di desiderio inconscio, di un traboccamento delle emozioni a discapito della ragionevolezza sensoriale.
Sfioro con i polpastrelli la tenda nera. Percepisco lo spessore pesante, una strana malinconia materica intrisa nella stoffa a poco prezzo.
Con due dita ne scosto un lembo e sbircio dentro.
Il letto è in ordine. I cuscini rosa sono posizionati sulla testiera di ottone, lindi e stirati. Cassandra è seduta sullo sgabello di legno, a un metro dalla specchiera che riflette la silhouette scura della sua schiena. La penombra è sparigliata da un faretto calato in terra che bombarda di un fuoco rosso il bianco soffitto umido.
Cassandra si volta quando sente i miei passi che entrano nella sua cabina.
Il suo volto morto è bello come un diamante.
Le labbra azzurre si distendono – sembra un sorriso, forse lo è veramente.
Gli occhi, grigi come lapidi, sono disseminati da arabeschi di venuzze blu.
Coriandoli di pelle sembrano sfaldarsi dal petto nudo quando si alza dallo sgabello; le corone dei capezzoli, viola come un sessuale e liturgico paramento funebre, si assestano sulla linea del mio sguardo.
Lei mi riconosce, ne sono sicuro, quando mi avvicino, e le porto una mano sul viso – gustando il freddo fremito della sua guancia.
Poi appoggio le mie labbra sulle sue. Sapore di terra e rossetto alla fragola. La bacio, con la soffice premura di un innamorato, di un pazzo che si è perso negli eoni di una morte che non vuole morire. E lei ricambia.