Il Grande Editor

A.V. si sentiva un tantinello teso – anche se, forse, non gli avrebbe fatto piacere ammetterlo davanti a qualcuno – in vista dell’ennesimo meeting con quello che da tempo in testa sua aveva iniziato a indicare con la sbrigativa antonomasia di “Curatore”.
Erano mesi che il Curatore aveva preso in mano – o meglio: tra le grinfie – il suo testo senza che ancora ne fossero venuti a capo.
Quello tuttavia si preannunciava come l’incontro definitivo. Era questa la scusa con la quale aveva preteso di vederlo a tu per tu (o face to face, per come preferiva esprimersi il Curatore stesso), dopo un’infilata di snervanti tiramolla telematici, via filo, per posta, whatsappati, messengerati o telegrammati, che si erano protratti per un’infinità di tempo e all’interno dei quali i due avevano discusso sino allo sfinimento su ogni singola parola, virgola e proposizione di quel fottuto brogliaccio. C’erano stati momenti in cui A.V. aveva maledetto l’atto stesso di averlo scritto, ma ancor più la decisione di spedirlo poi a un pezzo da novanta come quello, che quasi sin da subito, nel giro di una settimana dall’inoltro, s’era avvinghiato a quel suo parto letterario con un’insperata tenacia.
Dopo varie pubblicazioni con piccoli editori, a un certo punto, estenuato dallo scarso riscontro di pubblico, men che meno di critica, a fronte dei defatiganti sforzi che vi aveva profuso, s’era dato un ultimatum: o sfondi o stop! Ambiva alle recensioni sulla terza pagina dei giornali, alla bella mostra dei suoi libri nelle vetrine delle librerie di catena, come tanti ghiotti prosciutti in attesa di andare a ruba, alle redditizie riduzioni cinematografiche, televisive o, meglio ancora, on demand dei suoi testi, ai gettoni di presenza delle trasmissioni più popolari in veste di opinionista e, soprattutto, alle decine di femmine che si sarebbe potuto spupazzare, richiamate dalla fama come nugoli di mosche dalla melassa.

Qualcuno gli aveva consigliato quel tale scout editoriale. «Il migliore sulla piazza,» gli avevano assicurato, «Se piace a lui, stai in un ventre di vacca».
Gli era piaciuto in effetti: «C’è molto di buono. L’idea di partenza è eccezionale e anche la struttura ha una sua potenza,» gli aveva annunciato, durante la primissima telefonata di contatto. «Tuttavia,» non aveva tardato a smorzare i toni, immediatamente dopo, «la scrittura non è ancora matura. Troppi voli pindarici, troppe bellurie, troppi svolazzi con la fantasia. Sobrietà, ragazzo mio. Sobrietà! Non si deve preoccupare, comunque. Saprò io come condurla, mano nella mano, verso la perfetta ottimizzazione del suo romanzo».
A.V., senza tentennamenti, gli si era consegnato corpo e anima, in abbinamento con l’opera da editare: full package, avrebbe detto il Curatore. Aveva finito per accondiscendere a qualunque imposizione, abbagliato dal traguardo finale di un contratto con una major, che intravedeva quasi fosse la tanto agognata luce in fondo al tunnel.
I “piccoli accorgimenti” promessi all’inizio si rivelarono ben presto uno stravolgimento. Fu un bagno di sangue, a conti fatti. Era stata messa mano a interi periodi e paragrafi. I termini scelti, addirittura la punteggiatura e, più in generale, quasi ogni singola espressione erano stati risistemati, finché il testo editato non rassomigliò a una contraffazione di quello scritto in origine.
Sulle prime A.V. aveva anche provato a opporre una minima resistenza, più che altro per darsi un residuo tono autoriale e non sbracare troppo in fretta, anche se sin dalla partenza aveva potuto intuire come ogni volontà programmatica di preservare la purezza del proprio scritto si sarebbe facilmente frantumata di fronte alla garbata risolutezza dell’autorevole interlocutore.

Al momento se ne stava là, affondato in quella sala d’aspetto talmente bianca che anche i contorni delle sedie e del tavolino tendevano a sparire stagliati contro il candore quasi metafisico delle pareti. Lui sembrava galleggiarci dentro, come una mosca annegata in un bicchiere di latte. Il tappetino musicale senza verve mandato in filodiffusione non faceva che urtare i nervi di A.V., combattuto, come sempre da che era iniziata quella vicenda, tra contraddittori sentimenti di estasi e frustrazione, cui attualmente si andava a sommare un’angoscia via via insorgente per l’incontro che si stava per svolgere, che somatizzava in un fastidioso groppo alla bocca dello stomaco.
Al centro della parete di fronte a lui si aprì di schianto una porta, la cui esistenza, fino a un attimo prima, non aveva neppure immaginato, mimetizzata com’era con la restante bianchezza intorno a essa. La figura femminile che ne uscì lo colse di soprassalto, facendogli fare un piccolo sobbalzo sopra la seggiola della medesima tinta, su cui poggiava le magre chiappette.
A interrompere i suoi patemi d’animo era la tipica segretaria: tailleur dozzinale, occhialini sul naso dalla montatura lievemente allungata verso le parti esterne, chignon, mezzo tacco, unghie corte e smaltate dello stesso rosso pallido del rossetto, giro di perle d’allevamento intorno al collo, cartellina sotto ascella. Sembrava essere stata pennellata dal più conformista degli illustratori. La donna scoprì un sorriso poco convinto, rivolto all’unico ospite della sala d’attesa. I suoi occhi apparivano come due capocchie di spillo in fondo alle spesse lenti.
«Il dottore la sta attendendo,» annunciò. Doveva essere quella l’antonomasia scelta invece da costei per riferirsi a quell’inveterato guastatore di dattiloscritti altrui.
A.V. si scollò con una certa titubanza dal posto a sedere, dopo di che, con passo incerto, seguì il gesto d’invito della segretaria personale del Curatore, penetrando nella stanza attigua a testa bassa, stringendo il cappellino da baseball tra le dita, trattenuto per la tesa, e mordicchiandosi a sangue il labbro inferiore.

Quando uscì da quell’ufficio era distrutto. Il Curatore aveva voluto apportare ancora le ultime modifiche al suo romanzo. Già prima che lui arrivasse, aveva segnato le parti “incriminate” con una matita rossa da professorino di liceo e, subito a seguire, gliene aveva mostrato una copia che era già stata riscritta, senza neanche averlo consultato. Non gli era bastato trasformare un romanzo di formazione in un giallo, lo stile sperimentale in un linguaggio neutro e inespressivo, sopprimere anche la minima elucubrazione o “barbosa filosoficheria” – come preferiva bollarle il grand’uomo – continuando a ripetergli a macchinetta: «Show, don’t tell! Show, don’t tell!» come fosse un mantra, e voltare ogni accenno sociale o psicologico in simpatiche coloriture del tutto inoffensive: prima che il suo libro fosse dato alle stampe presso una grossa casa editrice, il suo mentore pretendeva da lui un ultimo sacrificio, o quello che nel suo gergo si presentava come “lo step risolutivo”.
Per la verità, A.V. non aveva ben compreso in cosa consistesse di preciso quell’obbligo finale, anche se non presagiva nulla di buono. Sapeva solo che, affinché quel suo testo revisionato di sana pianta conoscesse la gloria degli altari della grande distribuzione su scala nazionale, serviva che lui presenziasse a una reunion, presieduta da chi stava sopra il Curatore. Ci sarebbe stato anche quest’ultimo al suo fianco, gli avrebbe fatto da chapperon.
A.V. aveva finito per vendersi l’anima. Era questo il sentimento inconfesso che lo accompagnava, mentre rotolava giù dal taxi in sosta davanti all’indirizzo indicatogli dal Curatore, alla data convenuta, gonfio di alcol nella speranza che almeno quello gli desse il coraggio per affrontare quella che si presentava come la rinuncia definitiva alla propria integrità morale. L’acquavite a buon prezzo invece non aveva fatto che ottenebrargli ancor più la mente, addensandola ulteriormente di certi vapori venefici che i più chiamano frettolosamente “sensi di colpa”.
In faccia a lui si ergeva un’enorme scatolone di marmocemento dalla facciata quasi completamente priva di orpelli. Sopra l’ingresso, anch’esso piuttosto essenziale, due finestre gemelle illuminate, entro le quali si stagliava l’ombra di una presenza umana cadauna, come un paio di pupille indagatrici puntate su chiunque si attardasse di fronte allo stabile.
A.V. non era solo. Una lunga fila di persone già ciondolava sopra il marciapiede con tutte le intenzioni di entrare là dentro appena possibile. Si capiva che doveva trattarsi di scrittori, o quantomeno artisti, da come tutti loro si erano sforzati di vestirsi nei modi più eccentrici, così da dare nell’occhio sin da subito. A.V. li fissava con sguardo vacuo. Pareva una gara a chi avesse intorno al collo la pashmina dalla tinta più sgargiante.
Un principio di conato già cominciava a risalirgli su per la parte alta dello stomaco, sino a tornargli a gola, quando sentì una presa robusta afferrarlo per un braccio, come a voler puntellare quella sua malcerta stazione eretta: «Emozionato?». Si voltò lentamente. Era il Curatore, con un sorriso bianco candeggina che gli partiva da un orecchio e gli finiva a quell’altro.
«Più che altro trepidante,» fu il responso brontolato da A.V.
«Bravo, bravo, mio caro,» si complimentava il Curatore, «lei sa trovare sempre la parola giusta, che purtroppo però il più delle volte è fuori target». Ridacchiò senza allegria per questa sua uscita, poi, palpandogli una spalla, lo consolò a suo modo: «Distenda i nervi, ragazzo mio, conservi la calma, vedrà che tutto andrà bene».
«E… tutta questa gente?».
«Colleghi,» laconizzò il Curatore, che, dopo una breve pausa, tenne a puntualizzare: «Suoi».
Non passò molto e l’androne si illuminò. Una sagoma scura si avvicinò alla porta di ingresso, fece compiere due mandate alla chiave che stringeva tra le dita e aprì, rivelandosi una specie di cliché ambulante di un maggiordomo, con tanto di gilè riempito da un ventre protruso, giacca con le mezze code, ghette e una rada capigliatura bianca a fargli il giro della nuca. «Potete entrare» si limitò a comunicare con un mezzo inchino per sparire quasi immediatamente.

Gli scrittori e i loro agenti si accalcarono sulla porta tali e quali ad altrettanti Danti e Virgili nei pressi della bocca dell’inferno. Il maggiordomo di poco prima li attendeva al di là di un largo zerbino quadrato, al cui centro brillava una G e una E arzigogolate e cubitali, per smistarli, chi a destra, chi a sinistra, verso brevi rampe di scale che conducevano a ingressi senza porta che davano su una specie di anfiteatro o teatro anatomico ottocentesco, pittato da cima a fondo con due spesse mani di beige. I partecipanti presero lentamente posto sugli scranni, come era stato indicato loro da alcune mascherine, abbigliate con severi completini, anch’essi beige, che tendevano a confonderle col fondale.
L’ambiente era a forma di cono rovesciato, a pianta ellittica, formato da quattro ordini di sedili con relativo poggiolo. L’unico diversivo per l’occhio, in quella smorta tinta unita, erano le gigantografie appese negli spazi tra le travature. I grandi poster raffiguravano a mezzobusto alcuni dei più grandi scrittori di ogni tempo: Melville, Carlo Emilio Gadda, John Dos Passos, William S. Burroughs… Davano l’impressione di essere stati piazzati lì a monito, anche se non si capiva ancora bene riguardo a che cosa.
Giù da basso, nel bel mezzo del vano ovale racchiuso dalla balaustra inferiore, già li attendeva il loro ospite. Spiccava nella sua tenuta vermiglia, giacca, cravatta e cappello a pork-pie, immerso in tutto quel beige e colpito a perpendicolo da una potente luce artificiale. Restava in silenzio, a osservare con i suoi occhi vivaci quella moltitudine di imbrattacarte che si accomodava sui sedili in legno laccato.
A quella vista si sentì giungere da ogni parte un’unanime constatazione, espressa a mezza voce, con toni carichi di rispettosa meraviglia: «Il Grande Editor!».
A.V. aveva già sentito pronunciare quella misteriosa dicitura. Era stato il Curatore a citarglielo, en passant. Di tanto in tanto amava rincarare le sue osservazioni con uno sfuggente «Solo così passerà al vaglio del Grande Editor,» magari per convincerlo a scendere a più miti consigli, lasciando che un passaggio ispirato, cui A.V. teneva parecchio, venisse brutalizzato e ridotto a un cluster atomico di banalità. Una volta, arcistufo di vedere il suo lavoro straziato in nome di quel fumoso principio di autorità, gli era scappato di bocca: «Ma chi cazzo è questo Grande Editor?». A quel punto l’aveva quasi preso per una figura fantastica, una sorta di spauracchio editoriale, simile a quel babau che si usa nominare ai bambini più discoli per farli stare buoni.
«Il Grande Editor è colui a cui tutti noi facciamo capo,» si era sentito rispondere dal Curatore, «Senza la sua approvazione non si va da nessuna parte». Non aveva voluto aggiungere altro.
Ora riascoltava quel nome oggetto di un passaparola incessante tra panca e panca, esalato con circospezione, alla stregua di un flebile sussurro. Il personaggio rivestito di vermiglio, laggiù in fondo, rimaneva imperturbabile. Attese pazientemente che tutti quanti si fossero sistemati intorno a lui. Dopo di che si schiarì la voce e prese la parola: «Benvenuti, amici cari. Benvenuti ai collaboratori più stretti, ma soprattutto benvenuti ai nostri beneamati scrittori, senza i quali noi, umili operatori editoriali, non sapremmo da dove incominciare…».
Una minoranza di persone, che punteggiava qua e là quella folla, riconoscibile per la sobrietà dell’abbigliamento, fece partire un garbato battimani. Il tiepido applauso si estese anche a tutti gli altri, sino a che il Grande Editor, con una contrazione risoluta delle braccia, fece capire che era il momento di tornare in silenzio.
«Miei diletti autori, mi rivolgo a voi,» riprese. La sua voce era gentile, quasi flautata, ma, allo stesso tempo, capace di riverberarsi per l’intera architettura del vasto ritrovo, «La vostra cortese presenza è stata richiesta qui, stasera, dentro questo tempio… redazionale. Sarete già stati avvisati dalle vostre relative guide in merito al fatto che si tratta di stendere l’estremo passo sulla strada che vi condurrà dritti dritti alle più illustri pubblicazioni. Per fare questo, signori miei, c’è bisogno che compiate un ultimo sforzo, in vista di un tanto commendevole traguardo. Avete rinunciato a tutto pur di essere qui. Avete gettato alle ortiche anni e anni di travagli letterari. La bella pagina, la personalizzazione dello stile, la scelta del termine più efficace, l’elegante circonlocuzione, lo scavo psicologico dei personaggi, la rappresentazione dei caratteri generali del mondo e della società attraverso il particolare: tutto cancellato in un attimo con un semplice colpo di spugna. In poche parole, avete venduto quella spocchiosa anima da cacasentenze rileccati che vi contraddistingueva a favore di uno standard che omologhi ogni scrittura a un’unica grande narrazione sempre uguale a se stessa, e avete fatto bene, me ne compiaccio. Era questa la condizione necessaria, ma non ancora sufficiente. Ora faremo come al circo. Sapete quando arriva il momento in cui il clown annuncia di voler chiamare in pista un piccolo aiutante e tutti i bambini presenti si nascondono sotto il posto numerato affinché non capiti proprio a loro?». Il paragone riscosse un pur breve attimo di ilarità nella platea antistante. «Da qualcuno comunque dovremo pur principiare…». Dicendo ciò, il Grande Editor stese un braccio, la cui terminazione era un indice puntato su qualcuno degli astanti. A.V. perse un battito cardiaco quando si accorse che la punta di quel grosso dito affilato indicava lui.
Provò anche a scostarsi, prima un tantino a destra, poi a sinistra, tanto per capire se fosse stato tratto in inganno dall’effetto di un qualche tipo di parallasse e il Grande Editor stesse in realtà puntando l’indice verso qualcun altro,  invece no, era proprio lui che stava perentoriamente segnando a dito. A conferma sentì subito dopo il proprio nome chiamato dalla sua voce squillante: «Sì, ha capito benissimo, amico mio, è lei il… fortunato».
Il Curatore, accanto a lui, si complimentava ridendo fragorosamente, mentre gli batteva sempre più concitato su una spalla e lo sospingeva giù per gli scalini centrali, sino a raggiungere il pezzo grosso, che intanto da laggiù lo attendeva a braccia aperte.
Quando, con un incidere riluttante, fu finalmente a tiro, il Grande Editor lo trasse a sé al culmine di un ampio giro del braccio: «Su, si faccia coraggio, mica la mangio». Qui a sghignazzare in maniera sguaiata furono solo gli editor, che tutti gli altri guardarono con una punta di perplessità.
«Prendiamola un po’ alla larga, mio buon amico,» attaccò il Grande Editor, «Chissà quante volte sarà capitato, a lei come alla gran parte dei suoi colleghi, di entrare in una libreria, scorrere lo scaffale con le ultime uscite e domandarsi demotivati: “Ma se pubblicano ’sta  porcheria, perché io non riesco a pubblicare?” Quante volte?».
«Parecchie» ammise A.V., quasi sibilando.
«Ecco, forse è ora di ribaltare il punto di vista. La risposta è già nel quesito: perché danno alle stampe quella mediocre paccottiglia e non il suo testo? Forse proprio perché… non è abbastanza mediocre».
A quell’affermazione, gli scrittori presenti sembrarono sincronizzare i muscoli del volto in una contrazione, mentre gli editor che li accompagnavano (in una proporzione di uno ogni sei o sette, all’incirca) si levarono in piedi per sperticarsi in uno scrosciante applauso, che la loro figura di riferimento acquietò con uno sfarfallio della mano destra. «Bando alla paratassi,» proseguì, «bando alle alzate d’ingegno! Sta tutto lì. Il mercato schifa il gusto raffinato o altre cianfrusaglie di questo tipo. Prima cosa: nessun diversivo. Le vostre digressioni da saputelli non importano ad anima viva».
A.V. si rivolse quasi per riflesso al faccione rassicurante di Jimmy Joyce, che pendeva dal muro alla sua destra.
Nel mentre, il Grande Editor non la finiva di sdottorare: «La storia deve andare da un punto A a un punto B, finita lì. Come una retta senza sbavature. Seconda cosa: niente che vi distingua. Il vostro ego è buono per la spazzatura. Al lettore non importa un bel niente di voi e di come la vedete. Gli importa solo di svagarsi mentre deve farsi otto fermate di metropolitana o deve prendere tre coincidenze con un ritardo di quaranta minuti. Sono passati i tempi belli del libro come prodotto culturale. Oggi non ci sono più lettori colti, ficcatevelo in testa: ci sono i nerd. Non ci sono più i critici letterari, ci sono i blogger. Così va il mondo, che vi piaccia o no. Voi siete poco più di un prestanome, l’intrattenimento a buon mercato è quello che conta». E, dicendo questo, prese a sventolare in aria una copia del Giovane Holden, tirata fuori chissà da dove. Subito, il bizzarro assembramento intellettuale posto al suo cospetto parve prenderla come un’inattesa riappacificazione con le belle lettere. «Badate bene, il nostro riferimento non è Salinger,» tenne però subito a puntualizzare il loro anfitrione, «Bensì… Mark Chapman! La personalità dell’autore va abbattuta! Anche con una revolverata, se serve. Born, baby. Born!». Canticchiando le ultime tre parole, cavò di tasca un voluminoso accendino a benzina. Col pollice fece scattare verso l’alto il coperchietto, l’estremità dello stoppino prese fuoco automaticamente. Accostò la fiamma azzurrognola a un angolo del volume che stringeva in mano e quello s’incendiò all’istante, come se fosse stato prima cosparso di un liquido altamente infiammabile. Il libro si polverizzò tra le sue dita in pochi secondi. Nel contempo anche ai ritratti appesi alle mura venne appiccato il fuoco non si capì da quale innesco, partendo dal basso verso l’alto, in un simbolico rogo che incenerì anche quelli in poco tempo.
L’incendio generale veniva accompagnato dalle parole ridenti del Grande Editor: «Dovete liberarvi delle vostre ingombranti idee, al mercato non interessano. Dovete diventare ingranaggi ben oliati, questo vi si chiede. Senza distrazioni, senza tante fumisterie. Solo così verrete finalmente baciati dalla fortuna!».
Dicendo questo, il suo corpo subì un sussulto. Si spostò verso A.V., trasmettendogli un senso di minaccia, tanto che quest’ultimo indietreggiò istintivamente di qualche passo, trovando ad afferrarlo per gli avambracci il Curatore che, frattanto, non visto, gli era scivolato alle spalle. A.V. aveva l’espressione di chi si senta braccato. Venne a mitigare quel suo timor panico l’ammiccamento rassicurante che gli riservò il Grande Editor in quel momento. I muscoli tesi di A.V. parvero rilasciarsi, almeno sino a quando il sorriso fatuo dell’interlocutore non si congelò in una specie di paresi. Quasi immediatamente, la testa del Grande Editor compì uno scatto rapido in avanti. A.V. a quel punto tentò di divincolarsi dalla presa del Curatore, ma non ci fu niente da fare. Era la morsa di un cobra, quella.

Fu allora che accadde una cosa strana: le braccia del Grande Editor si allungarono come tentacoli verso A.V. fino a ghermirlo, allacciarlo intorno alla vita a doppio giro, mentre altre braccia spuntavano dal suo corpo, squarciando i vestiti, per imitare l’azione degli arti che li avevano preceduti.
A.V. si ritrovò imbrigliato in una spirale di abbracci. La testa del Grande Editor cominciò a vibrare paurosamente. I suoi occhi sporgevano dalle orbite come quelli di certi pupazzi di gomma quando vengono strizzati. La bocca cominciò ad aprirsi, fino ad andare ben oltre i limiti fisici consentiti. Giunse a disarticolarsi. Nel fare questo, emise un verso grottesco, confuso con lo scrocchio delle ossa. Mascella e mandibola si fecero più elastiche, divaricandosi in quattro direzioni opposte, come le punte di una banana sbucciata. L’interno della cavità orale mostrava una moltitudine di aguzzi dentini conficcati in una polpa sanguigna e palpitante, posti a serie concentriche intorno alla lunga lingua carnosa, che saettava su e giù come un roseo dardo viscoso. In tutto questo, il cappello a pork-pie gli era miracolosamente rimasto saldo sulla cima della testa.
Si sporse verso il giovane scrittore lì vicino, o meglio sarebbe dire che gli cadde addosso, avanzando con quella bocca mostruosa che gli applicò contro la faccia, aderendovi a ventosa. Gli strilli di A.V. vennero presto soffocati da un rivoltante rumore liquido. Dalla violenza con cui il corpo del poveretto, ormai arreso al corso degli eventi, vibrava a mezz’aria, con i piedi sollevati di qualche centimetro da terra, si sarebbe potuto credere che il Grande Editor, tramite quell’orrido bacio, stesse risucchiando i suoi succhi vitali, esattamente come si deglutisce una spremuta d’arancia.
Quando, presumibilmente sazio, il Grande Editor se ne staccò con uno schiocco assordante, il corpo di A.V. ricadde a terra floscio come un fantoccio. Non era morto però. Pallido e smagrito, faticò a rimettersi anche solo seduto. Il suo sguardo aveva perso ogni vitalità, la bocca appariva esangue, le braccia tremolavano come foglie al vento. Lo stesso padrone di casa, steso lì, accanto a lui, appariva esausto per lo sforzo appena compiuto.
Radunò tutte le forze che gli restavano in corpo per rivolgersi ancora una volta a chi aveva davanti: «Un tempo, fratelli miei, noi eravamo l’ultima ruota del carro. Nelle redazioni facevamo da galoppini. Ci tenevano come cani alla catena, nascosti nei sottoscala, schiavizzati, sgobboni a mezzoservizio, la bassa manovalanza della filiera culturale,» le parole uscivano come un gorgoglio da quel largo buco slabbrato che aveva al posto della bocca, «Abbiamo cominciato come mezzemaniche. Eravamo i correttori di bozze. Oggi deteniamo il potere! Ne abbiamo fatta di strada, fratelli miei,» si capiva che non si stesse rivolgendo all’intera platea incondizionatamente, bensì solo a una parte di essa. Quella parte che dipendeva direttamente da lui, «Siamo nelle case editrici, nelle agenzie letterarie, nelle redazioni dei giornali, dirigiamo corsi di scrittura, siamo i gangli del sistema letterario nazionale. Siamo noi i veri autori delle migliaia di pagine vomitate giornalmente dalle rotative delle tipografie. Siamo noi finalmente a decidere il prodotto finale. Siamo noi che da almeno vent’anni educhiamo il lettore a una letteratura di consumo, semplice, piatta, standardizzata,» una bava verde e grumosa gli colava giù dagli angoli di quel varco dentato, «Abbiamo trasformato gradualmente il lettore in un semplice acquirente e gli acquirenti, si sa, sono come i bambini, troppe novità li spaventano, troppe sorprese li destabilizzano, loro amano la consuetudine, poveri piccini».
Con un istrionico picco della voce cessò di infervorarsi. Accolse l’applauso dei suoi come cosa meritata. Si rimise in piedi facendo perno sulle numerose mani. Con una di esse fece cenno al prossimo di scendere per sottoporsi a identico trattamento. Il candidato venne incalzato dal suo curatore personale con uno spintone tanto energico da farlo quasi ruzzolare giù per le scale. Al contrario di A.V., il suo caso era quello di uno scrittore ancora acerbo, con buone idee, ma piuttosto vaghe e una certa difficoltà a esporle: l’ideale per chi aveva giusto bisogno di esili fondamenta su cui impiantare il proprio prefabbricato.
Toccò a tutti, uno dietro l’altro. A notte inoltrata, lasciarono l’edificio in fila indiana, ordinatamente, tutti con il medesimo sguardo svuotato, la camminata molle, l’espressione anonima, un bagaglio linguistico depauperato, pronti a impazzare per talk show, fiere librarie, reading, gala à la page.

Illustrazione di Dan Bejar