Furioso come George

Furioso come George

Scimmiaccia ingrata! Lurido sacco di pulci!

Chissà dove stai a quest’ora, a penzolare da qualche palo della luce con quella pipetta di crack da cui non ti separi mai, stretta in un piede? O stai dentro uno di quei bordelli dove ti concedono di entrare a consumare nei giorni infrasettimanali a prezzo appena appena maggiorato, magari insieme alla solita mangianoodles che non ci va troppo per il sottile?

Una cosa è certa: mentre tu stai là fuori in fuga, io, per colpa tua, mi ritrovo qui, in terapia intensiva. A farmi compagnia il suono ridondante del mio respiro cavernoso, che si confonde con la cacofonia dei macchinari che mi monitorano battito cardiaco, polmoni, attività cerebrale, affinché nulla collassi troppo in fretta.

Mi hanno intubato in ogni maledetto buco da cui sfiata il mio povero corpo dilaniato. Ho più cannule addosso dell’organo della chiesa battista dove andavamo a santificare ogni fottuta domenica, io e te, brutto mangiabanane a tradimento, quando tu, a metà della funzione, sgattaiolavi in mezzo al coro della Congregazione a tirare fuori i tuoi versi acuti e stridenti, mentre gli altri intonavano The Lord is my salvation con un sol cuore. E tutti a dirti: “Che carino, c’è George!” e a tirarti ganascini e allungarti caramelle mou che scartavi con i piedi, mentre tu lo facevi solo per tastare le enormi tette sode di Miss Smith o il bel culo di Missis McFit con le tue manacce pelose.

Mi pompano nelle vene tanta di quella morfina, per cercare di lenirmi il dolore atroce che provo, che la metà sarebbe bastata per un intero reggimento di avanguardisti della Grande Guerra. Sono un’agonizzante e informe palla tissutale buttata su una lettiga cigolante. Non ho la minima idea di che cazzo ti sia preso, stupido pitecoide. Ti ho dato tutto, nulla ho da rimproverarmi. Sin da quando eri un cucciolo quasi imberbe con quel musetto a noce di cocco.

Sempre desiderato avere una scimmia per casa. Quante volte l’avrò scritto nella letterina annuale a Papà Natale, ma mamma niente, non ne voleva sapere. Diceva che le scimmie sporcano, non son fatte per stare dentro una casa civile. Avesse visto come mi hai ridotto il salotto buono stamattina, povera mamma, con la carta da parati imbrattata di materia cerebrale e la moquette color pulce impregnata di sangue e muco, con brandelli di carne sgocciolante un po’ ovunque, avrebbe avuto tutte le ragioni a pronunciare la fatidica frase: “Te l’avevo detto!”.

Ho sempre avuto occhi pieni di ammirazione per le grandi scimmie antropomorfe, fin da piccino. Le ho sempre viste come una nostra versione più brutale e sincera, se afferrate quel che voglio dire. Da adolescente, mentre i miei coetanei si scambiavano i filmini porno su vhs, io mi sparavo a sfinimento Il pianeta delle scimmie, la vecchia versione, quella con Charlton Heston, tutte le volte che potevo.

Appena ho avuto le disponibilità e la sufficiente autonomia, ho ordinata una scimmietta tutta mia. Sono andato a ritirarla in quel negozio di animali specializzato in bestie esotiche tra la Sesta e l’Ottava Avenue. Che festa quel giorno! E per tutti i quindici anni successivi. Formavamo coppia fissa, io e te. Chi mi invitava da qualche parte sapeva già in anticipo che ci sarei arrivato con un buffo primate al mio fianco.

Non mi sono mai considerato il tuo padrone. Più un amico. O forse, qualcosina di più… Ti ho fatto provare tutto ciò che rientrava nelle mie possibilità. Ricordi quando ti portai ospite da Oprah e tu, in diretta nazionale, davanti a quaranta milioni di bravi cittadini americani, le saltasti addosso, le strappasti il reggitette e cominciasti a mordicchiarle i capezzoli turgidi, titillandoli con la tua lingua rasposa? Ricordi come se la ghignava quella grassa vacca? O quella volta che facemmo quella tre-giorni di sperimentazione drogacea selvaggia nel sottoscala di quel portoricano e tu ti sballasti a tal punto che ti ritrovarono a masturbarti nei cessi pubblici per signore a Central Park? Anche lì te la cavasti con qualche strillo e, alla fine, un fiume di risate bonarie.

Diventavi automaticamente la mascotte di chiunque avesse a che fare con te. Io vivevo di luce riflessa. Eri tu la star. Io tutt’al più venivo visto come l’accompagnatore, un’incombenza necessaria ma trascurabile. E così mi hai ripagato?

Mentre tu continui a girellartela chissà come, eccomi qua, costretto qua dentro, come una badilata di carne macinata su due gambe, gettata in una corsia d’ospedale. Sepolto nel buio assoluto, come quello spiscioso astronauta cantato da Bowie. E non perché abbiano abbassato le luci per farmi riposare in santa pace. Pure se mi puntassero contro un faro da sala operatoria continuerei a galleggiare dentro queste tenebre merdose, dentro questo vuoto cosmico almeno quanto sono vuoti i miei cavi oculari. Due buche da golf da cui ancora penzolano i minuti fasci dei nervi ottici. Non ho neanche più il naso, se è per questo. Al suo posto mi è rimasto un moncherino, che devono aver ricucito alla bell’e meglio, e che ora mi prude dannatamente, ma intanto non me lo posso neanche grattare, visto che sono sfornito anche delle mani, dal polso ingiù. Due avambracci mozzati, che scricchiolano in maniera sinistra, tutte le volte che provo a muoverli. Al posto della bocca invece m’è rimasto un orifizio dentato, senza labbra, senza più la lingua all’interno della cavità orale. Giusto un pertugio slabbrato, in cui vorrei tanto che proprio in questo momento qualche mano pia ficcasse un joint farcito per bene, tanto per stordirmi come sconfinfera a me.

Solo ieri si andava d’amore e d’accordo. Siamo andati in quegli studios, ricordi? Per girare quello spot pubblicitario per i cereali George’s corns, che riproducevano la tua faccina stilizzata in centinaia di copie multicolori per scatola. Tutto è filato sul velluto, come sempre. Dovevi startene davanti alla telecamera vestito da marinaretto, non ho capito bene perché, a sgranocchiarti la scodella piena sino all’orlo di cereali e fiocchi d’avena a galleggio nel latte che ti avevano piazzato davanti. Sul finale, dovevi limitarti ad alzare insù il tuo pollice opponibile e scoprire le gengive a favore di obiettivo in quella tua personalissima versione di un sorriso ammiccante. Tutto bene, buona la prima. Del resto, sei un talento nato, te lo ripetono tutti. Finito di girare, hai assillato per un’ora buona la segretaria di edizione, schiccherandole addosso i cereali con la tua faccia sopra e versandole il latte in testa, mentre tentavi di frugarle sotto la gonnellina a fiori. Si sganasciavano tutti, pure lei, seppure con una risatina un tantino tirata. Dopo di che, ti sei fiondato sul buffet messo a disposizione della troupe, con un piede nel piatto dei salatini e il pisciolo messo a mollo dentro la caraffa della sangria, mentre con le mani libere ti strafogavi di tartine al salmone e vol-au-vent alla crema di formaggio. Le maestranze sembravano divertirsi, anche quando ti sei scolato contemporaneamente due bottiglie di champagne californiano, formato magnum, e dopo hai iniziato a batterti il petto ritto sopra il tavolo, sebbene poi non abbiano toccato cibo. Alla fine ci siamo messi sulla via di casa, sembravi felice e sereno, anche quando ti sei sporto oltre il sedile del conducente e, all’improvviso, hai agguantato il volante del taxi e hai cominciato a sterzare da una parte e dell’altra per fare lo spiritoso e il tassista aveva l’aria di spassarsela, pur cercando di evitare che, in quello zigzag vertiginoso, la macchina sbandasse contro le file di macchine parcheggiate da un lato e dall’altro della carreggiata.

Ci siamo coricati nel nostro lettone a forma di cuore, con le lenzuola d’organza gialle fresche di bucato, come tutte le sere. Dunque, perché? Il mattino dopo, al risveglio, il nostro mondo si è capovolto, tutto d’un colpo. Ero lì, in cucina, a prepararti la solita prima colazione a base di banana split, con il succo d’acero sopra, che ti piace tanto. Mi sono girato col vassoio in mano per portartela lì, alla tua poltrona, su cui ami affondare le tue chiappe ossute per tutta la mattinata, aspirando i tuoi sigari Cohiba con le gambe allungate sul tavolino in cristallo, mentre scanali sui programmi del mattino, il telecomando in una mano, il ballon colmo di armagnac nell’altra. Invece no, non stavi là. Quando mi sono voltato ho fatto appena in tempo a vederti mentre spiccavi il volo dallo schienale della poltrona. Mi sei arrivato addosso come un bolide. Mi hai travolto con i tuoi novanta chili di peso, tutti messi su in questi anni a botte di filetto e caviale beluga pagati dalle mie tasche. Già solo per quell’impatto, mi hai fatto sbattere violentemente l’occipite contro lo scaffale basso, quello con i tuoi origami implotonatici sopra, quasi tutti a forma di organo sessuale. L’urto è stato annunciato da uno schiocco sordo. Sono scivolato sul pavimento, lasciandomi dietro una lunga scia rossa che percorreva la parete intonacata di un allegro color ocra giù fino al battiscopa, ma quello non era che l’inizio.

Mi hai strappato di mano il vassoio in bachelite e me lo hai sfondato in testa, spaccandomi il cuoio capelluto. Ho incominciato a pisciare sangue a fontanella dalla radice dei capelli giù, giù. Mi colava negli occhi, mi entrava in bocca, riempiendomela di quel viscoso sapore di ferro, mi ha inzaccherato l’intera faccia, agglutinandosi alla pelle, una volta che il sangue si è raggrumato, come una di quelle maschere di bellezza al collagene gusto banana che adoravi leccarmi via prima di addormentarti con una massiccia dose di Roipnol mista a borboun in corpo. Vedevo tutto attraverso quel filtro rosso, anche te, mentre mi scatenavi addosso la potenza che contiene quel paio di braccia a prolunga che ti ritrovi, equivalente a sei volte la forza di un uomo adulto.

Per prima cosa, mentre ancora ti potevo guardare, mi hai tolto dalla testa il cappello color canarino con il cucuzzolo a punta e lo hai sbrindellato sotto i denti, in segno di sommo spregio. Sapevi quanto ci tenessi. Ma tutto questo non ti è bastato. Mi hai strappato gli occhi dalle orbite, prima uno poi l’altro, succhiandomeli via come due uova di quaglia à la coque, con le labbra allungate in avanti, come quando si bacia. Ho ancora quel pauroso risucchio nelle orecchie o, meglio, in quello che mi rimane di esse, visto che poi hai pensato bene di staccarmi entrambi i padiglioni auricolari con un morso netto per uno. Li hai masticati per bene, come fossero la cartilagine del pollo, poi li hai sputati via, lontano. Hai appoggiato la tua bocca gommosa sulla mia, mi hai preso la lingua in mezzo al chiostro dei tuoi denti robusti e hai tirato all’indietro, con tutta la forza, cavandola via a partire dall’epiglottide, tale e quale a quegli esemplari vaccini esposti nelle vetrine delle macellerie, in attesa di una massaia in vena di bollito. Fiotti di sangue mi zampillavano dalla bocca, sincronizzati con le fasi sistoliche, mentre tu ti accanivi sul mio massiccio facciale, rosicchiandomi le guance. Le hai scavate sino all’osso, poi sei passato ad addentare anche tutte le altre parti molli attaccate al cranio che trovavi.

Non riuscivo neppure più a urlare. Il mio era più un lugubre gargarismo. Tu invece non facevi che squittire, con quella tua voce acuta e femminea, oltre a percuoterti il petto in segno di trionfo.

Che c’era che non t’andava più? Vorrei tanto che mi potessi rispondere. Eri forse stanco delle mie… attenzioni? A-ah, bello mio, a questo mondo tutto si paga. Dico, nel nostro mondo civilizzato. Non siamo mica nella foresta del Borneo o in mezzo alla savana, sai? È ora che tu te lo ficchi in quella tua testaccia selvatica.

Ho anche provato a difendermi quel minimo, portando per istinto le mani alla faccia: me le hai tranciate come fossero le appendici dell’omino di pan di zenzero che ti sfornavo ogni santo Natale.

Sono stati i vicini a chiamare la polizia, allertati dal trambusto che proveniva dal nostro appartamento. Quando gli agenti hanno fatto irruzione, tu te ne stavi nascosto dietro la porta, appiattito contro una risega. Sei volato addosso a un poliziotto, gli hai sfilato la pistola dalla fondina, hai sparato a lui e al collega e sei smammato via, chissà per dove. Ti avevano insegnato a sparare quelli della NRA, a suo tempo, quando ti avevano ingaggiato come testimonial.

Il mio unico passatempo qua dentro, tra un’operazione di chirurgia plastica e l’altra, è ascoltare il battito del mio cuore rimbalzato con regolarità dall’elettrocardiogramma: pim, pim, pim, pim. A un certo punto però subentra un altro rumore, di fondo. È in avvicinamento. Sono dei passi felpati. A piedi nudi. Passi di… scimmia!

Sento la maniglia che gira. Uno squittio beffardo. Sei venuto a finire l’opera? Sicuramente non avrai resistito: prima di raggiungermi, ti sarai infilato un camice da dottore appeso nell’atrio, che, nel suo candore, ti invitava a un’irresistibile cleptomania. Chissà quante matte risate avrai suscitato nello staff ospedaliero che hai incontrato lungo il corridoio.

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