Corpo, di Silvio Valpreda

Il catalogo di Eris edizioni (www.erisedizioni.org) si amplia per accogliere una nuova collana dedicata al fantastico italiano, dall’evocativo nome di “I Tardigradi”. Come ben spiegato sul sito dell’editore, questa neonata creatura, si prefigge lo scopo di “ridare spazio e piena dignità nel panorama editoriale al racconto lungo, con libri dal formato piccolo e dal prezzo contenuto, per una lettura agile e accessibile a tutt*.”

Le prime tre meravigliose creature di questa recente wunderkammer targata Eris sono: “Corpo” di Silvio Valpreda, “Creature dell’assenza” di Giorgia Bernareggi e Sephira Riva e “Un allegro nichilismo cosmico” di Alessandro Sesto.

Oggi vi parlerò del primo esemplare finito tra le mie mani, ovvero “Corpo”.

Il racconto si apre in medias res, catapultando il lettore direttamente nella quotidianità dei personaggi, senza intorpidirlo con stucchevoli preamboli o superflue informazioni. E qui, grazie alla straordinaria abilità del narratore, che capiamo di cosa tratterà tutto il racconto: morte, amore e, appunto, il corpo umano e le implicazioni della sua assenza.

Quella del rapporto tra l’essere umano e il proprio corpo è una tematica assai antica, sviscerata e analizzata nei secoli da innumerevoli dottrine, religioni e opere di finzione. A seconda del punto di vista da cui lo si osserva, il corpo passa dall’essere centro di irradiazione simbolica (come avviene nelle società arcaiche, dove rappresentava l’unita anatomica isolabile dalle altre e per la quale il mondo si modella in base alle sue possibilità) al rappresentare il negativo di ogni valore come avviene nelle nostre società moderne, governate da codici e iscrizioni.

Il corpo del primitivo, non ancora scisso nei poli contrapposti di Natura e Cultura, affronta gli eventi naturali come nascite, morti, cataclismi tessendo un complicato sistema di simboli e riti magici in grado di riportare l’ordine in un sistema temporaneamente minacciato dal disordine.

Si crea così un linguaggio corporeo che vede l’utilizzazione di sé stesso come sistema di segni per produrre significati; quasi una disincarnazione necessaria per divenire materiale atto a significare.

Quando questo sistema reversibile di scambi viene a cessare, le comunità primitive declinano e subentrano le società attuali, dove più nulla si scambia ma tutto si accumula per creare valore.

L’Universo si scinde tra cielo e terra, tra spirito e materia, anima e corpo, ponendo l’accezione negativa tutta addosso al secondo termine di paragone.

E proprio in questa dicotomica frattura che si inserisce il racconto di Silvio Valpreda, inscenando una costante interrogazione sui significati più profondi del rapporto tra mente e corpo. Durante la lettura di “Corpo” sembra di assistere a uno dei migliori episodi della celebre serie tv “Black Mirror”, dove un futuro distopico (ma vicinissimo al nostro presente) ci pone di fronte a dilemmi esistenziali che probabilmente saranno cruciali negli anni a venire.

Il nostro corpo è soltanto un fardello terreno, infestato dalle passioni carnali oppure è il custode di tutte le sensazioni che da esso passano prima di sedimentarsi nel cervello fino a diventare memoria?

La scrittura asciutta e priva di fronzoli di Valpreda è quasi uno strumento chirurgico col quale analizzare gli eventi che porteranno Alessandra a scivolare lentamente nell’ossessione, alla costante ricerca di una prova in grado di confutare la propria esistenza in vita; ragione e passione in costante conflitto.

Nel giro di poche pagine, l’autore riesce quindi a trascinarci in una spirale discendente alimentata da dubbi esistenziali molto profondi. Il rapporto privato col proprio corpo ha sempre molteplici sfaccettature, in un climax che può passare dall’estasi totale fino alla vergogna più profonda.

Come reagiremmo se tutto ciò venisse a mancare, rimpiazzato da un simulacro sintetico?

L’assenza regna sovrana tra le righe di questo meraviglioso racconto e si muove in modo concentrico e subdolo attorno all’esistenza di Alessandra, come un letale predatore in attesa del momento opportuno per ingoiarne l’intera esistenza.

La colonna sonora perfetta per questa lettura, a mio avviso, è The Downward Spiral dei Nine Inch Nails, in particolare la canzone Hurt :

I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real

The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything

What have I become?
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end

And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

I wear this crown of thorns
Upon my liar’s chair
Full of broken thoughts
I cannot repair

Beneath the stains of time
The feelings disappear
You are someone else
I’m still right here

What have I become?
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end

And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt

If I could start again
A million miles away
I would keep myself
I would find a way

Premolare 35

Quella notte il dolore era diventato insopportabile.
Marzio ancora non riusciva a concepire cosa fosse accaduto improvvisamente al suo premolare numero 35 della semiarcata inferiore sinistra (aveva imparato la classificazione tecnica dei dentisti curiosando su internet).
Che ogni giorno degli ultimi sette, da quando quel maledetto dente aveva iniziato ad ammalarsi, si ripetesse catatonico che né i suoi nonni paterni e materni, né suo padre e sua madre e né lui per i suoi primi quarant’anni di vita avevano mai avuto una carie a quelle piccole ossa masticatorie non bastava a consolarlo, ma anzi lo rendeva ancora più incredulo e arrabbiato
Sarebbe anche passato sopra al fatto che a qualcuno della sua genia prima o poi fosse accaduta una cosa del genere e che fosse malauguratamente successo a lui non lo toccava poi tanto. Quello che gli era impossibile comprendere, con tutta la fantasia e l’immaginazione addizionabile alla sua razionalità, era l’evoluzione di quello che stava accadendo al suo povero dente in quel lasso brevissimo di tempo.
Una piccola macchia nera era comparsa sul premolare come primo sintomo, e l’aveva notata a causa di una sensazione di intenso brivido freddo provata mentre beveva un bicchiere d’acqua appena fresca di frigorifero, nulla di anormale. Era un punto scuro minuscolo con un lieve alone giallastro sulla corona esterna del dente, appena sopra il colletto gengivale. L’aspetto del premolare, a parte quel piccolo moschino immobile, era buono; lo smalto era brillante e luccicava ancora di bianco orgoglio sotto la luce led della mensola superiore dello specchio in bagno, dove Marzio lo stava ammirando scorato.
Il punto nero c’era però, maledetto e inaspettato.
Quel pomeriggio stesso, Marzio era stato tentato di cercare subito un dentista, ovvio, ma non ne conosceva nessuno e aveva il terrore di doversi rivolgere a un medico sconosciuto. Tali considerazioni tarparono le ali a quella risoluzione logica e consequenziale avviata in fieri contro quella macchia. Non si diceva del resto nei proverbi popolari che se un problema lo si affronta quando è ancora piccolo lo si può risolvere con minor danno e minor dolore? Sì, aveva convenuto Marzio. Ma aveva sentito proprio in quel momento salire dentro di sé un sottile e strisciante malessere provocato dall’ipotizzare quello che avrebbe trovato dal dentista. Cosa avrebbe provato quando l’ago della siringa per l’anestesia locale avesse violato le sue rosee e immacolate gengive? Avrebbe avuto una reazione nervosa incontrollabile al rumore del trapano al momento dell’accensione e dell’avvicinamento alla sua bocca? E infine sarebbe stato assalito da un senso di schifo, non motivato vista la sterilizzazione, per l’aspiratore salivare che chissà quanti puzzolenti aliti avevano violentato con i loro miasmi prima di lui?
Erano tutti pensieri che si accavallavano l’uno sull’altro per spingerlo nel baratro dell’inerzia e dell’angoscia. Aveva deciso di lasciar passare qualche giorno prima di affrontare di nuovo l’idea di prendere un appuntamento.
La mattina successiva alla scoperta della carie si era svegliato di cattivo umore. Non li ricordava, ma era certo di aver fatto brutti sogni, si era girato e rigirato più volte nel letto dormendo a scatti. Quando la sveglia elettronica aveva trillato alle sei e trenta era nella terra di nessuno di un dormiveglia inquieto. Sua moglie Vanna era accanto a lui e ronfava della grossa; lei aveva minimizzato la cosa dopo che Marzio l’aveva edotta della novità e con il suo usuale pragmatismo gli aveva detto: «Chiama quel cazzo di dentista prima che la situazione peggiori». Aveva infilato le ciabatte e si era diretto in bagno per pisciare. La lingua gli sembrava un corpo morto marcito da giorni, allappava secca e maleodorante.
La lingua batte dove il dente duole.
Certo, aveva pensato Marzio mentre allocava il suo pezzaccio rosso di carne pendula sulla corona malata del premolare, durante la notte la lingua doveva essersi spennellata ben bene chissà quante volte sul dente, assorbendo quel saporaccio di patate fradice che evidentemente i patogeni sprigionavano.
Aveva affrontato lo specchio del bagno stavolta con timore, come se avesse già colto un vago presagio di cattive notizie.
Aveva trattenuto a stento un urlo.
La macchia si era allargata, irradiandosi su metà della corona dentale esterna. Il nero della carie trascolorava verso il marrone e il giallo ocra alla periferia del suo nuovo lotto di avorio conquistato; l’area infetta sembrava pulsare di vita propria esponendola ai riflessi della luce sotto varie angolazioni, aveva guadagnato una proporzione incredibile di superficie rispetto a poche ore prima!
Il generale Custer muove in ritirata sulla collina, il nemico avanza, minaccia l’accerchiamento, urgono decisioni urgenti o sarà una carneficina.
Marzio, immaginando la battaglia di Little Bighorn come triste metafora della situazione del suo premolare, aveva richiuso la bocca avvilito. Era uscito dal bagno, aveva fatto colazione. Non provava un dolore eccessivo, sempre il solito fastidio ai caldi e ai freddi. Un accordo con la vigliaccheria stava montando dentro di lui ed era pronto per essere siglato, lui che nella sua vita non lo era mai stato.
«Lasciamolo stare. Non posso credere a quello che ho visto. Sto vivendo un’allucinazione, sì è così… magari tra poco mi sveglio e tutto è passato… e se non succede non me ne frega un cazzo, non posso accettare che un mio dente si stia comportando così.» si era detto mormorando tra sé e sé in cucina, finendo il suo tè al limone.
Non ci tornò sopra fino a quella notte di mercoledì.
Si era svegliato quattro volte in preda ai dolori. Aveva masticato un paio di antidolorifici ma niente: il patimento restava insopportabile. Vanna si era alzata alle tre dal letto, mandandolo affanculo e andandosene a dormire sul divano del soggiorno.
La sveglia stavolta tacque, perché Marzio l’aveva fermata prima che suonasse. Si sentiva uno straccio. Immaginò la sua mandibola trasformarsi in un incudine ed essere presa a martellate senza motivo da un fabbro incazzato per le corna subite da sua moglie. Gli venne da abbozzare un mezzo sorriso, ma il dolore era così intenso da tramutarlo in un ghigno straziante. Dalla tapparella abbassata solo parzialmente i primi barlumi di luce filtravano nella stanza e lo aiutarono a uscire dall’abulia di quell’incubo oscuro ma reale, da quel tormento senza fine che era stata quella notte allucinante.
Erano passati sei giorni da quando non aveva più avuto il coraggio di guardare il dente allo specchio. Era terrorizzato all’idea di vedere quali evoluzioni avesse preso quel male nero che arricchiva i dentisti e portava alla perdizione dei sensi e della ragione i pazienti: le vittime di quelle vili aggressioni di agenti patogeni inizialmente invisibili, che cantavano poi in coro gli osanna al supplizio, stendendo il loro oscuro sudario sull’avorio immacolato.
Marzio constatò con amarezza, alzandosi dal letto, che i suoi occhi lacrimavano. Il suo non era un pianto comune però, era la resa finale alla codardia verso una nuova terribile forma di coraggio che non riusciva ancora a nominare.
Non avrebbe visto allo specchio cosa stesse diventando o fosse già diventato quel dannato premolare. Se lo figurò soltanto: lo vide schernito e vilipeso da milioni di batteri che si moltiplicavano come conigli in calore, mangiato fino alla polpa e alla radice in un baccanale senza fine, sentendo infine il raschiare insopportabile delle loro microscopiche bocche fameliche sull’osso mandibolare.
Si portò le mani tra i capelli sconvolti in elicoidali e appiccicosi assembramenti e li tirò verso l’alto, sperando che fossero come i fili di una marionetta scesi per un attimo all’interno della sua testa, muniti ognuno di un amo, per agganciare quel corpo osseo martoriato fino a trascinarlo via in qualche modo.
Desiderava con tutte le sue forze che quel miracolo accadesse, ma sapeva che non sarebbe stato ascoltato da nessuno. Che le cose sarebbero solo peggiorate. L’umiliazione era devastante, e se la immaginava nelle risate sommesse alle sue spalle del dentista e dell’assistente se si fosse presentato sulla poltrona del calvario, nel momento in cui avesse aperto la bocca per mostrare al mondo la sua portentosa carie. Se la immaginava nello sfottò maleducato di sua moglie Vanna con quelle troie delle sue amiche, che probabilmente aveva già messo in atto allo smartphone da giorni.
Non era una situazione accettabile, da qualsiasi lato la si investigasse.
Restava un’unica soluzione.
Marzio si diresse alla porta finestra della camera da letto, l’aprì, issò la tapparella e uscì sul terrazzo che si affacciava dal quinto piano sul cortile interno della palazzina. L’alba stava guadagnando spanne di luce all’oscurità, l’aria era fresca e pungente, ma questi erano dettagli che i suoi occhi e i suoi sensi registrarono solo come l’ultima mera constatazione della sua presenza tra i vivi.

Il patologo aveva svolto il suo lavoro all’obitorio con la solita alacrità. L’ultimo corpo che aveva sottoposto ad autopsia quella sera era stato quello di un giovane uomo di quarant’anni, un certo Marzio Fulcroni, che si era gettato dal balcone del suo appartamento per motivi ignoti.
Tra le note particolari del suo responso autoptico, solo una cosa lo aveva colpito… non le fratture multiple scomposte di braccia e gambe e non lo schiacciamento del cranio che aveva fatto collassare il cervello facendo schizzare dalle orbite gli occhi come due pupazzi a molla. La cosa che non lo avrebbe fatto dormire per diverse notti erano le condizioni delle arcate dentali: ben trentuno denti compresi quelli del giudizio erano completamente cariati, neri in ogni loro parte, come se quell’uomo avesse fumato per dieci vite dieci pacchetti di sigarette senza filtro al giorno… solo un dente, il premolare 35, era intonso, perfetto, intatto, e il suo avorio luccicava magnetico e bellissimo come un diamante.

Illustrazione di Horacio Quiroz

STUCK – intrappolati nell’oscurità, di Stefano Fantelli

Siete pronti a finire sotto terra?
La nuova fatica del nostro Stefano Fantelli, sciamano della scrittura,, è una succosa novella horror metanarrativa, dove la trama principale si innesta sull’immaginario creato dal film omonimo Stuck – Intrappolati nell’oscurità di Alessio Bernardi, uscito nel 2020 sotto l’etichetta di Cronenter Films portandoci nelle viscere più oscure della Terra.

Gli avvenimenti del film, in un primo momento, rappresentano la succulenta polpa narrativa dalla quale tutto ha inizio.
I primi movimenti del libro rappresentano, di fatto, una novelization della pellicola (come l’ha, giustamente, definita Moreno “Zagor” Burattini in un suo intervento), ma ben presto assistiamo a un mutamento dei fatti. La parte filmica si sposta in secondo piano e la narrazione si tramuta in un qualcosa d’altro, un hybrid letterario indipendente, un boccone assai appetitoso nel cupo banchetto infernale imbandito per noi lettori, tanto per continuare con le metafore mangerecce.

Il ritmo della scrittura ricalca e amplifica le possibilità offerte dallo stile tipico del linguaggio cinematografico, dosando sapientemente rallentamenti, salti temporali e improvvise accelerazioni. Il lettore, incuriosito, adesso è chiamato a diventare testimone (suo malgrado!)  degli eventi avvenuti anni prima a Borgomascherato, luogo già noto ai lettori di vecchia data.
Nelle caverne poco fuori al paese giace sepolto un passato sgradevole, fatto di esperimenti genetici nazisti e di creature sanguinarie ricacciate nel buio assieme alle ossessioni di Giarone, il gigante buono, ultimo strambo baluardo contro l’invasione degli extratedeschi.
E proprio qui, in bilico fra gli eventi di ieri e quelli di oggi, operano le sapienti mani del Brujo, abilissime nell’annodare stretti i filoni principali che compongono il corpus della novella. Tre storie diverse, tutte destinate a concludersi, in un modo o nell’altro, nell’oscurità.
Non vorrei rovinare a nessuno il piacere della lettura, spoilerando beffardamente il finale di quest’opera da godersi tutta d’un fiato, ma posso dire, senza alcun timore, di essermi trovato per le mani un piccolo gioiello della moderna narrativa weird di intrattenimento.
Infatti, oltre ad aver apprezzato la gradevolezza di una storia ben congegnata e scorrevole, il valore aggiunto che ho trovato in questo libro è la grande capacità dimostrata da Stefano Fantelli nella caratterizzazione dei personaggi. Un’abilità che gli permette di creare, in pochissime pagine, un microcosmo di personaggi vivi e credibili, intersecati e inseriti magistralmente in un contesto temporale molto ampio.
Questa abilità, da considerarsi quasi magica, nel piegare la scrittura alle necessità della narrazione è, per me, la vera forza del Brujo. Le parole usate, sempre scelte con cura e dosate alla perfezione, riescono benissimo nella loro funzione di rendere visibili gli eventi.
Giuro, durante la lettura vi sentirete costantemente osservati e guarderete con sospetto ogni angolo buio di casa vostra!
Una storia potente, scritta per intrattenere e divertire il lettore, ma al contempo ricca di spunti di riflessione non banali sul tema della diversità.
E, come succoso extra, un finale aperto che chiude un ciclo narrativo da una parte e, dall’altra, lascia aperto un intero universo in divenire.
Dopo la lettura di Stuck, infatti, ho avuto la sensazione di aver “assistito” a una sorta di episodio pilota, un cortometraggio raccontato attraverso le parole; assaggio di un futuro che sembra essere ben delineato nella mente dello scrittore e che potrebbe rivelarsi assai ricco di sviluppi. E non solo per quanto riguarda la letteratura, a mio modesto avviso.
Concluderei parafrasando un noto aforisma di Wilde sul piacere della sigaretta, riadattandolo alla scrittura di Stefano Fantelli: è il prototipo perfetto del piacere. È squisita e lascia insoddisfatti. Che puoi desiderare di meglio?

 

Gli Uomini della plastica

Li senti, là fuori? È mezzanotte passata, sono gli Uomini della plastica.
Come chi sono? Ma sì, dai, gli spazzini quelli porta a porta, sono venuti a ritirare la plastica stasera. L’ha messa fuori la mamma, non l’hai vista? Li senti, con il loro camioncino? Fa’ piano. Vedi attraverso le persiane la luce dei fanali? Sono tutti diversi tra loro, quelli che raccolgono la spazzatura. Ma quelli della plastica… quelli sono completamente diversi. Poi, ora, è davvero la loro stagione. Sì, la primavera, ma soprattutto Pasqua, la loro festa. Domani!
Cosa? Macché Uomini del cioccolato, non dire stupidaggini. Alla cioccolata ci pensano i conigli, dovresti saperlo, sei grande abbastanza ormai. Gli Uomini della plastica sono un’altra cosa. Loro non sono sempre stati così. Sono nati negli anni ’90, quando la plastica era ovunque, quando la si usava anche per pulirsi il culetto. La plastica di oggi non è niente in confronto a quella degli anni ’90. Anche perché, alla fine, in quella degli anni ’90 ci sguazziamo ancora. Loro sono nati lì. O meglio, Lei è nata lì.
Lei chi, chiedi? Eh… ora ti spiego.
Li senti, lì fuori, che raccolgono la plastica dentro i sacchi? Per loro è il massimo. Si mangiano i sacchi non appena arrivano al deposito. Per loro sono come una sorta di golosa placenta.
Cos’è la placenta?
Mamma mia, ma ti insegnano qualcosa a scuola? È il sacco in cui stiamo mentre siamo nella pancia della mamma. E, appunto, alcuni la mangiano perché tipo fa benissimo. Lo stesso fanno gli Uomini della plastica. Cioè loro si mangiano i sacchetti che hanno dentro la plastica come fossero una placenta, perché per loro è così. D’inverno vanno ghiotti per quelli dei pellet, che sono un po’ più spessi. Quindi loro passano di casa in casa a raccogliere la plastica, tutti i martedì notte qui da noi. La caricano nel loro furgone e la portano al deposito. Lì hanno un rullo, dove ci mettono i sacchi e, con altri Uomini della plastica, li aprono e se li mangiano, prima di selezionare bene il contenuto. Ovviamente devono controllare che la roba dentro sia plastica vera, perché la gente non capisce niente di raccolta differenziata, quindi a volte ci trovano vetro, carta, secco. Insomma, si riempiono lo stomaco dei sacchi e passano ore a togliere le etichette di carta dai vasetti, a buttare via il vetro e quello che non c’entra. Solo plastica. Ah sì, ovviamente alluminio e latte di metallo. Ma quelli sono meno, servono solo per cose specifiche. Adesso ti spiego bene.
Insomma, questi poveracci passano un sacco di tempo ad assicurarsi che sia plastica buona, devono pure stare lì a svuotare roba con dentro cibo marcio, pensa te. Perché serve la plastica pura, quella colorata, quella soffiata, quella cattiva, a loro.
Insomma, dopo tutte queste ore che passano a mangiare sacchi e a pulire la plastica, il rullo porta solo quella più prelibata (con un pizzico di metallo qui è là) nella Fossa della plastica. È una fossa gigantesca, dove altri Uomini della plastica passano con rastrelli enormi quella selezionata dai loro colleghi. La rompono in pezzi un po’ più piccoli, ne fanno una specie di porridge. Cos’è il porridge? Quella roba tutta tritata che mangia mamma la mattina, quella che quando ci mette il latte sembra vomito, tipo. Ecco, fanno la stessa cosa, ma con la plastica.
E sai perché?
No, non la mangiano loro, loro mangiano i sacchetti, te l’ho detto. E poi si arrangiano con quello che trovano al supermercato, sai. Sì, alla fine sono uomini, solo che al posto di aprire le confezioni della carne, se la mangiano con la vaschetta di polistirolo e il cellophane sopra. Per loro è ghiottisimo. Insomma, ti dicevo, loro preparano questo porridge di plastica. Lo preparano per Lei. Eh eh, qui ti aspettavo.
Chi è Lei?
Lei è la Madre della plastica. È una creatura nata negli anni ’80. Quando non sapevano bene cosa farsene della plastica e della spazzatura in generale, la prendevano e la seppellivano sotto terra. Lì, la plastica aveva tutto il tempo di sudare, di diventare appiccicosa, di attaccarsi. E all’epoca non stavano a pulirla o a dividerla dal resto della spazzatura quando la buttavano, figurati. Quindi c’era sempre lì in mezzo qualcosa di organico. Immaginati questa specie di enorme uovo pieno di plastica e schifezze, schiacciato sotto la terra. Lo sai no che se comprimi in modo allucinante il carbone diventa diamante? Eh, stessa cosa. Lì, in questa specie di fossa o… placenta! Bravo, inizi a capire! Esatto, dentro questa placenta si forma in molti anni una Madre della plastica. È una specie di sirena, ma gigantesca. È una donna la cui pelle e gli organi sono fatti di materiali vari, cioè sia microplastiche che la roba organica che restava in mezzo ai rifiuti. Fino al bacino è simile ad una donna, ma devi davvero immaginarla gigantesca. Dalla vita in giù è, come ti dicevo, come una sirena. Ma non ha una coda di pesce, ma una lunghissima coda di oggetti di plastica fusi assieme.
La Madre della plastica, essendo metà organica e metà di plastica, attraverso questa coda e nutrendosi di quello che aveva attorno nella fossa, col tempo ha dato alla luce gli Uomini della plastica. All’inizio, i primi nati erano poco più che mostri. Poi sono diventati molto simili a noi. Mica li riconosci, sai.
Ma è qui che arriva il bello. Sai come ha fatto la Madre della plastica a sopravvivere tutto questo tempo? Certo, nutrendosi di plastica sempre più pura. E per farlo, essendo lei un mostro, mica può andare in giro a prendersela da sola, non trovi?
Oh, vedi che se vuoi ci arrivi? Esatto! Gli Uomini della plastica vanno di casa in casa a raccoglierne i sacchi, la puliscono, la tritano e gliela servono come un piatto prelibato! Lei ormai da trent’anni non partorisce più uomini organici, perché di organico non mangia quasi più nulla. Ma ovviamente ha bisogno di nuovi Uomini della plastica, mi sembra ovvio.
Per questo ti dicevo che è la sua stagione, ora. È la Pasqua la sua festa.
Dagli anni ’90 è evoluta così tanto che ha iniziato a deporre le uova. Oh, yes! Uova! È con quelle che si assicura nuovi Uomini della plastica. Non li produce più Lei, ma li fa diventare Uomini della plastica. Come?
Tu le hai viste, quelle uova.
Oh, sì, sì che le hai viste.
Sì, credimi. Anzi, sai cos’hai fatto? Ne hai chiesta una. Certo che lo hai fatto! L’ho fatto anch’io un paio di anni fa. Non frignare, è inutile piangere. Ascoltami.
Sai cosa c’è stata negli anni ’90? Un’esplosione di bambini. Tantissimi. Perché una volta c’erano i soldi per farne quanti si voleva. E c’erano i soldi per comprare quello che si voleva. La Madre della plastica ci ha visto un’opportunità enorme. Ha iniziato a deporre uova, piene di cose. Ti ho detto, no?, che un po’ di metallo dalle latte e dai coperchi lei se lo mangia? Certo, le serve proprio, assieme alla plastica, per il contenuto di quelle uova.
Sì. Esatto.
La Madre della plastica depone i Super Pasqualoni.
Oh, sì. Uova di plastica piene di giocattoli di plastica. Il metallo serve per alcune rifiniture dei giochi. I bambini erano così avidi di oggetti a quei tempi che anziché godersi del buon cioccolato e un gioco, preferivano un ovulo di plastica con altrettanta plastica dentro. E tu, come me, sei un bambino che vuole essere come i bambini di tanti anni fa. Perché i nostri genitori vengono da quei tempi e credono che la situazione sia la stessa. Pensano di fare figli e comprare loro cose come se il mondo non stesse implodendo. Smettila di piangere, sii felice! Domani mattina avrai il tuo Super Pasqualone. Dentro ci saranno i giochi che volevi, proprio come li ho avuti io due anni fa. E sai come funziona? Di notte, quei giochi hanno dei frammenti che si sganciano. Un braccio, una giuntura. Gli adulti credono che i bambini ingoino per sbaglio quei pezzetti, per quello mettono dappertutto quei foglietti con il bambino triste e il pericolo di ingoio. Ma non sanno che quei pezzi sono pezzi di Lei. Si sganciano e si infilano nei bambini per conto loro. Una volta lo facevano in gola, ma ne sono morti troppi, così. Ora aspettano la notte e si infilano nelle orecchie e nel naso. Ti raggiungono il cervello. E lì iniziano a disseminare la microplastica.
Smetti di piangere.
Smettila!
Te lo sto dicendo perché siamo fortunati! Diventeremo Uomini della plastica. Io lo sto già diventando da un paio di anni. Ma non capisci il vantaggio? Lo capirai. Nell’acqua che beviamo c’è la plastica, nell’aria che respiriamo c’è la plastica, nel terreno, nel mare… io e te vivremo nel mondo perfetto per noi. I nostri nonni l’hanno contaminato e noi potremo invece esserne felici! La plastica non smetterà mai di esistere, credimi.
Smetti di piangere.
Giù in salotto ho visto il tuo Super Pasqualone. Non piangere. È inutile piangere. Ormai te l’hanno comprato e non puoi farci niente. Diventerai come me. Saremo fratelli al cento per cento, non sei felice? E assieme andremo la notte, con il nostro furgoncino, a prendere la plastica. E ci divideremo i sacchi. E saremo felici, nel mondo che ci spetta.
È mezzanotte passata: buona Pasqua, fratellino mio!

Opera di Eric Lacombe

Psicosi

Puglisi non fece in tempo a trattenere il respiro. Il miasma feroce di un cocktail di decomposizione, merda, piscio, umori rancidi lo violentò. Con un gesto secco si fece passare una mascherina da un appuntato solerte.
Si guardò intorno. Il corridoio era asettico, neanche un mobile, una sedia, niente appeso alle pareti. Pavimento pervinca a macchie bianche, luce bianca fredda da una plafoniera. A sinistra la piccola cucina: piano cottura e lavandino immacolati, nessun utensile a vista, nessun oggetto. Una mensola vuota unico complemento d’arredo.
– Il casino è di là signor maresciallo- Proseguì. Di fronte all’entrata del soggiorno un foro di proiettile sulla parete sporcava il corridoio. Entrò senza badargli. L’aria si fece sensibilmente più densa, palpabile. Un mobile sfondato riverso al suolo, forse una credenza arte povera, sedie rovesciate, il tavolo ribaltato davanti al divano di fronte alla porta. Piatti incrostati, fazzoletti ovunque, merda di parecchi giorni in un angolo coperta male da un cartone. Bottiglie piene di piscio, una delle quali probabilmente rovesciata da un piede che sbucava da dietro il tavolo.
– Gino Rizzi, 44 anni, incensurato, residente a Lago di Cela, celibe – intervenne l’appuntato Marte – La morte risale più o meno a tre giorni fa. La vicina ha chiamato il pronto intervento per l’odore.
– … –
– Affittuario da un mese – continuò con aria solerte – Abbiamo sentito i vicini: uomo tranquillo, mai un rumore, sempre in casa, forse uno studioso –
Il maresciallo rise osservando la completa assenza di libri, o di materiale di alcun tipo, esclusa l’immondizia.
– Uno studioso. Di cosa, appuntato, per esempio? Sia esauriente. – L’appuntato arrossì, perse il filo dei suoi pensieri.
– Co-comunque solo un inquilino ha… ha… scambiato ecco due parole con il Rizzi, ci parlava ogni tanto, ecco, signore- continuò l’appuntato guardando il pavimento –cioè, non un inquilino, il… il portiere, ecco, comunque sempre e solo del tempo, dice che prevedeva perfettamente la pioggia… Per il resto, ecco, un tipo come dire… silenzioso, riservato. –
Il solito cliché dell’uomo qualsiasi che manda avanti il baraccone della cronaca nera.
Aggirò il tavolo: il suicida era un piccoletto in mutande, grigio e villoso, sdraiato sul fianco destro, completamente sudicio dove non coperto di sangue. Barba lunga, capelli sbiaditi e arruffati. Il volto irriconoscibile: si era dovuto sparare due volte, un colpo gli aveva sfondato la mandibola, cancellato lo zigomo ed era uscito con l’occhio destro; l’altro era entrato dalla bocca e uscito dal centro del cranio. L’unico occhio rimasto, terrorizzato e grigio, aveva drenato un torrente di sangue.
– Solo uno squilibrato può fare una fine così…- mormorò l’appuntato, un’occhiata del maresciallo lo eclissò dalla stanza.
Arrivarono gli uomini per i rilievi e il maresciallo Puglisi si dileguò veloce dall’atmosfera fetida di quella stanza. La noia di un lavoro inutile, l’irritazione per il tempo sprecato, lo abbandonarono durante un brivido. Con lo sguardo fisso sul foro di proiettile sulla parete del corridoio, provò un’improvvisa simpatia per il povero Rizzi. Non è poi tanto improbabile che un uomo possa ridursi in quel modo, molteplici sono le vie che conducono alla follia, spesso sarebbe più strano rimanere normali, imperturbabili. Niente di strano sotto il cielo, un trauma, magari, impazzire e non interessarsi più di nulla, vivere solo di rimuginazioni, di fantasie e solipsismo. Forse Rizzi era stato una persona normale, un lavoro normale, un posto nella realtà, un uomo come tanti, come lui. Impazzito per una donna, perché no, certo in un modo diverso dal suo, fatto di rimpianti, di tristezze, di autocommiserazione, bensì orrorifico, allucinato, crudele. Infinite sono le vie. Quell’uomo evidentemente non era stato una facile preda della depressione come il maresciallo, ma scardinato dal suo modo di essere dal panico, dal terrore. Lo diceva quel tavolino rovesciato per costruire un baluardo verso l’ingresso, quel colpo esploso contro nessuno, la mano che gli aveva disubbidito quando aveva provato per la prima volta a togliersi di mezzo. I disturbi, tutti, sono facce della stessa medaglia, un tiro di dado con ciò che ti è toccato in sorte. Chissà cosa l’aveva reso così. No, qui probabilmente la storia non era riconducibile a una donna, nessuna causa così banale, prevedibile. Sicuramente c’era da riempire il vuoto di quell’appartamento con qualcosa di allucinato, contorto. C’era forte il puzzo della persecuzione, c’era un nemico. Il povero Rizzi aveva fatto fuoco verso l’ingresso, voleva uccidere, prima di tutto.
Il maresciallo proseguì il suo giro per l’appartamentino. Ringhiò quando vide vomitare uno dei suoi. Sulla sinistra, poco più avanti della sala, si trovava la camera da letto. Infilò lentamente i guanti. Stava pensando a quando Anna l’aveva lasciato: quelle settimane deserte in cui non gli riusciva neanche di accendere la tv, leggere qualcosa, rispondere al telefono; sgranò gli occhi quando ripensò a quei secondi con la canna della pistola in bocca, a quanto gli sembrava giusto e inevitabile il sapore del metallo. La follia può essere molto più lucida e consapevole della ragione.
Notò senza stupore che la camera da letto aveva lo stesso aspetto delle altre stanze: completamente vuota, non un dipinto o un quadro, neanche le lenzuola. L’armadio era deserto, un velo di polvere uniforme come il comodino, mai utilizzati. Quell’uomo non possedeva nulla, era come se in quel mese avesse vissuto solo tre o quattro giorni in sala: non c’erano telefoni, computer, tv, radio, giornali di nessun tipo. Niente, nessuna traccia, nessuna proiezione della propria identità, Rizzi era interamente ripiegato su se stesso.
Entrò nel bagno. Lo stupirono delle lievi tracce di calcare nel lavandino, doccia e bidet immacolati. Il water rivelava qualche pelo, nulla di più. Nessun asciugamano, neanche carta igienica o sapone. Si sentì chiamare dall’appuntato: – Maresciallo abbiamo trovato questo. –
Un’agendina nera con una penna infilata. Puglisi sorrise rigirandola tra le mani: voleva sapere, possedere la storia. Voleva circoscrivere quella follia, impadronirsene, detestarla, piangere, vomitare.
Il maresciallo sfogliò le pagine con delicatezza. La prima cosa che notò era la calligrafia microscopica e poco leggibile, una faticata, ma non vedeva l’ora. Mancavano molte pagine, almeno i tre quarti: si vedeva chiaramente che erano state strappate. Metodicamente, una alla volta.

01/03/07
Ora è sicuro, devo fuggire, mi hanno scoperto. Non so cosa mi faranno, ma sono terrorizzato, questa non è gente con cui discutere. So anche che non dovrei continuare a scrivere di loro. Questo diario ha visto troppe cose. E il Tecnico ora sa.
Stamattina lo stavo spiando mentre faceva finta di lavorare rivolto alla farmacia. Ero seduto con il giornale in mano mentre cercavo di capire chi stesse osservando dall’alto del suo palo della luce. Mi sono distratto pochi istanti per accarezzare un cane che si era avvicinato per annusare qualcosa tra le mie gambe e da quel momento ho sentito i suoi occhi su di me. Sentivo che mi fissava, cercai di impormi di far finta di niente mentre il mio sangue stava congelando. Non sono stato bravo a dissimulare le mie emozioni, e il Tecnico se n’è accorto subito. Ho fatto un goffo tentativo di stiracchiarmi per fingere nonchalance, mi sono alzato troppo alla svelta e mi sono incamminato troppo lentamente. I suoi occhi erano coltelli appuntati alla mia schiena. E’ quasi notte ora, aspetto il momento buono per tornare a casa, prendere tutti i soldi e fuggire lontano. E quando arriverò, sono sicuro che mi staranno aspettando. Mi dispiace molto per M., non potrò più mandargli le mie relazioni sulla loro attività. Sono spacciato.

02/03/07
Non posso fare a meno di scrivere di questa storia. Ho dovuto rinunciare a tutte le forme di soggettività e socialità, alle abitudini. Sono scomparso dal mondo per risultare invisibile a chiunque, tutto inutile… Il diario è l’unica cosa che mi trattiene in contatto con me stesso, che media tra la paura che mi paralizza il corpo e quel residuo di razionalità rimasta. Scrivere mi mantiene lucido, dà una parvenza di realtà a questa vita di lugubri consapevolezze che giorno dopo giorno somigliano sempre più alla follia. Comunque il mondo non è messo meglio di me, ho pietà dei suoi abitanti sciatti e inconsapevoli.
Ora sono in treno, voglio provare a sfuggire loro in città, non ho abbastanza energie per andare all’estero evitando aerei, navi e polizia. Ma non so se basterà, ma è pur sempre qualcosa.

03/03/07
Tutto inutile, a freddo non ne sono affatto stupito. Mi hanno seguito, nell’ansia della fuga non sono stato attento. Ho passato la notte in una via solitaria a venti minuti dalla stazione, mi sono sentito al sicuro. Stamattina mi sono attivato presto e sono partito alla ricerca di un affitto in nero; ho scelto una zona precisa, in una periferia a caso, un’area circoscritta in modo da non dover stare troppo in strada. Ero ansioso di chiudermi in una stanza, ripulirla immediatamente di tutti i loro strumenti di controllo e sigillarmi finché non si fossero dimenticati di me.
La leggerezza del mio umore è durata poco. All’entrata delle scale che portano alla metropolitana c’era lei, incubo vivente, la Vecchia, con il suo fazzolettone viola sbiadito sul capo, le buste della spesa poggiate a terra. Panico. Mi sono voltato e ho cominciato a camminare nella direzione opposta con il cuore che provava ad uscire dalla bocca, le gambe che non andavano. Sentivo nitidamente quella maledetta sghignazzare in mezzo al brusio della folla che si accalcava, era forse un’allucinazione causata dal terrore. Perduto nel delirio della paura, mi sono nascosto per ore nel primo luogo al chiuso: quando sono tornato lucido, ho realizzato che mi trovavo in un nauseabondo bagno pubblico di un parchetto pieno di tossici.
Fortunatamente ho riacquistato in tempo un po’ di lucidità. Alcuni ragazzi mi ridevano dietro, credo mi abbiano scambiato per un pazzo a causa dei miei vestiti sudici e del mio aspetto delirante. Pensavo disperato alla Vecchia, figurandomi senza tregua la sua immagine terrificante, non avevo più chance di mettermi quei bastardi alle spalle… Mi sono ritrovato in lacrime, singhiozzavo in quel bivacco di gioventù consumata. Sono riuscito a placarmi a stento; poi il terrore mi ha spinto da un africano, probabilmente lo spacciatore del parco. In altre situazioni non credo avrei trovato il coraggio di fare una cosa del genere, ma la disperazione ha vinto ogni timore: ho comprato una bustina di eroina con la convinzione di porre fine alle mie angosce, l’ho tenuta un attimo in mano, poi l’ho buttata davanti ai suoi occhi, causando una lotta ai miei piedi tra tre fantasmi che si trovavano lì. Poi mi sono avvicinato e gli ho detto all’orecchio che mi serviva una casa e una pistola. Gli ho dato appuntamento a domani, stessa ora stesso posto, promettendogli molti soldi in cambio dei suoi servizi. Non mi faccio illusioni. So che verrà e mi ruberà tutto, anche perché tutto quel coraggio è sparito… o, magari, mi ucciderà… spero che qualsiasi cosa vorrà fare di me, la faccia alla svelta.

– Ragazzi, me ne vado. Continuate senza di me. – Puglisi si sentì schiacciato dalla paranoia che affogava quelle pagine, decise di mollare. Un suicidio come un altro, non valeva la pena di sprofondare in quel malessere, per cosa poi? Pietà, empatia? Verso chi? Infilò l’agendina in una busta e la gettò nella cassetta dei reperti. Imboccò le scale velocemente, rendendosi conto che il lezzo che trasudava da quell’appartamento cominciava a colpirlo duro allo stomaco. Ma giunto all’atrio del palazzo si fermò. No, ormai non poteva. Si sentiva vinto, trasportato. Si immaginò quel povero cristo sperduto nella città, immobilizzato dal terrore, non poteva lasciarlo solo: non poteva più salvarlo, ma poteva accompagnarlo. E il maresciallo si ritrovò di nuovo in quella casa nauseante a fissare ebete la cassetta dei reperti, ignaro degli sguardi furtivi dei colleghi. Solo un leggero affanno lo riportò alla realtà, stupefatto si rese conto di avere corso per le scale. Arrossendo, afferrò in fretta l’agendina balbettando qualche parola per giustificarsi di fronte a nessuno, poi corse finalmente alla centrale.

04/03/07
L’africano è stato di parola. Ho vagato per tutta la notte in preda alla febbre, cercando vie deserte per non ritrovarmi a cercare i volti dei Tre sui passanti, aspettando la mattina con un’ansia simile alla sete. Alle 12 ero tremante sul posto, e il nero c’era, mi aspettava. Ha fatto cenno di seguirlo, siamo saliti in macchina e abbiamo girato per quasi un’ora nel traffico. Ero certo che mi avrebbe portato in un posto isolato per farmi fuori in sicurezza, così nel tragitto mi sono finalmente rilassato perso in una qualche nostalgia, in ricordi che non pensavo più di possedere. L’ansia della preda aveva ceduto il passo ad una piacevole tristezza, alla malinconia di un passato mai vissuto: finalmente la morte, la pace. Ci siamo fermati davanti a un vecchio palazzo. Entrati in un appartamento spoglio, il nero con fare frettoloso ha appoggiato la pistola sul tavolino del corridoio. Gli ho dato una busta con i 10000. Non li ha contati, mi guardava quasi con timore. Mi ha riferito in fretta che il padrone sarebbe passato ogni sedici del mese per l’affitto, poi è svanito. Ora sto assaporando la sensazione più simile alla felicità che possa provare. Mi sono subito liberato di tutti gli elettrodomestici, chiuso tutte le imposte; sono solo con il mio diario: forse ci sono riuscito, forse quei tre non mi avranno.

08/03/07
Sono affranto. Uscito la prima volta dopo quattro giorni, l’Uomo Qualunque mi ha trovato subito. Ho pianto per ore in un parcheggio sotterraneo. Com’è possibile? Come fanno? Non si tratta di esseri umani, ne sono quasi certo ormai. Chiuso per quattro giorni in casa, esco per rendermi conto del mondo, per respirare, e dopo neanche cinque minuti vado a sbattere addosso all’impermeabile di un uomo che si arresta improvvisamente, ed era lui! Nella folla non l’avevo riconosciuto, troppo facile per lui giocare con me. Comincio a sospettare che mi abbiano messo un rilevatore sottopelle, o qualcosa del genere. Prima di morire voglio scoprirlo per far arrivare a M. qualcosa di veramente utile, dopo anni di sterile osservazione. Ma non so se me ne concederanno il tempo.

12/03/07
Sto affogando nella paura. I propositi di un gesto di una qualsiasi utilità stanno sfumando, non saprei da dove cominciare. Per essere d’aiuto dovrei almeno vederli prima che vedano me, seguirli, farli diventare le mie prede, almeno per un po’. Ma come posso? Dovrei batterli sul loro campo, sono dei maestri in questo. Cadrei nelle loro grinfie al primo angolo della strada.
Sono chiuso in casa dall’incontro con l’Uomo Qualunque, guardo dalla finestra ogni cinque minuti per scoprire se sanno dove abito, cosa che comunque credo sia solo una questione di tempo. Ho scritto un rapporto per M. dicendogli che a breve sparirò nel nulla, che sono pronto a sacrificarmi pur di scoprire qualcosa di veramente utile. Dopo tre giorni in cui non sono stato capace di andare a spedirlo, l’ho strappato e ho pianto per ore. Sono sfinito, M. non deve aspettarsi niente da me.
Sparirò nell’oblio in cui mi hanno relegato quei mostri.

14/03/07
Sapevo che sarebbe andata così, ho avuto giorni per prepararmi all’idea. La Vecchia, che sia maledetta. La Vecchia ha seguito ogni minima traccia, ha annusato il tanfo della paura e poco fa era sotto la mia finestra, sul lato opposto della strada. Non so se sappiano di questo appartamento, ma sono arrivati qua sotto in così poco tempo! Anche se appena l’ho vista il cuore per poco non mi è andato in frantumi, ora sono stranamente tranquillo, pronto all’ineluttabile. E non temo più nemmeno di uscire allo scoperto. Spero che il mio umore rimanga così per qualche tempo, aspetto solo che la noia che mi devasta mi spinga all’azione, anche se ancora non mi immagino nella realtà, io di fronte a loro, la pistola. So solo che li odio.

18/03/07
Tappato in casa al buio li osservo dalla finestra da giorni, senza fare un movimento. Ora sono sicuro che sanno, ma non capisco cosa aspettino per colpire. Si danno il cambio e mi tengono d’occhio per la maggior parte della giornata.
La Vecchia è quella che appare più spesso, mi posso godere il suo ghigno tutte le mattine. Il Tecnico è comparso l’altro ieri per la prima volta da quando sono venuto in città. Era pomeriggio presto e, quando l’ho visto intervenire sul parchimetro all’angolo della strada sono scoppiato a ridere. Sono quasi affezionato a lui ormai. L’ho studiato per talmente tanto tempo che conosco la cadenza di ogni suo gesto, ogni espressione affettata di impegno nel lavoro, ogni sguardo.
L’Uomo Qualunque è il più inafferrabile. Sono riuscito ad intravedere il suo impermeabile un paio di volte senza la sicurezza che fosse lui, sempre mischiato tra la folla delle ore di punta. L’Uomo Qualunque mi incute più timore degli altri, è incontrollabile: è un nessuno che potrebbe essere ovunque, anzi, è ovunque. Ha un’aura sovrannaturale, malvagia una nemesi invisibile. Nei miei incubi vedo la Vecchia che sghignazza davanti a me, mentre l’Uomo Qualunque è sempre alle mie spalle, senza un volto, senza una caratteristica che lo renda umano, che faccia di lui un individuo.

21/03/07
L’insonnia mi sta giocando brutti scherzi. Stamattina nel dormiveglia sento suonare il campanello della porta: preso dal panico ho cominciato a correre per casa in cerca della pistola, che naturalmente ho addosso dal giorno in cui l’ho avuta. Acquistato un minimo di lucidità, mi sono diretto allo spioncino: quel fazzolettone viola, quel viso maschile, orribile. Quel ghigno. La Vecchia alla mia porta. Colto dal panico sono rimasto paralizzato, non so se quello che è successo dopo sia stato sogno o realtà. Ricordo di avere deciso che quella era un’occasione irripetibile. Le avrei sparato e poi sarei fuggito. E se non avessi conseguito il successo in una delle due cose, avrei posto subito fine alla mia ormai inutile esistenza. Ho sbirciato nuovamente e l’ho ammirata per la prima volta da così vicino, inebetito, fissando quella maledetta espressione crudele. Così, senza pensarci sopra ulteriormente, ho spalancato la porta e premuto il grilletto ad occhi quasi chiusi. Alla porta non c’era nessuno, solo sentivo un lieve eco di passi scendere le scale da basso. La pistola aveva la sicura. L’ultimo ricordo è che chiusi la porta con cachinno nella testa a coprire qualsiasi pensiero. Poi mi sono svegliato steso nel corridoio, con la pistola ancora ben salda nella mano destra. Alzai gli occhi al filo del campanello che passava da sopra la porta: era tranciato di netto, come avevo fatto appena messo piede in questa casa. Inizio a pensare che la psicosi sia una conseguenza inevitabile di quello che sto vivendo da anni, anche se ormai una vocina nella mente inizia a sussurrarmi che potrebbe esserne la causa. Solo M. lo sa.

Ora la calligrafia era diventata illeggibile. In mezza pagina solo poche parole potevano essere intuite. Puglisi si concentrò su ogni parola, ogni sillaba. Frustrante non potere giungere alla conclusione del travaglio di quell’uomo: voleva una conclusione in quel delirio, ne aveva un bisogno fisico. Prese una lente d’ingrandimento e con una buona dose d’interpretazione riuscì a comprendere chiaramente solo degli stralci a inizio pagina, come “diario pericoloso per tutti” o “sparire altrimenti”, “per me cominciò così”, “scrivo ancora condannerò altri”, ma da questo punto in poi desistette, neanche con la fantasia più sfrenata sarebbe potuto venirne a capo. Il maresciallo ora era stanco. Si rese conto che quel raccapricciante delirio mattutino lo aveva sfiancato, per giunta il suo turno era finito da almeno un’ora. Così, evitando il suo riflesso nel vetro della porta degli uffici, si diresse alla macchina. Svuotato, meccanico, dovette partecipare ad ogni movimento per non arrendersi all’inerzia di un pensiero confuso quanto tremendo che gli montava dentro.
Poi Puglisi corse. Pestava sull’acceleratore addirittura tentato di esporre la paletta per farsi largo, gli serviva un rifugio, subito. Non gli era mai successo. Di solito appena finiva il turno si godeva quel viaggio di mezzora circa, amava guidare, perdersi nel flusso dei pensieri. Inazione autorizzata, necessaria. Ma in quel momento un’inquietudine soverchiante non gli lasciava respiro. Quel fetore viscoso lo ossessionava, il povero Rizzi, il foro di proiettile che apriva un varco in quell’appartamento asettico, una finestra sulla psicosi, su quel diario diventato incomprensibile quando avrebbe dovuto spiegare, dare un senso, nettare.
Entrò in casa di slancio, si spogliò, rinunciò alla doccia, si vestì. Aprì il frigo, lo chiuse, lo riaprì e rimase impalato per cinque minuti catalogandone minuziosamente il contenuto, per concentrarsi poi sulle macchioline delle guarnizioni, lo richiuse. Si tuffò sul divano, accese la tv. Mise come d’abitudine sul canale delle notizie, poi cambiò canale un centinaio di volte senza riuscire a deviare il sinistro corso dei suoi pensieri. Pensava e ripensava alla scena, quel soggiorno, la sua memoria tentava di analizzare minuziosamente ogni aspetto, le bottiglie con il piscio dentro, la merda all’angolo, quello stramaledetto foro di proiettile, il diario; quelle poche parole finali che era riuscito a decifrare gli giravano nella testa “diario pericoloso per tutti” “per me cominciò così” “scrivo ancora condannerò altri”. Spense la tv e si alzò di scatto, ora malediceva Rizzi e la sua esistenza inutile, possibile che era bastato così poco per aprire una crepa? Ora era pentito di essere tornato a casa, ripartire per la centrale, rileggere, scavare tra le pieghe del non scritto. Quando infine si sentì patetico, quando riuscì a vergognarsi di sé stesso, del suo controllo così precario, riuscì a scuotersi: afferrò la cornetta del telefono e fece il numero di Luca. Luca non rispondeva. Mentre bestemmiava verso il suo amico, Puglisi andò alla finestra: lo sguardo del maresciallo ora era affamato della normalità delle vite dei suoi vicini. I due bambini dei Galli giocavano in giardino, una confusione come fossero in dieci, la splendida coupé nera dei Giannini occupava due parcheggi come al solito, la bella signora Giannini indaffarata con il cane, il signor Faraoni che come ogni giorno innaffiava il giardino con l’acqua del comune, una vecchia signora sul lato della strada con le buste della spesa che guardava l’orizzonte, forse aspettava qualcuno che la stesse venendo a prendere, il traffico pigro. Puglisi sorrise a questa visione di rinfrancante quotidianità, non ancora sazio della cura che gli somministrava. E spostò il suo sguardo un po’ oltre, la casa dei Poli, con dietro le finestre il movimento rassicurante di vite prive di interesse. Una scala poggiata sulla facciata laterale. Un tecnico seduto sul bordo del tetto accanto all’antenna parabolica, occhi immobili che lo inchiodavano da lontano. Il telefono scivolò dalle mani del maresciallo Puglisi.

Zombie Night – Ultima Parte

13.

La sera successiva rivedo il tizio, quello ricco e ciondolante, con la faccia da bamboccio e gli occhiali scuri. È accompagnato dal padre.
Il ragazzo ha una voce da castrato, sottile e piagnucolante, ostentante una vanità capricciosa, da coglione agiato qual è.
– Eccoci papà, è un regalo per il nostro giorno speciale – dice, appena entrato, sventagliando le mani davanti a sé, come un anfitrione che presenta la tavola imbandita al proprio ospite tanto atteso.
Di che tipo sia questo giorno speciale non lo so, ma me lo posso immaginare quando riconosco il padre.
È Otis Kardashian, il magnate della carne in scatola. Un ampolloso figlio di puttana dal corpo di balena rinchiuso in un doppiopetto bianco e pantaloni con la riga in mezzo, capelli bianchi come la neve tagliati a spazzola, un ovale lardoso e sudato come testa. Stringe tra i denti un sigaro e sulla camicia di seta è visibile una cravatta texana. Mocassini bianchi e anelli sulle dita. L’anello sull’anulare è un teschio che digrigna i denti di diamanti. Non replica al figlio, scorreggia un grugnito dalla bocca, come se al posto della bocca avesse un culo. Poi bofonchia un borborigmo di compiacimento e l’orifizio tra le labbra sottili si distende in una piaga di pelle traslucida.
Sicuramente padre e figlio, questi due tizzoni di un inferno produttivo di carne spolpata, lessata e immersa nella gelatina, sono qui a festeggiare un nuovo buon affare andato in porto.
– Ah ah ah, Paul! – sghignazza il grassone, con ilarità improvvisa, quando il figlio tira indietro una sedia imbottita tra i tavolini e la porge alle chiappone del padre.
– Due Wild Turkey – schiamazza con la sua voce da topo Paul, in direzione di Sara.
Si siedono.
La penombra e le luci rosse trasformano la faccia di Otis in gelatina. La sinuosità elegante e spocchiosa di Paul, invece, sembra calamitare un buio dorato, che gli attraversa le orbite e gli zigomi donandogli la plasticità fosca di un quadro di José de Ribera.
C’è un altro gruppo di avventori assiepato in fondo alla sala. Bevono in silenzio e aspettano il momento giusto per scendere nella Bolgia.
Rebecca barcolla con la sua andatura zoppa verso il tavolo e porge i bicchieri con le due dita di bourbon.
Bisogna raddrizzare quella camminata, gli ho detto a Paula. Mi ha risposto che ci penserà, ma è presa ancora dal condizionamento della nuova arrivata.
– È una correzione da eseguire con la massima cura. Non vorrai che succeda qualcos’altro di spregevole, vero? – mi ha detto.
Il suo tono era tranquillo, ma io ho percepito in quella domanda retorica un che di minaccioso. In fondo sono nelle sue mani. Se qui qualcosa va male, le conseguenze possono essere catastrofiche.
Mi faccio servire la solita vodka da Sara, e quando giro di nuovo lo sguardo ai tavoli nella penombra, Paul e suo padre non ci sono più.
Sono scesi nella Bolgia.
Non perdono tempo.

14.

Tutto avviene poi in maniera così repentina e frenetica che sembra un incubo. Uno di quegli incubi che quando ti svegli non ti ricordi pienamente, ma una nota di inquieto terrore ti si attorciglia in pancia. E fa male.
Non sono passati che venti minuti da quando ho visto sparire la coppia nel piano sotterraneo che un fracasso condito da un grido straziante interrompe la mia meditazione verso il bicchiere vuoto che stringo nel pugno.
Armande scaturisce dalle scale con l’espressione tramortita e greve di chi ha visto un fantasma.
– Merda! – farfuglia con un tono spaventato, poi si addossa al muro, il volto cinereo e sfuocato, come se cercasse dentro di sé la forza di articolare un pensiero.
Dalla Bolgia, un grido: – Quella gran troia!
Poi un’altra voce, quella stridula e metallica di Paul, trapassata da una nota di panico: – Cosa è successo, papà!
Guardo dritto negli occhi di Armande, ma questi rimane immobile, terrorizzato. È grottesco come un bestione come lui sia ora annientato dalla situazione, strizzato contro la parete, inerme. Meno male che lo pago per assicurare l’incolumità di tutti.
Io già mi immagino un’altra défaillance organica di una non-morta. Mi vedo la testa di una di quelle troie che è cascata in terra mentre il ricco grassone la stringeva in vita cercando di leccarla sul collo azzurrato.
Attirato dalle urla e dal casino giunge anche Lucius; questa volta ha già in mano il suo fucile e lo sguardo freddo e audace in parte mi rassicura quando corriamo insieme giù per le scale.
Dalla sala rotonda Berenice mi viene incontro con gli occhi lucidi e stupiti, le ciglia azzerate dalle luminescenze verdi del lampadario. Si attorciglia le dita ossute delle mani.
– Non so cosa…
Da un corridoio bombardato dai neon rossi spunta Otis. Il ciccione ha le braghe calate sui polpacci e sullo stomaco abnorme veste solo una canottiera. Stringe a coppa le mani in mezzo alle gambe. Una salsa rossa gli spurga tra le dita, il sangue cola sulle cosce corpulente e glabre, puntinando il parquet di goccioloni; il volto grasso e opalescente, i capelli spettinati, untume di sudore che gli inonda la faccia configurata in una smorfia di dolore lancinante. Nella bocca allargata vedo la sua lingua che si muove, mollusco rapito dalla frenesia.
– Quella GRAN TRO-III-AAAA!
È stato morso. In mezzo alle gambe. Non so come sia potuto accadere.
Sembra impossibile.
Tutti hanno la propria croce, mi diceva mia madre.
Dalle spalle del vecchio che sbraita piomba barcollando il figlio. Veste la camicia completamente sbottonata, è a piedi nudi e si trattiene con una mano i pantaloni slacciati. Nell’altra mano impugna una pistola, e se la sventola davanti al naso, fuori di sé. Una fottuta Colt 45, un vecchio revolver. Ora che non indossa gli occhiali neri, posso vedere quei suoi occhi strizzati da crotalo, le occhiaie bluastre.
– Come cazzo è che ha una pistola quel frocio? – urlo, diretto non so esattamente a chi.
Lucius fa due passi, stringe con un ghigno il fucile, si appoggia il calcio nell’incavo della spalla e punta la canna in mezzo alla sala.
Qui sono cazzi.
Berenice si è riparata dietro la mia schiena, sento il suo respiro sibilante sul collo.
E io che neanche ho afferrato la Browning da dietro il bancone, come al solito.
– Con chi erano? – chiedo a Berenice senza staccare lo sguardo dai due cazzoni svestiti e stravolti che mi trovo davanti.
– Con Lucy e… con Cassandra.
Mi volto di scatto verso Beatrice. Lei si tira indietro, intimorita.
– Chi stava con Cassandra?
– Il giovane – risponde con un filo di voce.
È una pugnalata al cuore.
– Porca puttana! – grido. – Lo sapevi, lo sapevi…
Mi viene quasi da piangere.
– Zelda è nella Vergine, cosa dovevo… – balbetta Beatrice.
Esplode un colpo di pistola.
Paul. Quel figlio di puttana.
Proprio lui, a scopare con la mia Cassandra.
Quello schifoso rampollo viziato.
Lo stronzo sventola la pistola in aria come fosse la bandierina del traguardo di una gara di rally, dalla bocca della canna un filo di fumo argentato. Il grassone si è accasciato a terra, sulle ginocchia. Sbrodola sangue come se la vescica stesse pisciando ketchup.
Paul si abbottona i pantaloni, si accosta al padre, gli appoggia una mano sulla spalla, riflessi violacei si irradiano dai capelli neri.
Il vecchio digrigna i denti, con una mano incollata dal sangue gesticola indicando dietro di sé, verso il corridoio. Il suo anello a forma di teschio sembra ghignare furente con i denti smaltati di rosso.
– Ammazza quella troia, figlio… Mi ha staccato… mi ha staccato il cazzo. CON UN MORSO! CON I SUOI DENTI DA TROIA MORTA DEL CAZZO!
La testa di Lucy, a metà corridoio, spunta dalla tenda della sua cabina.
Il baluginio del neon le trasmette sul volto un sinistro riflesso di fiamma. Dalla bocca rimasugli scarlatti le sbrodolano sul mento.
Ma la non-morta è calma e controllata.
Come è possibile che abbia morso il vecchio?
Non ha perso il controllo, la disciplina di condizionamento si rispecchia nel suo sguardo assopito e mansueto.
E anche il siero e le droghe ipnotiche stanno facendo il loro lavoro; se così non fosse in questo momento sbaverebbe ringhiante alla caccia di carne viva. E anche la fame non c’entra, non può essere. La carne viene somministrata quotidianamente.
Ma poi penso: Lucy. Quella della lacrima.
Paula mi aveva avvertito. C’era qualcosa di insolito, di troppo strano, di anormale.
Qualcosa di troppo umano.
Non ho voluto crederle. Non ho voluto approfondire.
I vivi devono rimanere vivi, i morti devono restare morti.
Vero?
Paul si avvita su se stesso, si volta.
Otis manda un urlo agghiacciante mentre si strizza quel che gli rimane tra le gambe e il sangue gli scatarra una ragnatela rossa tra i polsi.
Lucius fa un passo in avanti. La canna dell’M40 dritto come una meridiana di ferro che punta sulla testa di Paul.
Dal corridoio, lo stesso dove è appostata Lucy, fa capolino anche la testa di Cassandra, dall’ultima cabina, la tenda nera che le accarezza le spalle nude.
Paul spara. Il colpo diretto alla testa di Lucy.
La non-morta non batte ciglio. Resta immobile. Il tronco del collo bagnato di luce vermiglia, le ciglia finte turgide come i denti di un pettine, il fard purpureo sulle guance che sembra combinarsi coi rimasugli di carne evirata in un’unica maschera di trucco. La sua lingua, lentamente, scorre sulle labbra, in un ralenti di sensualità cannibale, a recuperare i resti biancastri delle palle di Otis; poi ingoia, la gola che si muove come un cavatappi di pelle al neon.
La testa che esplode in un fiore di ventrigli cerebrali non è la sua.
Ma è quella di Cassandra, in fondo al corridoio. Paul ha sbagliato bersaglio.
Io urlo.
Paul ricarica la Colt, il tamburo ruota nella camera di scoppio. Il vecchio si è accasciato completamente nella palude della sua sbobba rossa.
La testa di Lucy scompare nella cabina, quella di Cassandra si spiaccica sulla parete, come una dalia di merda e cervella.
– Spara! – grido. Ho gli occhi umidi di lacrime e stringo insensatamente i denti.
Lucius non si fa attendere. Lo vedo che prende la mira, gli occhi azzurri che si strizzano, il dente d’oro che brilla di un’energia funesta.
Paul si accorge dell’obiettivo mancato, vede la propria preda che scompare oltre il tendaggio nero della sua cabina, si volta, inorridito cerca di capire se il padre sia ancora vivo. Il vecchio brontola consonanti senza più senso e sbava sul pavimento, ripiegato in una fisarmonica di grasso.
Paul ora volta lo sguardo su Lucius. Lo guarda con quell’espressione di torbida idiozia condita dallo spavento, dalla rabbia, dal tormento. Alza il revolver di pochi centimetri, all’altezza dell’ombelico, come indeciso su dove rivolgerla. Le sue dita bianche sembrano nebulizzarsi nella luce verde del lampadario d’osso, e poi paiono ancora e di nuovo materializzarsi, più nitide, facendosi ancora più bianche, il sangue che refluisce in alto, chissà dove, mentre stringono il calcio della pistola, mentre l’indice trema sul grilletto.
Lo sparo del fucile di Lucius rimbomba nell’antro circolare della Bolgia come la losanga di una tolda che viene cannonata.
I capelli neri di Paul si incendiano della poltiglia rosa del suo cervello, gli occhi spalancati in una terrificante espressione di sorpresa. Il rumore sordo del corpo che collide col parquet d’acacia crea un’eco metallica e appiccicosa.
– Vaffanculo! – urlo, e corro verso il corridoio, nel budello, all’ultima cabina.
Voglio piangere. Voglio sputare il fiume di lacrime che ho custodito nel petto per troppo tempo, questi pianti tumulati in gola, annodati nella pancia da questi tempi bui e solenni, da questi tempi bizzarri e macabri, senza amore, con nessuna speranza.
Voglio deliberatamene cibarmi di questo nuovo dolore. Voglio vedere Cassandra. La sfinge esplosa del suo volto, l’espressione riconfigurata nella seconda morte, quella definitiva.

15.

La morte.
Quella definitiva.
Certo.
Otis Kardashian: finché io sarò in vita, a sorvegliare il tuo corpo appeso, non conoscerai il significato della parola definitivo.
Per quel che puoi capire, ora.
Ma c’è un linguaggio conosciuto a tutti. Per tutti comprensibile. Ai vivi, come ai non-morti.
Limpido come il sole d’estate.
Questo linguaggio si chiama dolore.
Le urla.
Quelle, sono le solite. Quando ti abitui sembrano tutte uguali.
In questo caso, invece, queste grida di strazio, che erompono dalla bocca scucita di quest’ammasso di lardo sanguinolento appeso per le caviglie nei ganci del capanno, questo mucchio di carne straripante e membra frementi che una volta erano Otis Kardashian, magnate della carne in scatola, queste grida assumono alle mie orecchie un nuovo suono di delizia, una musica di godimento, puro e inebriante jazz senza malinconia.
Quel porco morto dovrà urlare per sempre, finché la sua carne non si staccherà, pezzo dopo pezzo. Finché il suo sangue non concimerà questa terra di papaveri e pietrisco ferroviario, risucchiato fuori dalla sua carogna fino all’ultima goccia, e poi ancora, il corpo mummificato come in un cristallo a forma di stella con gli occhi di insetto e le mani di un faraone. Dovrà urlare ancora, ancora e ancora. Fino alla dissoluzione, alla polverizzazione.
Cenere alla cenere, quella roba lì.
Lo faccio per Cassandra, mi dico.
No. Non è vero. Sono cazzate.
Lo faccio per esorcizzare la mia astrusa attrazione alla fiducia.
Lo faccio per consolidare questo mio forte senso di nausea, per alimentare fino alla pazzia il mio disgusto.

16.

Lucy è stata trasferita nell’edificio sul retro.
Per precauzione Lucius gli ha somministrato un’ulteriore dose di telepatina, mi ha detto Paula di sfuggita, passando dal bar, mentre mi scolavo l’ennesima vodka senza acqua.
Eppure sembra che non ne abbia bisogno, ha continuato, con quel suo volto corrucciato, portandosi una mano dalle unghie rovinate al petto, come per accarezzarsi, per farsi coraggio.
Mi ha detto che poi mi farà sapere, che Lucy è sotto stretta osservanza medica. Mi ha parlato con un tono di sfida. È furente, lo so. E amareggiata. Sa che aveva ragione. Che le prudenze non devono essere mai troppe, ma io ho lasciato fare.
Dopo l’accaduto Melania non ha più voluto avere niente a che fare con il night. Se n’è andata, presumibilmente nel suo paese d’origine, nelle campagne brulle ai confini del paese, forse a coltivare arance, a dirigere gli zombie contadini alle dipendenze della Never Dead Fruit, fuori Neopolis.
Armande è irretito, sembra spaesato, quando non lavora si dondola sull’amaca del parcheggio, fissando le nuvole con la forma di formicai, come se fosse ormai anche lui un soggetto fuori posto, in una sceneggiatura che non è più la sua, il copione stravolto; come se questo luogo gli avesse cacciato in gola una nota di malessere più alta di quella che può sopportare. Può essere brutale quanto sensibile, quel gorilla. E qui non c’è tempo per le emozioni.
Lucius è sempre lo stesso. Si prodiga indefessamente nelle sue varie mansioni, traghettando i cadaveri viventi dal locale all’edificio sul catafalco della Vergine, come un provetto Caronte in un inusuale tragitto al contrario sull’Acheronte, controcorrente.
La morte, la vita. Non hanno più senso.
La seconda tromba di Allah ha suonato per riportare in vita l’esercito dei caduti, ma il dio arabo si è scordato del Giudizio, e ora morti e vivi e nuovi morti camminano insieme per il mondo e il Paradiso è solo la cloaca dove gettare gli avanzi del cibo, la buca dove sputarci i reflussi gastrici, il luogo fetido e immorale adibito al lavacro del sangue omicida.
Nessuna purificazione, nessuna estasi, nessuna salvezza.
Mi accendo una sigaretta. Il fumo mi vortica tra le dita come una spirale d’acciaio. Le unghie sono sporche del sangue di Otis, di quel che rimane del grasso porco, produttore di sbobba in gelatina.
Otis: lo zombie che vivrà per sempre, le sue urla come le trombe di corno d’ariete dei Sacerdoti di una Gerico emozionale. Nulla più mi costringerà a costruire le mura di una sorta di speranza nella mia coscienza, d’ora in poi.
È una strada senza via di ritorno.

17.

Lucy è rimasta nella cella dell’edificio per due giorni, non è più scesa nella Bolgia.
È solo al terzo giorno che ho il coraggio di interpellare Paula.
C’è ancora quel quesito irrisolto, da sbrogliare. L’oscuro motivo per cui Lucy abbia attaccato il vecchio, evirandogli le palle, divorandogliele.
Non è una cosa da poco. I precedenti possono assumere una rilevanza devastante. Non dovrà succedere mai più.
Ma perché è capitato?
Paula lo sa, ne sono certo. È a conoscenza del segreto.
Ma non vuole confidarsi, c’è qualcosa che le vieta di pensare lucidamente alle cose. C’è quel nodo che le si attorciglia nella pancia, ne sono sicuro, nutrito dalla stessa paura che anch’io provo, che noi tutti, qui a Neopolis, avvertiamo; un cordone ombelicale della stessa materia cellulare del dolore, custodito nella stessa identica sacca placentale composta di angoscia, di sgomento, di repulsione.
La trovo nel suo studio, intenta a ordinare gli attrezzi di lavoro, con la schiena ingobbita e i sudati capelli biondi sfilacciati sulle spalle.
Richiudo delicatamente la porta alle nostre spalle, ma mi accorgo da un appena accennato movimento del suo volto di lato, che si è accorta di me, della mia intrusione.
Lo sa perché sono qui.
Sa anche cosa sto combinando nel capanno. Sente l’odore del sangue, quello dolciastro e affumicato del ferro delle lame che le mie dita rilasciano, l’olezzo rancido delle mia pelle strizzata nello sforzo della tortura, il mio respiro cadenzato dall’oscura elasticità della violenza e del supplizio, la puzza di carne morta che non vuole e che non deve morire ancora, non ancora, non ancora.
Ci conosciamo troppo bene, io e Paula. Così diversi e così simili, in fondo. Così imprigionati nei nostri corpi, così vincolati da una logica mentale abitudinaria, in questa consuetudine amarognola alla sopravvivenza.
– Te lo avevo detto – esordisce, prima che io possa aprire bocca.
Non si volta, ma ora riesco a scorgergli gli occhi, arrossati, come se si fosse passata uno straccio imbevuto d’alcool sul viso, un distillato di lacrime aggrumate nell’angolo delle palpebre. La sua voce è rotta. Guardo la sua mano che afferra una fiala vuota e una venuzza blu le balla intermittente sul polso come la vescicola di una medusa.
Mi accosto a lei e le guardo perplesso le labbra sottili. Una patina di sudore le unge in maniera sensuale i lobi delle orecchie e gli zigomi appuntiti.
– Cosa… Cosa mi avevi detto?
Si scosta dal mio fianco con uno scatto esuberante del bacino e mi volta di nuovo la schiena. Da quella posizione, mentre sembra indecisa se spostare o meno uno stuolo di flaconi da una mensola a un’altra, mi dice, con voce rauca: – La lacrima. La lacrima di Lucy.
La pazienza non è tra le mie virtù, ma ingoio la saliva, un sapore acido mi invade il palato e mando un sospiro che spero sia il più silenzioso possibile.
– Lo sapevi. – Si è voltata e mi punta il suo sguardo infiammato dritto negli occhi.
Sta crollando, lo sento. Definitivamente. Ma forse è tutto il mondo che sta crollando. Noi ci siamo solo capitati in mezzo.
Mi punta un dito in faccia e la sua espressione si acciglia in una smorfia, gli occhi socchiusi, il labbro inferiore comincia a fremere, come se stesse contenendo un pianto dirompente, forse liberatorio.
– Lo sapevi, ma volevi crederci – mi accusa. – Sapevi che qualcosa di troppo umano stava invadendo la vita di questa… di questa morte che non è più morte. Sapevi ma non volevi crederci. Perché questo voleva dire che anche quello che provavi per Cassandra poteva essere più reale di quanto tu desideravi che fosse. E sai perché? – Paula si sposta di lato, allarga le braccia e mostrare l’armadio che contiene la fila di vibratori, quelli utilizzati per l’addestramento.
La sua voce si fa strozzata, un pallore umidiccio ora le invade la pelle, che si è fatta di cera.
– Per questo! Perché dovevano essere e rimanere solo troie! Perché dovevano restare distanti, vero? Come tutto, nella tua vita. Distante… tutto distante… Perché i morti devono rimanere solo… solo cosa? Solo morti, no?
– Dimmi cosa è successo a Lucy – le intimo, con voce salda, allargando le gambe e risucchiando le labbra sui denti. Le voglio far intendere fermamente che non uscirò da questo studio senza una risposta.
– Lucy è incinta.
Ho un sussulto. Per un attimo mi si annebbia la vista.
Mi avvinghio con le mani alle sue braccia.
Non può essere.
La tengo ferma, stretta nella morsa delle mie dita che puzzano di sangue e di dolore.
– Cosa cazzo vuoi dire?
Devo capire. Una volta per tutte.
– Ha sbranato il cazzo di quello stronzo perché aveva fame. Non le bastava più la dose giornaliera di carne.
Paula si dimena e con uno scatto feroce si libera dalla mia presa.
Una smorfia di disgusto le si disegna sul volto. Un’espressione che però non è solo di disgusto, ma anche di rivalsa, la manifestazione palese di un moto di sadica rivincita.
– Deve mangiare – ringhia, guardandomi in volto con i suoi occhi allucinati. – Deve saziare la creatura che ha nella pancia.

18.

Mentre scucio la coscia del grassone una poltiglia di sangue scuro spurga come un rivolo di catrame.
La bestia grida e si dimena, il paranco oscilla. Un pulviscolo di ruggine si spalanca dalla catena come un refolo di sabbia del deserto.
Dalla radio portatile appoggiata sullo scaffale di zinco la voce di Billie Holiday gorgheggia struggente, il canto dell’addio, della lontananza, del desiderio.

I don’t know why but I’m feeling so sad
I long to try something I never had
Never had no kissin’
Oh, what I’ve been missin’
Lover man, oh, where can you be?

Non so cosa potrà succedere, adesso.
Non posso immaginarmi una nuova prole che scaturirà dalla morte rinata, la stirpe generata dall’amplesso col decesso.
Non so neanche come possa essere rimasta ingravidata Lucy, se da un non-morto o da un vivo; magari da un cliente, uno stupido e arrogante ubriacone produttore di bourbon, o forse da un affettato e vanesio giovane alla ricerca di un piacere proibito, alla ricerca della mano di un Icaro personale, morto senza tomba, nella fanghiglia onirica fuori dai confini dell’Ade.
Un cucciolo di demone squarterà quella vagina morta e vedrà la luce di Neopolis. Lo accudiremo, forse.
Lo addestreremo e lo renderemo servile, pronto a esaudire ogni desiderio di questa società oscena e corrotta. Un ingranaggio di carne malata introdotto in questo meccanismo di sesso e cupidigia, di sbobba in gelatina e vecchi bavosi, di speranze guastate e baluginii al neon rossi e lampade verdi sulla strada del Regno della perdizione, nella Bolgia di questa catabasi dell’orrore.
Getto il mozzicone in terra. La brace manda un sibilo al contatto con la pozza rossa che invade il pavimento e che arriva a impiastricciarmi le suole delle scarpe.
Billy Holiday mi sussurra all’orecchio.

Un giorno ci incontreremo
E asciugherai tutte le mie lacrime

La testa capovolta e tumefatta di Otis si sposta con uno scatto furente. Grugnisce. Gli occhi si ammantano di una luce obliqua, nera come le feci di un lupo.

La notte è fredda e io sono tanto sola
Darei la mia anima per poterti dirti mio
C’è la luna sopra di me
Ma nessuno che mi ami

Stringo il pugnale, più forte che posso, le dita bianche.
Col prossimo taglio gli squadernerò il petto come un fiore azzurro a cui tocca sbocciare.

Zombie Night – Parte Seconda

La Prima Parte potete leggerla QUI

7.

La prima cosa che fa Lucius è ficcarla nella Vergine, quando la non-morta è tramortita. Lì, nel parcheggio.
Non gli riesce sempre così agevolmente. A volte deve sudare di più. A volte deve chiedere l’aiuto di Armande.
Ma solitamente un suo tipico colpo assestato nel punto giusto fa sì che la zombie cali l’attenzione per gli attimi necessari.
Le chiavi per collare e bracciali borchiati sono universali, sempre le stesse, per cui Lucius afferra le solite dal suo cinturone e slega quelle mani e svita l’affare sul collo. Deve essere rapido e compiere i gesti giusti. Ma Lucius è bravo. Preciso, metodico e celere. Calcia la necro-troia nella fodera della Vergine, ancora imbambolata dallo sganassone. Con un ringhio le posiziona le braccia negli scompartimenti appositi, assesta la sbarra all’altezza della nuca, sui fianchi, nelle cosce, lungo le ossa del bacino, strizzata come una sardina nel suo barattolo, costretta come metallo liquido nel proprio stampo da fusione. È un’operazione millimetrica. Lucius srotola le cinghie di cuoio dalle guaine laterali e serra ben benino il busto, le braccia, le gambe, tutto il ben di dio risorto e sbavante. Le cinghie sono attrezzate con dei pettini di ferro che si incastrano nella fodera. Se respirasse, la non-morta ora farebbe una fatica del diavolo.
Confezionata come una banana nel suo cellophane di cuoio, ferro e legno. Questo è fondamentale. Le siringhe, dagli ugelli entreranno nei fori del sarcofago e si innesteranno negli aghi interni infilzati nella carne, nel punto giusto. Non più di due centimetri sopra o sotto. Ma Lucius ha acquisito una dimestichezza formidabile per quest’attività e, inutile dirlo, se ne fa vanto appena può. “Sono il professore dell’inquartamento” e si mette i pugni sui fianchi, tracotante. “Sono lo Strizzamorti”, e ghigna, con il suo dente d’oro che brilla in quell’espressione che sembra sempre truce e feroce anche quando non vorrebbe esserla, immagino.
Poi controlla gli aghi del coperchio, nella parte interna, pungiglioni di otto centimetri già fissati con le ventose e bloccati nei punti esatti. È tutto a posto.
Afferra il coperchio della Vergine, scostandolo per chiuderlo con entrambe le mani, accarezzando i listelli di lamiera dei bordi, tastando delicato il legno consumato, osservando ironico quella croce rossa di vernice scrostata all’altezza della faccia. Si sente il rumore ovattato e scricchiolante degli aghi che penetrano nella carne, come uno zodiaco di stalattiti che pungono le meridiane perfette in un cielo di pelle necrotica.
La non-morta urla. Il solito urlo, terrificante; pompato da polmoni che paiono popolati da vermi o da conchiglie di un mare di petrolio.
Ora Lucius può trasportare il corpo nel laboratorio, al primo piano dell’edificio di mattoni rossi dietro allo Zombie Night, in quella depressione che s’allarga in un cortile di terra gialla, oltre i bidoni di immondizia e i vapori dei locali della lavanderia – vapori che formano una strana e grottesca bruma, la nebbia surreale di questo paese arido, l’unica che possiamo permetterci, quella del lavacro dal sangue, dallo sperma e dal piscio sulle lenzuola rosa della Bolgia.

8.

Rebecca afferra i bicchieri vuoti e li appoggia sul vassoio, tra le cuspidi delle bottiglie scolate, nella penombra della sala ormai vuota. I fianchi le ballano leggermente fuori sincrono sulle ginocchia, come se la spina dorsale fosse annodata in qualche modo strano sul bacino. Lucius e Paula tengono le relazioni mediche con i cicli di somministrazioni sempre aggiornate. In un librone dalla copertina rigida sopra lo schedario nell’edificio. Le somministrazioni periodiche trimestrali di Cobra e telepatina potenziata non possono essere posticipate, neppure di qualche ora. Ma non è per questo che Rebecca cammina così. Non mi si avvinghierà con le braccia al collo per assaggiare la mia gola a causa dell’effetto svanito del siero, no, credo che neanche oggi succederà. Non è mai successo niente del genere qui, fino ad ora. Non come al Cold Meat. Brutta faccenda quella. È solo una questione di reazioni dell’organismo al condizionamento, per le quali Rebecca, specificatamente nella sfera dell’apparato motorio, ha sempre avuto qualche problemino. Niente di estremante preoccupante: Paula dovrà darsi da fare con le sue ragazze per cercare di recuperare quell’handicap con sessioni di condizionamento più intensive.
Paula, eccola: seduta dietro al bancone, sta accarezzando con la punta dell’indice il bordo di un bicchiere ricolmo di un liquido ambrato. Ha il viso stanco, lo vedo. La pelle le sembra essersi rinsecchita attorno alle labbra sottili, e i capelli biondi sono scarmigliati sulla nuca e appiccicati di sudore sulla fronte. Gli occhi azzurri sono più annacquati del solito, rimandano un riflesso di spossatezza e sono strizzati ai lati in rughe d’apprensione. Dev’essere sopraffatta dal lavoro, ne sono certo. In queste ultime settimane due nuove non-morte non sono poche, senza contare le continue sequenze di riassestamento di condizionamento di tutte le altre. È un ciclo continuo, che non deve essere interrotto. Di fianco a lei, Melania le sta parlottando all’orecchio, quasi le sfiora la pelle con le labbra. Per quanto ne so potrebbero essere pure amanti. Melania è una delle giovani apprendiste che l’aiutano nei condizionamenti. I suoi capelli corvini si addolciscono di un riflesso ramato sotto le luci dorate. Inclina il viso di sbieco quando mi vede, infastidita. Gli occhi le si strizzano in un’espressione che mi sembra di avversione. Quando mi avvicino, Melania esce dal bancone e si avvia alla porta, un gesto secco del collo a scostarsi il ciuffo di capelli dagli occhi, il suo culo grasso che volteggia nella penombra della sala, come un pallone di gomma, racchiuso in quel suo vestito di cotone aderente.
– Qualcosa che non va? – esordisco. – Melania mi sembra agitata, e anche tu…
Mi siedo allo sgabello del banco e avvicino la faccia alla sua. La scruto, forse cerco un approccio che voglio che appaia come sentita preoccupazione. La verità è che voglio sbrogliarmi da questo dilemma, il più in fretta possibile.
– Siamo oberati dal lavoro, Frank. – Alza gli occhi dal bicchiere e mi guarda con i suoi tristi occhi umidi, azzurri come un quadro di Kandinskij. Solo adesso mi accorgo che quel bicchiere che ha in mano deve essere solo l’ultimo di una serie.
– Lo Zombie è chiuso, nessuno ci può disturbare, dimmi… – Mi blocco un attimo, dietro le spalle di Paula è comparso Gorkij, il suo solito passo felpato, la ghigna della mascella protesa come un osso di gorilla, le sopracciglia irsute e i gomiti arrossati. Le sue labbra, carnose e grigie, sembrano possedere il ghigno di una paresi, una tagliola con neri denti mozzati. Il non-morto afferra dalla lavastoviglie un carico enorme di piatti e stoviglie e se ne torna in cucina facendo sibilare le ante della porta a vento. L’unico maschio che abbiamo, politica aziendale.
Faccio il giro del banco e afferro una bottiglia di Jim Beam e me ne verso due dita in un bicchiere a bolla.
Non vorrei farlo, proprio per niente. Ma appoggio lo stesso una mano su quella di Paula. La devo rassicurare, no? Mando giù in un fiato il bourbon e le gengive sembrano esplodere.
Paula sottrae la mano dalla mia e alza lo sguardo, osservando un punto imprecisato sul fondo della sala, una fetta di buio che si amalgama con la luminescenza rossa di una lampada.
– Non è solo il lavoro, Frank. Non è solo quello – si confida, con un filo di voce. – Almeno, non la quantità…
Afferro di nuovo la bottiglia. Non spreco tempo a versarmi il bourbon nel bicchiere e mi attacco al collo. La lingua mi si anestetizza.
– E cosa? – cerco di biascicare.
– Sono i morti. I morti. Questa gente risorta. Frank! – Si alza dallo sgabello, la sua voce è rotta.
Sta per implodere, penso.
– Frank. Gente risorta. Lo capisci? Ma come fai, tu? Sono morti, lo capisci? Mor-ti! Ci sei abituato, ormai? Te le scoperesti anche tu, come tutti gli altri?
No, non me le scoperei, no.
Ma poi penso a Cassandra.
La rabbia mi sale alle tempie, sferro un pugno sul tavolo. Il bicchiere che Paula stringe sul bancone vibra di una sonorità cupa.
Mi porto di nuovo la bottiglia alla bocca.
– Ecco come faccio! – Un ghigno balordo deve essermi comparso sulla faccia.
Paula scrolla la testa. I suoi capelli biondi ondeggiano. Le sue tempie sudate sembrano di plastica e colla.
– Lo sai cosa è successo ieri? – La sua voce trema. Dev’essere l’alcol, penso.
– Cosa? – Strizzo i denti mentre rispondo con un’altra domanda.
– Lucy, l’ultima arrivata… – Si porta una di quelle sue dita tremolanti a pettinarsi i capelli ribelli sulla nuca, con l’altra mano si avvicina il bicchiere alle labbra. Beve un sorso avido. Vedo la sua gola che si riempie, gli occhi che si spremono, la laringe che con uno spasmo getta il fuoco liquido nella trachea. – È successo qualcosa di strano.
Sara, Paula, tutti, ma che cosa diavolo sta succedendo?
– Che cosa di strano, Paula. Cosa?
Mi sento vulnerabile, come non mai.
Non mi piace la reticenza, e neanche la lentezza delle cose.
Questo è un mondo di morti. Lo saremo anche noi, fra non molto.
– Durante il condizionamento, dopo la somministrazione dei farmaci eseguita da Lucius… Lucy, quella nuova… Ero con le ragazze a impartirgli le prime lezioni, lo sai, le solite cose… i movimenti delle mani, la reattività mascellare, i massaggi muscolari. – Paula si ferma, beve un altro sorso dal bicchiere. Delle gocce di luce color miele sembrano invadergli le palpebre mentre le socchiude.
– Sì, continua. – L’esortazione sono sicuro mi esce più come un ringhio, un comando.
Paula alza gli occhi su di me. È sfiancata, stordita. In qualche modo anche stupita dal mio tono. Forse si aspettava altro. Forse si aspettava comprensione.
– Durante l’esercitazione alla fellatio… Lucy, ecco, ne sono sicura… – Paula ancora si frena, sembra masticare le parole dentro di sé. È incomprensibile. È snervante.
– Cosa? Cosa cazzo è successo, perdio! – sbotto.
Paula alza gli occhi ai miei. Il labbro inferiore gli scivola in basso. Sembra aver assunto il broncio di una bambina.
In quel momento una delle lampade ambrate sopra le nostre teste salta. Si brucia con il tipico rumore zigrinante da cortocircuito.
– Ha pianto. – Paula alita le parole in un tono soporifero, freddo. – Lucy ha perso delle lacrime dagli occhi. Piangeva. Te lo giuro.

9.

Il locale ha aperto per la serata.
Sara è al bancone, come al solito.
Le troie non-morte sono nella Bolgia, con Berenice ad accudire i clienti e Armande a controllarli, come sempre.
Sono nel cortile, accostato alla porta di servizio. Ho acceso la mia Benson e cerco la luna nel cielo. Ma il cielo ha il colore del fegato e le stelle sono state forse ingoiate dal dio pazzo che c’è lassù, come Saturno ha divorato i propri figli.
La caligine dei vapori della lavanderia crea fette di bianco che balenano a mezz’aria.
L’edificio di mattoni rossi è davanti a me. Al primo piano Lucius sta imbottendo di Cobra una non-morta. Sta infilando le fiale di siero e droga nei beccucci delle siringhe, e i cannelli a incastrarsi negli aghi a farfalla che combaciano con i fori. È il ciclo di mantenimento mensile del virus. A cadenza regolare, tutti i non-morti vengono sottoposti, secondo il calendario.
Al secondo piano le finestre sono serrate da solide barriere di plexiglass scuro. Nell’ultima parte del corridoio che sfila lungo tutto il piano ci sono le gabbie delle non-morte vergini. Quelle appena arrivate. Quelle da ammaestrare. Appena giunte dagli allevamenti governativi.
Gli allevamenti.
Dopo i primi mesi di caos e morte e dopo la rivelazione che gli zombie potevano essere stabilizzati, dopo che si erano trovate le mansioni adatte per ognuno secondo sesso e corporatura, un semplice quesito si era insinuato nella cinica mente burocratica del Potere: una volta che questi zombie, per uccisione, incidente e logoramento fossero morti, e questa volta morti veramente, strozzati, spappolati, con la testa rotta o bucata, con chi li si sarebbe sostituiti? La risposta fa parte della logica astuta, impersonale e imperturbabile che ogni organizzazione di potere avrebbe pensato. Mantenimento di forza lavoro volontaria e abbattimento a costo zero dei crimini capitali.
Più nessuna pena di morte, ma al contrario: la pena alla non-morte.
La zombificazione.
Un’iniezione e via.
Che strano, anni a combattere una pandemia che non si riusciva a capire e poi, una volta compresa, la deliberata volontà di amplificarla. Sostituire i vivi con i morti, definitivamente.
Sputo in terra e fisso il cielo di fegato che ho sopra la testa. Potrei tagliarlo col coltello, questo cielo, uno di questi giorni, allungandomi sopra una scala di sogno, infinita e lunghissima, come un Pierrot alla ricerca del suo sedile, e magari, affettandolo, scoprirci dietro solo altro grasso, di sotto altra carne, altra polpa che sputa sangue, ma nessuna stella.
Sono stato all’edificio, da Paula. Al secondo piano, nelle camerate del condizionamento, tra l’attrezzatura di impulsi trans-cranici, gli oli e i forcipi, le fiale e tutto il resto. Non mi ha fatto più nessuna rimostranza, sembra aver dimenticato l’accaduto. O forse fa finta. È fredda, con me. Anche le ragazze, Melania e Clara, sono scostanti. Ho l’impressione che continuino l’attività con freddo automatismo, ma i dubbi che le assillano siano ancora vivi e vegeti, pulsanti. Hanno paura di qualcosa.
Ma io non posso farci niente. Sanno che se vogliono uno stipendio la ruota deve girare. È il mondo che sta crollando, non è colpa mia.
Paula mi ha detto che Lucy è pronta.
Può prestare le sue doti alla causa, ha detto.
Mi prendeva in giro, lo so.
La causa.
Questa sera Lucy è stata infilata nella Bolgia.

10.

Lucius è andato a sistemare la carne nelle celle frigorifere, al primo piano dell’edificio. Il nutrimento per gli zombie.
L’ho visto passare per la sala con la sua solita faccia contratta e il cappello da cowboy che gli formava una falce scura sopra gli occhi.
Mi ha visto e mi ha salutato, con espressione guardinga e un cenno del mento.
Lucius deve essere sempre in movimento, deve continuamente darsi da fare, ha costantemente un compito che deve portare a termine, e se non c’è un servizio stabilito allora se lo inventa. Il giorno che lo vedrò riposare vorrà dire che qualcosa non va, che il mondo, definitivamente, è andato a puttane. Le fibre del suo corpo pare suggano una forza rinvigorente dalla fatica, dal movimento, dalla macchinosa messa in pratica di tutte le faccende, onorevoli o meno, a cui è dedito, a tutte le ore.
Il contrario di me. Io osservo, cerco di essere distaccato, ma non ci riesco, come potrei?
Sono alla quarta vodka. Mi accendo una sigaretta e Sara mi guarda di sbieco, mentre si abbassa sotto il bancone, con un atteggiamento risentito.
Sembra che tutte le donne da qualche giorno ce l’abbiano con me, per chissà quale motivo.
Si rialza con tre Bud in bottiglia tra le mani e le appoggia su un vassoio.
– Ci sbronziamo anche oggi? – mi dice, facendo finta di non prestarmi troppa attenzione mentre infila dei cubetti di ghiaccio in un bicchiere da long drink.
– Mi sbronzo quando cazzo voglio – le faccio seccato, di rimando. Ma subito mi pento di averle risposto in quel modo.
Sara fa un sorrisino amaro e intanto controlla la spillatrice. Dà una pulita al beccuccio e si volta a controllare la disposizione delle bottiglie sugli scaffali.
Però ha ragione. Mi sto ubriacando troppo spesso e questa sera, in particolare, sono proprio su di giri.
Rebecca si accosta al tavolo e lentamente afferra il vassoio, sento il suo odore di sabbia, alghe e lampone. Un mix di corpo corrotto e balsami curativi. Si allontana con la sua anca sbilenca verso i tavoli, la minigonna che le pizzica le natiche troppo in alto.
Gli manca proprio il senso del pudore, a questi morti.
Due tipi mingherlini con vestiti scuri da beccamorto confabulano al tavolo verso cui Rebecca è diretta. Staranno rimuginando su quale tipo di necro-troia papparsi. Uno dei due ha uno stuzzicadenti in bocca e quando l’altro gli si avvicina per dirgli qualcosa a un centimetro dall’orecchio, questi sbotta in una risata fragorosa, si smanaccia le cosce, le spalle sussultano. Quello che gli ha parlato digrigna il muso come una scimmia, la catenina con la croce d’oro gli balla sul petto. Riesco a vedergli gli incisivi sporgenti, le luci rosse che li dipingono di giallo, il labbro leporino, gli occhi due pozze. Tipici clienti da Zombie Night. Si vede che hanno la grana. Dal taglio dei vestiti lugubri e da quella tracotanza tipica di chi si sente migliore.
Mando giù il rimasuglio di vodka e una scorzetta di limone mi rimane incastrata tra le gengive.
Solite fitte alla bocca dello stomaco.
Penso a Cassandra. Lei non è come questi zotici coi soldi. Lei non è neanche come le altre non-morte. Ha una personalità, lo sento. Possiede una struggente propensione all’eleganza, alla compassione, alla comprensione.
Lo so, anche se non parla. Lo so perché sento che mi percepisce. Sa che io so.
Ogni tanto penso di stare per impazzire.
Non può essere, mi dico. Non esistono zombie che abbiano sentimenti. Tranne quello della rabbia, se di sentimento vero e proprio si può parlare in questo caso, quando non sono imbambolati dalla droga e devono sbranare altra carne. Non esistono emozioni in loro, mi ripeto. Me lo dico per convincermi.
Ma poi guardo Cassandra. E la sento.
Non saprei come altro dirlo.
C’è qualcuno qua dentro che ha capito della mia predilezione per lei. Una di queste è Berenice. Mi ha visto gironzolare presso la sua cabina troppe volte. Lo so cosa pensa. Immagino cosa possano pensare, tutti. Ma io non me la sono mai fottuta. Non ho mai scopato con un morto. Non travalicherò questo confine. Non sono come quei figli di puttana con la croce al collo, i soldi in bocca e il cazzo sempre duro.
Questa mia consapevolezza, questa mia astrusa attrazione mi porta a essere in qualche modo fiducioso, ad alimentarmi dentro una sottospecie di speranza, ma nel contempo a provare un preciso e forte senso di nausea, di disgusto.
È tutto così innaturale, mostruoso.
Vorrei che tutto fosse esattamente come quello che provo, e vorrei che tutto fosse anche il contrario. Mi piacerebbe che qualcuno mi contraddicesse, non che mi confermasse, rafforzandomela, questa mia idea, questa sensazione.
Ecco perché non voglio credere alle parole di Paula.
La lacrima di una morta.
Questo dimostrerebbe che c’è qualcosa di inumano, o forse no, al contrario, di troppo umano, in tutto quest’affare. E che i vivi e i morti, allora, forse sono interscambiabili. Che l’umano, alla fine, è peggio di un morto che cammina.
E poi questo confermerebbe che non abbiamo a che fare solo con cose. Ma che dentro queste creature cova ancora una scintilla di quello che erano prima.
O perché no: di qualcosa di completamente diverso.

11.

La sera successiva sono al mio solito posto, appoggiato al bancone. Sara è in piedi, di dietro, i cappelli scarmigliati, una sigaretta tra le dita. È un momento di pausa, quei momenti in cui l’aria sembra soffice, il silenzio è rotto solo dalle note del sassofono di Sonny Stitt, le conche di buio della sala sembrano trasudare direttamente dalle pareti, i neon rossi sono minuscole stringhe di colore nella bruma di fumo e tra gli aliti sibilanti dei frequentatori ai tavoli, tre o quattro, non di più. La solita marmaglia danarosa dai completi costosi, le facce opaline, croci d’oro al collo e le ghigne dentro quella tenebra alla Caravaggio.
Poi c’è un trambusto improvviso. Proviene dalla Bolgia, e arriva dritto fin qui. Mi rizzo in piedi. Sara, sgomenta, resta paralizzata con la mano a mezz’aria, le dita tremanti attorno alla sigaretta. Anche un paio di avventori si scostano nervosi sulle loro sedie, inquieti come gatti vicino all’acqua.
C’è un urlo, di un uomo. Sembra roco e ammonitore. Rabbioso. Non è Armande, lo riconoscerei. Dunque è un cliente.
Un altro suono, lo stridore di qualcosa che viene trascinato, il boato di qualcosa che si rompe, il baccano di legno che si incrina. Altre cose che si frantumano. Vetro, forse bicchieri.
Istintivamente inarco il busto oltre al bancone, allungo il braccio, c’è la pistola lì, una vecchia Browning calibro 7.45. Di solito resta lì ad ammuffire, tra le bottiglie scolate e i panni umidi.
Ma non faccio in tempo ad afferrarla che un uomo, la camicia sbottonata, il viso arrossato e i capelli biondicci spettinati, si scaraventa nella sala, issandosi dalla scala, direttamente dalla Bolgia.
Noto i suoi pantaloni ancora sbottonati, le maniche della camicia bianche che presentano delle virgole di sangue. Sangue scuro, che vedo inargentarsi presso i neon rossi come in un luminescenza da luminol in una scena del delitto. Un braccio sembra vagolare da sé davanti alla faccia, mentre avanza, barcollando, e poi mi accorgo cosa stringe l’altra mano. Sta trattenendo una non-morta per i capelli. L’uomo l’ha trascinata con violenza su per le scale, il corpo imbottito di droga e ammaestrato che non oppone resistenza, un feticcio di paglia e carne tremula.
Carne che si consuma, inevitabilmente.
Vedo una clavicola della non-morta che le spunta dalla spalla come un osso sepolcrale, una lugubre fetta di osso scorticato, impiastrato di sangue. E poi l’intero braccio, dissestato, ciondolante, attaccato per un filo di muscoli e nervi alla clavicola, la scapola che sembra un’ala di ferro che ha perforato la pelle, sembianza alata e psicopompa di un inferno delle viscere, della morte che rapisce la morte, ancora e ancora.
L’uomo trascina la non-morta in mezzo alla sala. Vedo il sudore su quella fronte rossa, il fiatone, la sua mano graffiata. Ansima e urla, non lascia i capelli della morta, vedo gli occhi di Gina, è lei, la riconosco, vedo quegli occhi senza emozioni, gli occhi vetrosi e immobili di una bambola, gli occhi di un’anima catturata in un corpo che non sente più suo, un corpo che sono solo ossa e fibre e muscoli e dentro un vuoto, un soffio di morte risorta infagottata con droga psichedelica e microrganismi antigeni temporanei.
– Cosa cazzo… – Mi catapulto tra i due. L’uomo lascia la presa.
La testa della non-morta batte in terra, con un sordo rumore colloso, gli occhi sempre aperti.
È come se si chiedessero, quegli occhi: dove sono, e perché? Senza forza, nessuna energia, spirito incasellato in uno stampo di carne già morta.
– Che diavolo di troie tenete qui? – urla l’uomo, la voce incrinata dalla rabbia, ma anche dalla paura, lo sento. Spruzza bava dalla bocca, si porta una mano alle tempie, ansima.
Armande si è arrampicato sugli scalini e ora è di fianco all’uomo, con le braccia aperte, come una guardia del corpo che protegge il suo cliente da una selva di fotografi.
– Signor Beaumont… – mormora, l’espressione addolorata. Ma poi volge lo sguardo a Berenice, anche lei sopraggiunta. Ha il fiatone, il crocchio di capelli rossi formano un’ombra alle sue spalle, sulla parete, una specie di testa mostruosa, gigantesca, un naso camuso e un cranio deforme. Con fare afflitto appoggia una mano sotto il braccio del cliente. Il signor Beaumont. Il facoltoso proprietario di una catena di concessionarie d’auto d’epoca.
Berenice mi lancia uno sguardo atterrito, prima di portare via l’uomo, che si fa trascinare di nuovo nella Bolgia con malcelato nervosismo.
– Ora le cambieremo i vestiti e le faremo fare un bel bagno, signore – dice Berenice per confortarlo.
Gina striscia in terra, oscilla muovendosi come un verme, batte i polpacci sul pavimento, scuote il collo come per cercare di osservarsi la spalla, la bocca raggrinzita, scaglie di pelle si nebulizzano in polvere nera. La ferita sul braccio perde una schiuma rossastra, proiettili di sangue rimbombano sull’impiantito, scorie viscide e lingue di nervi.
– Cosa è successo? – urlo, rivolto ad Armande.
– Le si sta staccando il braccio – mi risponde, quasi indifferente, come se la questione fosse ovvia, banale, voltandosi di lato.
– E nessuno si era accorto del suo stato di decomposizione del cazzo? – sbraito, ma nessuno mi ascolta.
I tre avventori sono sgattaiolati all’esterno dall’entrata principale. La porta è rimasta aperta, cigola sulle molle tra i cardini strattonati dall’aria di piombo della notte.
Il ciclo delle non-morte deve essere vagliato scrupolosamente. Non può cadere un braccio in faccia a un cliente, magari mentre gli sta facendo una sega.
Mi giro verso Sara, sconcertato. Cerco delle risposte. Ma sono sicuro, nessuno me ne darà qui, neanche una.
È il corso delle cose, mi risponderebbe Paula.
A Sara le trema ancora la mano, le dita sospese davanti alla faccia. Allunga le labbra e le infila attorno al filtro della sigaretta. Inspira con forza.
La brace della sigaretta si incendia, un falò microscopico, come un piccolo inferno dentro un altro inferno – un inferno più grande, più spaventoso.

12.

Anche la morte muore, dopo un po’.
Gli organismi si corrompono, non c’è niente da fare.
Lucius ha afferrato Gina per il braccio sano, trascinandola fuori dallo Zombie Night. Nel cortile l’ha issata su una carriola.
Ho sentito Gina che brontolava mentre veniva trasportata sulle ruote cigolanti, verso il capanno. Ho pensato che anche loro, come le bestie al macello, sentono la morte che giunge. Come l’angoscioso e straziante urlo del maiale quando viene appeso a testa in giù, e sgozzato, e poi ficcato nella vasca di acqua bollente.
In più, Gina la conosce già la morte, ci è già passata. Questo è solo il ripasso. Chissà che in questi momenti non si accendano in loro dei percorsi cellulari mnemonici assopiti, che gli ricordino la loro prima morte.
Ogni tanto mi metto a pensare a quale tipo di vita avessero queste non-morte prima di essere tali. Lo faccio soprattutto con Cassandra. Vagheggio su quale lavoro facesse, fantastico su dove potesse abitare, su quanti figli avesse, prima di morire. Chissà perché, Cassandra me la immagino come una donna in carriera, a capo di un ufficio di avvocati, oppure come una ballerina, un étoile dei teatri europei, che danza leggiadra sulle tavole di palcoscenici internazionali, come una farfalla. Poi penso anche a come è potuta accadere la morte. In quali circostanze. Ai particolari. Se è stata sopraffatta da un gruppo di zombie durante la notte, nel suo letto. Oppure se è capitata incidentalmente in una di quelle enormi zuffe nel centro delle città, quando il pandemonio rasentò l’apice, e una dentata di sfuggita in mezzo al caos l’ha infettata col morbo. Oppure, ancora più semplice, ed è naturale supporre che sia così viste le condizioni esteriori pressoché perfette, è una non-morta da allevamento. L’assassina del proprio pargolo ancora nella culla, o l’uxoricida del proprio marito manesco, condannata alla pena capitale, alla zombificazione, e infilata in uno di quegli allevamenti governativi. Una siringata e bye bye!, benvenuta nel lato oscuro della luna.
Queste cose non dovrebbero succedere, così, senza preavviso.
Paula e il suo staff avrebbero dovuto monitorare con più cura lo stato dell’organismo della non-morta. Non è stato un bello spettacolo da vedere.
Ma non mi sento di recriminare Paula, per questo. Non sta scorrendo buon sangue tra di noi, in questo frangente.
Lucius sparerà a Gina col suo M40 con calcio in vetroresina, nella baracca.
Poi farà una buca nel campo, nel punto in cui i papaveri si diradano e si crea una striscia di terra brulla che costeggia l’autostrada. Cospargerà la buca di benzina e darà fuoco al cadavere, prima di ricoprirlo.

 

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