La Prima Parte potete leggerla QUI
7.
La prima cosa che fa Lucius è ficcarla nella Vergine, quando la non-morta è tramortita. Lì, nel parcheggio.
Non gli riesce sempre così agevolmente. A volte deve sudare di più. A volte deve chiedere l’aiuto di Armande.
Ma solitamente un suo tipico colpo assestato nel punto giusto fa sì che la zombie cali l’attenzione per gli attimi necessari.
Le chiavi per collare e bracciali borchiati sono universali, sempre le stesse, per cui Lucius afferra le solite dal suo cinturone e slega quelle mani e svita l’affare sul collo. Deve essere rapido e compiere i gesti giusti. Ma Lucius è bravo. Preciso, metodico e celere. Calcia la necro-troia nella fodera della Vergine, ancora imbambolata dallo sganassone. Con un ringhio le posiziona le braccia negli scompartimenti appositi, assesta la sbarra all’altezza della nuca, sui fianchi, nelle cosce, lungo le ossa del bacino, strizzata come una sardina nel suo barattolo, costretta come metallo liquido nel proprio stampo da fusione. È un’operazione millimetrica. Lucius srotola le cinghie di cuoio dalle guaine laterali e serra ben benino il busto, le braccia, le gambe, tutto il ben di dio risorto e sbavante. Le cinghie sono attrezzate con dei pettini di ferro che si incastrano nella fodera. Se respirasse, la non-morta ora farebbe una fatica del diavolo.
Confezionata come una banana nel suo cellophane di cuoio, ferro e legno. Questo è fondamentale. Le siringhe, dagli ugelli entreranno nei fori del sarcofago e si innesteranno negli aghi interni infilzati nella carne, nel punto giusto. Non più di due centimetri sopra o sotto. Ma Lucius ha acquisito una dimestichezza formidabile per quest’attività e, inutile dirlo, se ne fa vanto appena può. “Sono il professore dell’inquartamento” e si mette i pugni sui fianchi, tracotante. “Sono lo Strizzamorti”, e ghigna, con il suo dente d’oro che brilla in quell’espressione che sembra sempre truce e feroce anche quando non vorrebbe esserla, immagino.
Poi controlla gli aghi del coperchio, nella parte interna, pungiglioni di otto centimetri già fissati con le ventose e bloccati nei punti esatti. È tutto a posto.
Afferra il coperchio della Vergine, scostandolo per chiuderlo con entrambe le mani, accarezzando i listelli di lamiera dei bordi, tastando delicato il legno consumato, osservando ironico quella croce rossa di vernice scrostata all’altezza della faccia. Si sente il rumore ovattato e scricchiolante degli aghi che penetrano nella carne, come uno zodiaco di stalattiti che pungono le meridiane perfette in un cielo di pelle necrotica.
La non-morta urla. Il solito urlo, terrificante; pompato da polmoni che paiono popolati da vermi o da conchiglie di un mare di petrolio.
Ora Lucius può trasportare il corpo nel laboratorio, al primo piano dell’edificio di mattoni rossi dietro allo Zombie Night, in quella depressione che s’allarga in un cortile di terra gialla, oltre i bidoni di immondizia e i vapori dei locali della lavanderia – vapori che formano una strana e grottesca bruma, la nebbia surreale di questo paese arido, l’unica che possiamo permetterci, quella del lavacro dal sangue, dallo sperma e dal piscio sulle lenzuola rosa della Bolgia.
8.
Rebecca afferra i bicchieri vuoti e li appoggia sul vassoio, tra le cuspidi delle bottiglie scolate, nella penombra della sala ormai vuota. I fianchi le ballano leggermente fuori sincrono sulle ginocchia, come se la spina dorsale fosse annodata in qualche modo strano sul bacino. Lucius e Paula tengono le relazioni mediche con i cicli di somministrazioni sempre aggiornate. In un librone dalla copertina rigida sopra lo schedario nell’edificio. Le somministrazioni periodiche trimestrali di Cobra e telepatina potenziata non possono essere posticipate, neppure di qualche ora. Ma non è per questo che Rebecca cammina così. Non mi si avvinghierà con le braccia al collo per assaggiare la mia gola a causa dell’effetto svanito del siero, no, credo che neanche oggi succederà. Non è mai successo niente del genere qui, fino ad ora. Non come al Cold Meat. Brutta faccenda quella. È solo una questione di reazioni dell’organismo al condizionamento, per le quali Rebecca, specificatamente nella sfera dell’apparato motorio, ha sempre avuto qualche problemino. Niente di estremante preoccupante: Paula dovrà darsi da fare con le sue ragazze per cercare di recuperare quell’handicap con sessioni di condizionamento più intensive.
Paula, eccola: seduta dietro al bancone, sta accarezzando con la punta dell’indice il bordo di un bicchiere ricolmo di un liquido ambrato. Ha il viso stanco, lo vedo. La pelle le sembra essersi rinsecchita attorno alle labbra sottili, e i capelli biondi sono scarmigliati sulla nuca e appiccicati di sudore sulla fronte. Gli occhi azzurri sono più annacquati del solito, rimandano un riflesso di spossatezza e sono strizzati ai lati in rughe d’apprensione. Dev’essere sopraffatta dal lavoro, ne sono certo. In queste ultime settimane due nuove non-morte non sono poche, senza contare le continue sequenze di riassestamento di condizionamento di tutte le altre. È un ciclo continuo, che non deve essere interrotto. Di fianco a lei, Melania le sta parlottando all’orecchio, quasi le sfiora la pelle con le labbra. Per quanto ne so potrebbero essere pure amanti. Melania è una delle giovani apprendiste che l’aiutano nei condizionamenti. I suoi capelli corvini si addolciscono di un riflesso ramato sotto le luci dorate. Inclina il viso di sbieco quando mi vede, infastidita. Gli occhi le si strizzano in un’espressione che mi sembra di avversione. Quando mi avvicino, Melania esce dal bancone e si avvia alla porta, un gesto secco del collo a scostarsi il ciuffo di capelli dagli occhi, il suo culo grasso che volteggia nella penombra della sala, come un pallone di gomma, racchiuso in quel suo vestito di cotone aderente.
– Qualcosa che non va? – esordisco. – Melania mi sembra agitata, e anche tu…
Mi siedo allo sgabello del banco e avvicino la faccia alla sua. La scruto, forse cerco un approccio che voglio che appaia come sentita preoccupazione. La verità è che voglio sbrogliarmi da questo dilemma, il più in fretta possibile.
– Siamo oberati dal lavoro, Frank. – Alza gli occhi dal bicchiere e mi guarda con i suoi tristi occhi umidi, azzurri come un quadro di Kandinskij. Solo adesso mi accorgo che quel bicchiere che ha in mano deve essere solo l’ultimo di una serie.
– Lo Zombie è chiuso, nessuno ci può disturbare, dimmi… – Mi blocco un attimo, dietro le spalle di Paula è comparso Gorkij, il suo solito passo felpato, la ghigna della mascella protesa come un osso di gorilla, le sopracciglia irsute e i gomiti arrossati. Le sue labbra, carnose e grigie, sembrano possedere il ghigno di una paresi, una tagliola con neri denti mozzati. Il non-morto afferra dalla lavastoviglie un carico enorme di piatti e stoviglie e se ne torna in cucina facendo sibilare le ante della porta a vento. L’unico maschio che abbiamo, politica aziendale.
Faccio il giro del banco e afferro una bottiglia di Jim Beam e me ne verso due dita in un bicchiere a bolla.
Non vorrei farlo, proprio per niente. Ma appoggio lo stesso una mano su quella di Paula. La devo rassicurare, no? Mando giù in un fiato il bourbon e le gengive sembrano esplodere.
Paula sottrae la mano dalla mia e alza lo sguardo, osservando un punto imprecisato sul fondo della sala, una fetta di buio che si amalgama con la luminescenza rossa di una lampada.
– Non è solo il lavoro, Frank. Non è solo quello – si confida, con un filo di voce. – Almeno, non la quantità…
Afferro di nuovo la bottiglia. Non spreco tempo a versarmi il bourbon nel bicchiere e mi attacco al collo. La lingua mi si anestetizza.
– E cosa? – cerco di biascicare.
– Sono i morti. I morti. Questa gente risorta. Frank! – Si alza dallo sgabello, la sua voce è rotta.
Sta per implodere, penso.
– Frank. Gente risorta. Lo capisci? Ma come fai, tu? Sono morti, lo capisci? Mor-ti! Ci sei abituato, ormai? Te le scoperesti anche tu, come tutti gli altri?
No, non me le scoperei, no.
Ma poi penso a Cassandra.
La rabbia mi sale alle tempie, sferro un pugno sul tavolo. Il bicchiere che Paula stringe sul bancone vibra di una sonorità cupa.
Mi porto di nuovo la bottiglia alla bocca.
– Ecco come faccio! – Un ghigno balordo deve essermi comparso sulla faccia.
Paula scrolla la testa. I suoi capelli biondi ondeggiano. Le sue tempie sudate sembrano di plastica e colla.
– Lo sai cosa è successo ieri? – La sua voce trema. Dev’essere l’alcol, penso.
– Cosa? – Strizzo i denti mentre rispondo con un’altra domanda.
– Lucy, l’ultima arrivata… – Si porta una di quelle sue dita tremolanti a pettinarsi i capelli ribelli sulla nuca, con l’altra mano si avvicina il bicchiere alle labbra. Beve un sorso avido. Vedo la sua gola che si riempie, gli occhi che si spremono, la laringe che con uno spasmo getta il fuoco liquido nella trachea. – È successo qualcosa di strano.
Sara, Paula, tutti, ma che cosa diavolo sta succedendo?
– Che cosa di strano, Paula. Cosa?
Mi sento vulnerabile, come non mai.
Non mi piace la reticenza, e neanche la lentezza delle cose.
Questo è un mondo di morti. Lo saremo anche noi, fra non molto.
– Durante il condizionamento, dopo la somministrazione dei farmaci eseguita da Lucius… Lucy, quella nuova… Ero con le ragazze a impartirgli le prime lezioni, lo sai, le solite cose… i movimenti delle mani, la reattività mascellare, i massaggi muscolari. – Paula si ferma, beve un altro sorso dal bicchiere. Delle gocce di luce color miele sembrano invadergli le palpebre mentre le socchiude.
– Sì, continua. – L’esortazione sono sicuro mi esce più come un ringhio, un comando.
Paula alza gli occhi su di me. È sfiancata, stordita. In qualche modo anche stupita dal mio tono. Forse si aspettava altro. Forse si aspettava comprensione.
– Durante l’esercitazione alla fellatio… Lucy, ecco, ne sono sicura… – Paula ancora si frena, sembra masticare le parole dentro di sé. È incomprensibile. È snervante.
– Cosa? Cosa cazzo è successo, perdio! – sbotto.
Paula alza gli occhi ai miei. Il labbro inferiore gli scivola in basso. Sembra aver assunto il broncio di una bambina.
In quel momento una delle lampade ambrate sopra le nostre teste salta. Si brucia con il tipico rumore zigrinante da cortocircuito.
– Ha pianto. – Paula alita le parole in un tono soporifero, freddo. – Lucy ha perso delle lacrime dagli occhi. Piangeva. Te lo giuro.
9.
Il locale ha aperto per la serata.
Sara è al bancone, come al solito.
Le troie non-morte sono nella Bolgia, con Berenice ad accudire i clienti e Armande a controllarli, come sempre.
Sono nel cortile, accostato alla porta di servizio. Ho acceso la mia Benson e cerco la luna nel cielo. Ma il cielo ha il colore del fegato e le stelle sono state forse ingoiate dal dio pazzo che c’è lassù, come Saturno ha divorato i propri figli.
La caligine dei vapori della lavanderia crea fette di bianco che balenano a mezz’aria.
L’edificio di mattoni rossi è davanti a me. Al primo piano Lucius sta imbottendo di Cobra una non-morta. Sta infilando le fiale di siero e droga nei beccucci delle siringhe, e i cannelli a incastrarsi negli aghi a farfalla che combaciano con i fori. È il ciclo di mantenimento mensile del virus. A cadenza regolare, tutti i non-morti vengono sottoposti, secondo il calendario.
Al secondo piano le finestre sono serrate da solide barriere di plexiglass scuro. Nell’ultima parte del corridoio che sfila lungo tutto il piano ci sono le gabbie delle non-morte vergini. Quelle appena arrivate. Quelle da ammaestrare. Appena giunte dagli allevamenti governativi.
Gli allevamenti.
Dopo i primi mesi di caos e morte e dopo la rivelazione che gli zombie potevano essere stabilizzati, dopo che si erano trovate le mansioni adatte per ognuno secondo sesso e corporatura, un semplice quesito si era insinuato nella cinica mente burocratica del Potere: una volta che questi zombie, per uccisione, incidente e logoramento fossero morti, e questa volta morti veramente, strozzati, spappolati, con la testa rotta o bucata, con chi li si sarebbe sostituiti? La risposta fa parte della logica astuta, impersonale e imperturbabile che ogni organizzazione di potere avrebbe pensato. Mantenimento di forza lavoro volontaria e abbattimento a costo zero dei crimini capitali.
Più nessuna pena di morte, ma al contrario: la pena alla non-morte.
La zombificazione.
Un’iniezione e via.
Che strano, anni a combattere una pandemia che non si riusciva a capire e poi, una volta compresa, la deliberata volontà di amplificarla. Sostituire i vivi con i morti, definitivamente.
Sputo in terra e fisso il cielo di fegato che ho sopra la testa. Potrei tagliarlo col coltello, questo cielo, uno di questi giorni, allungandomi sopra una scala di sogno, infinita e lunghissima, come un Pierrot alla ricerca del suo sedile, e magari, affettandolo, scoprirci dietro solo altro grasso, di sotto altra carne, altra polpa che sputa sangue, ma nessuna stella.
Sono stato all’edificio, da Paula. Al secondo piano, nelle camerate del condizionamento, tra l’attrezzatura di impulsi trans-cranici, gli oli e i forcipi, le fiale e tutto il resto. Non mi ha fatto più nessuna rimostranza, sembra aver dimenticato l’accaduto. O forse fa finta. È fredda, con me. Anche le ragazze, Melania e Clara, sono scostanti. Ho l’impressione che continuino l’attività con freddo automatismo, ma i dubbi che le assillano siano ancora vivi e vegeti, pulsanti. Hanno paura di qualcosa.
Ma io non posso farci niente. Sanno che se vogliono uno stipendio la ruota deve girare. È il mondo che sta crollando, non è colpa mia.
Paula mi ha detto che Lucy è pronta.
Può prestare le sue doti alla causa, ha detto.
Mi prendeva in giro, lo so.
La causa.
Questa sera Lucy è stata infilata nella Bolgia.
10.
Lucius è andato a sistemare la carne nelle celle frigorifere, al primo piano dell’edificio. Il nutrimento per gli zombie.
L’ho visto passare per la sala con la sua solita faccia contratta e il cappello da cowboy che gli formava una falce scura sopra gli occhi.
Mi ha visto e mi ha salutato, con espressione guardinga e un cenno del mento.
Lucius deve essere sempre in movimento, deve continuamente darsi da fare, ha costantemente un compito che deve portare a termine, e se non c’è un servizio stabilito allora se lo inventa. Il giorno che lo vedrò riposare vorrà dire che qualcosa non va, che il mondo, definitivamente, è andato a puttane. Le fibre del suo corpo pare suggano una forza rinvigorente dalla fatica, dal movimento, dalla macchinosa messa in pratica di tutte le faccende, onorevoli o meno, a cui è dedito, a tutte le ore.
Il contrario di me. Io osservo, cerco di essere distaccato, ma non ci riesco, come potrei?
Sono alla quarta vodka. Mi accendo una sigaretta e Sara mi guarda di sbieco, mentre si abbassa sotto il bancone, con un atteggiamento risentito.
Sembra che tutte le donne da qualche giorno ce l’abbiano con me, per chissà quale motivo.
Si rialza con tre Bud in bottiglia tra le mani e le appoggia su un vassoio.
– Ci sbronziamo anche oggi? – mi dice, facendo finta di non prestarmi troppa attenzione mentre infila dei cubetti di ghiaccio in un bicchiere da long drink.
– Mi sbronzo quando cazzo voglio – le faccio seccato, di rimando. Ma subito mi pento di averle risposto in quel modo.
Sara fa un sorrisino amaro e intanto controlla la spillatrice. Dà una pulita al beccuccio e si volta a controllare la disposizione delle bottiglie sugli scaffali.
Però ha ragione. Mi sto ubriacando troppo spesso e questa sera, in particolare, sono proprio su di giri.
Rebecca si accosta al tavolo e lentamente afferra il vassoio, sento il suo odore di sabbia, alghe e lampone. Un mix di corpo corrotto e balsami curativi. Si allontana con la sua anca sbilenca verso i tavoli, la minigonna che le pizzica le natiche troppo in alto.
Gli manca proprio il senso del pudore, a questi morti.
Due tipi mingherlini con vestiti scuri da beccamorto confabulano al tavolo verso cui Rebecca è diretta. Staranno rimuginando su quale tipo di necro-troia papparsi. Uno dei due ha uno stuzzicadenti in bocca e quando l’altro gli si avvicina per dirgli qualcosa a un centimetro dall’orecchio, questi sbotta in una risata fragorosa, si smanaccia le cosce, le spalle sussultano. Quello che gli ha parlato digrigna il muso come una scimmia, la catenina con la croce d’oro gli balla sul petto. Riesco a vedergli gli incisivi sporgenti, le luci rosse che li dipingono di giallo, il labbro leporino, gli occhi due pozze. Tipici clienti da Zombie Night. Si vede che hanno la grana. Dal taglio dei vestiti lugubri e da quella tracotanza tipica di chi si sente migliore.
Mando giù il rimasuglio di vodka e una scorzetta di limone mi rimane incastrata tra le gengive.
Solite fitte alla bocca dello stomaco.
Penso a Cassandra. Lei non è come questi zotici coi soldi. Lei non è neanche come le altre non-morte. Ha una personalità, lo sento. Possiede una struggente propensione all’eleganza, alla compassione, alla comprensione.
Lo so, anche se non parla. Lo so perché sento che mi percepisce. Sa che io so.
Ogni tanto penso di stare per impazzire.
Non può essere, mi dico. Non esistono zombie che abbiano sentimenti. Tranne quello della rabbia, se di sentimento vero e proprio si può parlare in questo caso, quando non sono imbambolati dalla droga e devono sbranare altra carne. Non esistono emozioni in loro, mi ripeto. Me lo dico per convincermi.
Ma poi guardo Cassandra. E la sento.
Non saprei come altro dirlo.
C’è qualcuno qua dentro che ha capito della mia predilezione per lei. Una di queste è Berenice. Mi ha visto gironzolare presso la sua cabina troppe volte. Lo so cosa pensa. Immagino cosa possano pensare, tutti. Ma io non me la sono mai fottuta. Non ho mai scopato con un morto. Non travalicherò questo confine. Non sono come quei figli di puttana con la croce al collo, i soldi in bocca e il cazzo sempre duro.
Questa mia consapevolezza, questa mia astrusa attrazione mi porta a essere in qualche modo fiducioso, ad alimentarmi dentro una sottospecie di speranza, ma nel contempo a provare un preciso e forte senso di nausea, di disgusto.
È tutto così innaturale, mostruoso.
Vorrei che tutto fosse esattamente come quello che provo, e vorrei che tutto fosse anche il contrario. Mi piacerebbe che qualcuno mi contraddicesse, non che mi confermasse, rafforzandomela, questa mia idea, questa sensazione.
Ecco perché non voglio credere alle parole di Paula.
La lacrima di una morta.
Questo dimostrerebbe che c’è qualcosa di inumano, o forse no, al contrario, di troppo umano, in tutto quest’affare. E che i vivi e i morti, allora, forse sono interscambiabili. Che l’umano, alla fine, è peggio di un morto che cammina.
E poi questo confermerebbe che non abbiamo a che fare solo con cose. Ma che dentro queste creature cova ancora una scintilla di quello che erano prima.
O perché no: di qualcosa di completamente diverso.
11.
La sera successiva sono al mio solito posto, appoggiato al bancone. Sara è in piedi, di dietro, i cappelli scarmigliati, una sigaretta tra le dita. È un momento di pausa, quei momenti in cui l’aria sembra soffice, il silenzio è rotto solo dalle note del sassofono di Sonny Stitt, le conche di buio della sala sembrano trasudare direttamente dalle pareti, i neon rossi sono minuscole stringhe di colore nella bruma di fumo e tra gli aliti sibilanti dei frequentatori ai tavoli, tre o quattro, non di più. La solita marmaglia danarosa dai completi costosi, le facce opaline, croci d’oro al collo e le ghigne dentro quella tenebra alla Caravaggio.
Poi c’è un trambusto improvviso. Proviene dalla Bolgia, e arriva dritto fin qui. Mi rizzo in piedi. Sara, sgomenta, resta paralizzata con la mano a mezz’aria, le dita tremanti attorno alla sigaretta. Anche un paio di avventori si scostano nervosi sulle loro sedie, inquieti come gatti vicino all’acqua.
C’è un urlo, di un uomo. Sembra roco e ammonitore. Rabbioso. Non è Armande, lo riconoscerei. Dunque è un cliente.
Un altro suono, lo stridore di qualcosa che viene trascinato, il boato di qualcosa che si rompe, il baccano di legno che si incrina. Altre cose che si frantumano. Vetro, forse bicchieri.
Istintivamente inarco il busto oltre al bancone, allungo il braccio, c’è la pistola lì, una vecchia Browning calibro 7.45. Di solito resta lì ad ammuffire, tra le bottiglie scolate e i panni umidi.
Ma non faccio in tempo ad afferrarla che un uomo, la camicia sbottonata, il viso arrossato e i capelli biondicci spettinati, si scaraventa nella sala, issandosi dalla scala, direttamente dalla Bolgia.
Noto i suoi pantaloni ancora sbottonati, le maniche della camicia bianche che presentano delle virgole di sangue. Sangue scuro, che vedo inargentarsi presso i neon rossi come in un luminescenza da luminol in una scena del delitto. Un braccio sembra vagolare da sé davanti alla faccia, mentre avanza, barcollando, e poi mi accorgo cosa stringe l’altra mano. Sta trattenendo una non-morta per i capelli. L’uomo l’ha trascinata con violenza su per le scale, il corpo imbottito di droga e ammaestrato che non oppone resistenza, un feticcio di paglia e carne tremula.
Carne che si consuma, inevitabilmente.
Vedo una clavicola della non-morta che le spunta dalla spalla come un osso sepolcrale, una lugubre fetta di osso scorticato, impiastrato di sangue. E poi l’intero braccio, dissestato, ciondolante, attaccato per un filo di muscoli e nervi alla clavicola, la scapola che sembra un’ala di ferro che ha perforato la pelle, sembianza alata e psicopompa di un inferno delle viscere, della morte che rapisce la morte, ancora e ancora.
L’uomo trascina la non-morta in mezzo alla sala. Vedo il sudore su quella fronte rossa, il fiatone, la sua mano graffiata. Ansima e urla, non lascia i capelli della morta, vedo gli occhi di Gina, è lei, la riconosco, vedo quegli occhi senza emozioni, gli occhi vetrosi e immobili di una bambola, gli occhi di un’anima catturata in un corpo che non sente più suo, un corpo che sono solo ossa e fibre e muscoli e dentro un vuoto, un soffio di morte risorta infagottata con droga psichedelica e microrganismi antigeni temporanei.
– Cosa cazzo… – Mi catapulto tra i due. L’uomo lascia la presa.
La testa della non-morta batte in terra, con un sordo rumore colloso, gli occhi sempre aperti.
È come se si chiedessero, quegli occhi: dove sono, e perché? Senza forza, nessuna energia, spirito incasellato in uno stampo di carne già morta.
– Che diavolo di troie tenete qui? – urla l’uomo, la voce incrinata dalla rabbia, ma anche dalla paura, lo sento. Spruzza bava dalla bocca, si porta una mano alle tempie, ansima.
Armande si è arrampicato sugli scalini e ora è di fianco all’uomo, con le braccia aperte, come una guardia del corpo che protegge il suo cliente da una selva di fotografi.
– Signor Beaumont… – mormora, l’espressione addolorata. Ma poi volge lo sguardo a Berenice, anche lei sopraggiunta. Ha il fiatone, il crocchio di capelli rossi formano un’ombra alle sue spalle, sulla parete, una specie di testa mostruosa, gigantesca, un naso camuso e un cranio deforme. Con fare afflitto appoggia una mano sotto il braccio del cliente. Il signor Beaumont. Il facoltoso proprietario di una catena di concessionarie d’auto d’epoca.
Berenice mi lancia uno sguardo atterrito, prima di portare via l’uomo, che si fa trascinare di nuovo nella Bolgia con malcelato nervosismo.
– Ora le cambieremo i vestiti e le faremo fare un bel bagno, signore – dice Berenice per confortarlo.
Gina striscia in terra, oscilla muovendosi come un verme, batte i polpacci sul pavimento, scuote il collo come per cercare di osservarsi la spalla, la bocca raggrinzita, scaglie di pelle si nebulizzano in polvere nera. La ferita sul braccio perde una schiuma rossastra, proiettili di sangue rimbombano sull’impiantito, scorie viscide e lingue di nervi.
– Cosa è successo? – urlo, rivolto ad Armande.
– Le si sta staccando il braccio – mi risponde, quasi indifferente, come se la questione fosse ovvia, banale, voltandosi di lato.
– E nessuno si era accorto del suo stato di decomposizione del cazzo? – sbraito, ma nessuno mi ascolta.
I tre avventori sono sgattaiolati all’esterno dall’entrata principale. La porta è rimasta aperta, cigola sulle molle tra i cardini strattonati dall’aria di piombo della notte.
Il ciclo delle non-morte deve essere vagliato scrupolosamente. Non può cadere un braccio in faccia a un cliente, magari mentre gli sta facendo una sega.
Mi giro verso Sara, sconcertato. Cerco delle risposte. Ma sono sicuro, nessuno me ne darà qui, neanche una.
È il corso delle cose, mi risponderebbe Paula.
A Sara le trema ancora la mano, le dita sospese davanti alla faccia. Allunga le labbra e le infila attorno al filtro della sigaretta. Inspira con forza.
La brace della sigaretta si incendia, un falò microscopico, come un piccolo inferno dentro un altro inferno – un inferno più grande, più spaventoso.
12.
Anche la morte muore, dopo un po’.
Gli organismi si corrompono, non c’è niente da fare.
Lucius ha afferrato Gina per il braccio sano, trascinandola fuori dallo Zombie Night. Nel cortile l’ha issata su una carriola.
Ho sentito Gina che brontolava mentre veniva trasportata sulle ruote cigolanti, verso il capanno. Ho pensato che anche loro, come le bestie al macello, sentono la morte che giunge. Come l’angoscioso e straziante urlo del maiale quando viene appeso a testa in giù, e sgozzato, e poi ficcato nella vasca di acqua bollente.
In più, Gina la conosce già la morte, ci è già passata. Questo è solo il ripasso. Chissà che in questi momenti non si accendano in loro dei percorsi cellulari mnemonici assopiti, che gli ricordino la loro prima morte.
Ogni tanto mi metto a pensare a quale tipo di vita avessero queste non-morte prima di essere tali. Lo faccio soprattutto con Cassandra. Vagheggio su quale lavoro facesse, fantastico su dove potesse abitare, su quanti figli avesse, prima di morire. Chissà perché, Cassandra me la immagino come una donna in carriera, a capo di un ufficio di avvocati, oppure come una ballerina, un étoile dei teatri europei, che danza leggiadra sulle tavole di palcoscenici internazionali, come una farfalla. Poi penso anche a come è potuta accadere la morte. In quali circostanze. Ai particolari. Se è stata sopraffatta da un gruppo di zombie durante la notte, nel suo letto. Oppure se è capitata incidentalmente in una di quelle enormi zuffe nel centro delle città, quando il pandemonio rasentò l’apice, e una dentata di sfuggita in mezzo al caos l’ha infettata col morbo. Oppure, ancora più semplice, ed è naturale supporre che sia così viste le condizioni esteriori pressoché perfette, è una non-morta da allevamento. L’assassina del proprio pargolo ancora nella culla, o l’uxoricida del proprio marito manesco, condannata alla pena capitale, alla zombificazione, e infilata in uno di quegli allevamenti governativi. Una siringata e bye bye!, benvenuta nel lato oscuro della luna.
Queste cose non dovrebbero succedere, così, senza preavviso.
Paula e il suo staff avrebbero dovuto monitorare con più cura lo stato dell’organismo della non-morta. Non è stato un bello spettacolo da vedere.
Ma non mi sento di recriminare Paula, per questo. Non sta scorrendo buon sangue tra di noi, in questo frangente.
Lucius sparerà a Gina col suo M40 con calcio in vetroresina, nella baracca.
Poi farà una buca nel campo, nel punto in cui i papaveri si diradano e si crea una striscia di terra brulla che costeggia l’autostrada. Cospargerà la buca di benzina e darà fuoco al cadavere, prima di ricoprirlo.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...