Mi ricorderò di te, di Mary South

Ogni volta che l’ufficio stampa di Pidgin mi scrive per propormi in lettura una delle sue produzioni mi si riempie il cuore di gioia. E non esagero. Ogni volta che apro uno di quei mondi di carta messi in giro da una delle realtà editoriali più interessanti della nostra nazione non vengo deluso. È successo con Il libro di X di Sarah Rose Etter ed è successo anche questa volta con l’antologia di racconti Mi ricorderò di te di Mary South. Pidgin edizioni infatti, oltre a pubblicare libri sopra le righe, estremi, di autori sia italiani che stranieri – e questo già dovrebbe essere sufficiente per il lettore novocarnista – ha anche un’atteggiamento ben preciso all’interno del panorama editoriale, che come molti sappiamo, è spesso inquinato da fattori che con la letteratura c’entrano poco e niente (e non sto parlando di qualità, ma di politica vera e propria, anche se viene fatta tra le bancarelle di una fiera realmente indipendente e non in Parlamento).

D’accordo, basta con i pistolotti e parliamo del libro. L’autrice, statunitense, ha pubblicato su diverse riviste americane e con questa antologia si è imposta alla critica oltreoceano che conta. L’antologia contiene dieci racconti che spaziano dal what if di matrice blackmirroriana a visioni di ballardiana memoria annaffiate con l’acqua (acida) della nostra società post-capitalistica. La tecnologia, internet, i rapporti sociali disgregati, la vecchiaia, l’arte, il disagio interiore, le relazioni a pezzi, sono solo alcuni dei temi affrontati e che i personaggi si trovano a vivere all’interno di narrazioni dallo stile ironico e sottile, che però allo stesso tempo non risulta mai stucchevole o troppo ammiccante.

In Keith Prime si parla di cloni, come dicevo, alla Black Mirror, con tanto di sospensione dell’incredulità e domande irrisolte sull’umano. Ne L’età dell’amore, racconto dalle tinte meno fantascientifiche, un operatore di una RSA inizia a registrare le chiamate che gli ospiti della struttura fanno alla linea erotica, non sapendo che quello che era un scherzo arriverà a compromettere la sua relazione. I successivi Domande frequenti sulla tua craniotomia e Architettura per mostri, credo i miei preferiti della raccolta, riprendono alcuni temi cari a certa letteratura post-moderna, giocando con termini e questioni mediche (il primo) e artistiche (il secondo), con un’apparente freddezza che non riesce a non invadere prepotentemente la dimensione individuale. Anche Per salvare l’Universo… e L’ostello promesso affondano nel metagenere del post-moderno, il primo giocando e portando alle estreme conseguenze il concetto di fandom, il secondo con le sue situazioni e relazioni grottesche. Mi ricorderò di te e Campeggio Giabervocco… affrontano in maniera più diretta la questione di quanto Internet consumi dall’interno le nostre relazioni ma allo stesso tempo fornisca nuove opportunità di connessione; oscilliamo quindi dalla disgegazione personale dovuta ai social network alla “cura” della malattia da trolling. Chiudono la raccolta una sorta di weird story da paradiso gentrificato (L’agente immobiliare dei dannati) e un romantico quanto sconvolgente dramma familiare (Non è Setsuko).

Ci tengo poi a fare i complimenti al lavoro certosino dell’editore, Stefano Pirone, che ha curato sia la traduzione, che l’impaginazione, confezionando un vero e proprio gioiello della parola.

Un capolavoro? Vi risponderò con una storia. Qualche mese fa ho partecipato a un incontro sull’editoria e gli argomenti erano: quanti libri di producono, quanti se ne vendono, i problemi della distribuzione in Italia, ecc. Il relatore ci ha aperto gli occhi su quanto siano diffusi i pregiudizi su quanto si legge e quanto si vende, ma al di là dei numeri, una frase mi ha colpito: al giorno d’oggi tutti parlano di capolavori, al fine di pubblicizzare il proprio prodotto, ma questo modo di fare ha avuto, nel tempo, l’effetto di anestetizzare il pubblico con milioni di titoli “capolavoro” che vengono sfornati ogni minuto, e per questo lo stesso termine ha perso di significato e non indica più, o almeno non sempre, quello che letteralmente significa, ovvero un libro che dovrebbe finire sui libri di letteratura tra qualche decennio. Ed ecco la mia riposta alla domanda che facevo. Mi ricorderò di te mi ha colpito molto, molto di più di tante altre cose che ho letto quest’anno, delle nuove proposte, italiane e straniere, è sicuramente la migliore in assoluto, e che Mary South abbia la stoffa per scrivere un capolavoro, questo sì, posso affermarlo senza dubbio, perché questa antologia, se non in cima alla piramide della perfezione letteraria (almeno secondo i miei gusti) allora si trova appena appena sotto.

Fanta-Scienza 2, a cura di Marco Passarello

Quando Marco Passarello mi ha proposto di recensire Fanta-Scienza 2, secondo volume antologico da lui curato e edito da Delos Digital, non ho avuto un momento di esitazione. Ho parlato del suo primo esperimento anni fa, con entusiasmo e curiosità, reputando il risultato ben curato e davvero interessante non solo dal punto di vista narrativo, ma anche e soprattutto per la volontà di connessione tra il genere fantastico e l’attuale ricerca in campo scientifico e devo dire che il raddoppio non è stato da meno, anzi, a mio parere possiede una marcia in più.

Marco Passarello, per chi non lo conoscesse, vive e lavora a Bolzano come redattore della TGR RAI. È ingegnere aeronautico ed è stato redattore delle riviste di informatica Computer Idea e ComputerBild. Ha collaborato col settimanale scientifico Nòva 24 de Il Sole – 24 Ore e con la rivista Urania Mondadori. Ha curato una rubrica di fantascienza per il mensile XL, e si è occupato di musica e libri per Rolling Stone e Repubblica Sera. Insieme alla moglie Silvia Castoldi ha tradotto diversi romanzi, tra cui la serie Virga di Karl Schroeder per i tipi di Zona 42. Ha pubblicato numerosi racconti di fantascienza su riviste, fanzine e antologie.

La formula dell’antologia è la stessa: Marco ha intervistato diversi studiosi dell’Istituto Italiano di Tecnologia a proposito della loro ricerca, cercando di far emergere le questioni più spinose e speculative; poi ha girato le singole interviste ad altrettanti autori di fantascienza italiani, perché producessero un racconto ispirato ai loro percorsi di studio. Unica eccezione: in questo volume appare un nome straniero, nume tutelare del cyberpunk nonché ispiratore di visioni psichedeliche sempre vivaci: Bruce Sterling. Lo scrittore americano pare essere stato proprio la scintilla che ha convinto il curatore a lanciarsi nel progetto del secondo volume. Infatti nell’introduzione del libro, parlando di ciò che lo ha spinto a creare questo “sequel”, Marco confessa: “Credo che il motivo principale sia un piccolo episodio che dimenticai di citare nell’introduzione del libro precedente. Avevo raccontato che il germe dell’idea mi venne scrivendo per Repubblica Sera un articolo su Hyeroglyph, antologia curata da Neal Stephenson e basata su un’analoga collaborazione tra scienziati e scrittori. Avevo raccolto le opinioni in merito da parte di vari autori fantascientifici italiani e stranieri. Tra le più positive c’era quella di Bruce Sterling, che aveva firmato uno dei racconti inclusi in Hyeroglyph, e che mi disse: ‘Spero che altre istituzioni vedano la saggezza di questo sforzo e lo seguano. Se ci provasse un’università italiana, sarei il primo a festeggiare’. Fu proprio questa sua risposta che mi stimolò a chiedermi: chi in Italia potrebbe appoggiare la realizzazione di un’idea simile? Inizialmente mi dissi: nessuno! Ma qualche tempo dopo entrai in contatto con l’Istituto Italiano di Tecnologia, dove invece trovai un terreno fertilissimo per la realizzazione di Fanta-Scienza. Ma non è finita: dopo la pubblicazione del libro, mi venne l’idea di inviarne una copia a Sterling per ringraziarlo dell’ispirazione che mi aveva dato. Con mia sorpresa, lui ne fu davvero entusiasta e, quando poco tempo dopo lo incontrai di persona in occasione di Lucca Comics, mi disse: ‘Se ne farai un secondo volume, voglio esserci!’”

Ma al di là della presenza di un gigante come Sterling, ho avuto l’impressione che l’intero volume risulti stilisticamente e contenutisticamente più curato rispetto al precedente. E non parlo necessariamente della qualità dei racconti, che comunque a mio parere è molto alta, quanto della capacità di aver trovato temi talmente peculiari, specialistici ma allo stesso tempo estremamente multidisciplinari, che inevitabilmente, come origine delle storie, ne hanno a cascata migliorato l’originalità. E di certo, il fatto di essere una seconda esperienza avrà permesso al curatore di seguire una strada già in qualche modo tracciata.

Emerge come, anche in campi come quello della robotica o dello sviluppo dell’intelligenza artificiale (solo per citarne un paio tra i maggiormente classici per la fantascienza), i progressi scientifici reali ottenuti in questi anni abbiano portato a una maturità del paradigma davvero futuribile. Basti pensare alla consapevolezza che emerge dalle parole dei ricercatori riguardo al concetto di cooperazione uomo-macchina, o anche semplicemente al grado di raffinatezza sensoriale necessaria per ottenere un determinato risultato, una raffinatezza che permette non solo di interagire e costruire fuori dall’umano ma anche di conoscere meglio l’umano stesso, di dare meno per scontate le nostre capacità innate. Questa spinta nasce, sostiene il curatore, dall’“intersezione tra tecnologia e scienze umane” che permette di allargare l’orizzonte della scienza cosiddetta “dura” reinserendola in un ambiente allargato che coinvolge l’intera sfera delle nostre esistenze.

Non farò l’elenco degli autori né degli scienziati che hanno collaborato (potete trovare facilmente l’indice online), né decreterò un mio podio personale, sarebbe antipatico, oltreché inutile per l’obiettivo dell’antologia e di questa recensione. Come in tutti i volumi collettanei ci sono racconti (ma anche articoli, perché no) che vi piaceranno di più e che vi piaceranno di meno, ma quello che qui troverete è un arricchimento dei temi della speculative fiction che abbiano delle radici nell’attuale sviluppo tecnologico, in modo da avere una sorta di testo bicefalo dove l’avanguardia scientifica è riletta e reinterpretata, in tempo reale, da professionisti della narrazione fantastica, che ne faranno emergere, a modo loro, visioni epifaniche e oscure criticità.

Il verso dell’assiolo, di Davide Pappalardo

Ho già parlato di Davide Pappalardo su Wired, ben tre anni fa, in occasione dell’uscita del suo romanzo Che fine ha fatto Sandra Poggi?, e già allora avevo tessuto le lodi di Davide, narratore efficace e tagliente che si riconferma fine descrittore di psicologie e di trame ingarbugliate con questo suo Il verso dell’assiolo, romanzo quantitativamente più consistente del suo predecessore, pubblicato sempre da Pendragon, nella collana gLam, diretta da Gianluca Morozzi e Alessandro Berselli.

Davide Pappalardo è un autore siciliano, classe 1976 e ha altri due romanzi alle spalle, Milano Pastis del 2015 e il noir Buonasera (signorina) dell’anno successivo, nonché un’antologia di racconti, La versione di Mitridate.

La trama di questo nuovo romanzo è presto detta: tre amici d’infanzia partono dalla Sicilia per celebrare l’addio al celibato di uno dei tre, nel nord est d’Italia. Tre uomini che da adulti sembrano volersi ritrovare a tutti i costi, quasi fosse un’imposizione, una tradizione obbligata, eppure le criticità tra i loro rapporti non tarderanno a rendersi palesi, soprattutto a seguito di un evento che per forza di cose li sconvolgerà. Durante la serata, i tre faranno bisboccia in un pub, indossando una maschera di Trump e dando fondo alla loro goliardia non mancando di farsi notare dalla gente del posto. Nello stesso momento altri tre individui, tre criminali, tra cui il parroco della chiesa, scardineranno un bancomat uccidendo una guardia giurata che li ha colti in flagrante.

Il pretesto è lanciato, la miccia accesa, e il lettore, a questo punto, pensa già di sapere cosa gli aspetta: indagini e inseguimenti da parte della polizia, scambi di persona, confessioni, magari altre sparatorie… ma le cose non andranno così, non in questa maniera almeno. L’autore infatti dà vita a un ulteriore colpo di scena (che non svelo) che farà passare in secondo piano la casualità del travestimento e darò alla fuga dei tre amici – perché una fuga ci sarà, addirittura in Slovenia – un’altra causa, ben più grave. Inoltre nella storia non manca occasione per scavare nella psiche dei personaggi, nei loro rapporti intricati, portando a galla tutti i dissapori, i non detti, e i contrasti che hanno le loro radici in un passato più o meno oscuro. Compagni di una vita che sembrano esserlo solo di facciata, stretti da uno strano legame che non può essere sciolto, in un continuo andirivieni di flashback della loro giovinezza, la maggior parte dei quali ambientati durante l’alluvione di Acireale del 1995.

Il verso dell’assiolo si configura quindi come un romanzo più maturo, sebbene il suo predecessore sia assolutamente degno di nota. Qui però Davide sembra lasciare un attimo da parte le dinamiche poliziesche, riducendole all’essenziale per lo svolgimento della narrazione, e si concentra, sin dalle prime pagine, sul rapporto tra i tre amici coinvolti per sbaglio, per pura fatalità, in un crimine. Un errore che diventa la scintilla che fa saltare in aria relazioni (anche extra amicali) assolutamente precarie (e spesso ipocrite), e un crimine che si configura paradossalmente come una possibilità, una chiave per interpretare finalmente i loro desideri.

Una scintilla, o meglio ancora un piccolo urto tra le nubi, che può causare un temporale devastante, un disastro meteorologico come quello degli anni Novanta, metafora della distruzione di un legame che si credeva (ma si credeva solamente) indissolubile.

L’età illegittima, di Federico Vercellone

In pieno periodo di propaganda elettorale Raffaello Cortina Editore dà alle stampe un saggio estetico-politico dallo spessore filosofico non indifferente, L’età illegittima, estetica e politica di Federico Vercellone, con la pretesa, probabilmente, di alzare un pochino il livello dello scontro a cui tutti noi abbiamo assistito in questi ultimi giorni, nonché del bombardamento mediatico (e memetico) che ne ha fatto da contorno.

Federico Vercellone è docente di Estetica all’Università di Torino e le sue idee si allineano con quelle della tradizione ermeneutica europea. Nei suoi scritti ha dato una notevole interpretazione, sia filologica che teoretica, della corrente del nichilismo e, più di recente, ha sviluppato un’interessante riflessione sul rapporto tra modernità e coscienza estetica, indagando il nuovo radicamento simbolico del nostro tempo, che si manifesta, oggi, sia con forme espressive più “alte” sia in quelle più low, dal tatuaggio al cibo.

In questo suo saggio, Vercellone si preoccupa di ricostruire il percorso storico e filologico di un preciso concetto teologico-politico, quello del Catechon biblico, e di rileggerlo in chiave estetico-politica attuale. Ovviamente Vercellone fa i conti con i suoi colleghi che hanno già affrontato la nozione sotto questa luce (Schmitt su tutti, ma anche Cacciari e Agamben) e cerca di declinarlo all’interno di tutto un sistema simbolico ed estetico della contemporaneità.

La costruzione del saggio di Vercellone è semplice e segue quasi un andamento cronologico. L’autore parte dalla Seconda Lettera ai Tessalonicesi di San Paolo nella quale viene definito per la prima volta il Catechon, in un contesto escatologico, per indicare il potere che tiene a freno l’avanzata dell’Anticristo prima dell’apocalisse finale e della parusia di Cristo, fino ad arrivare all’analisi politica di Schmitt, e di quelli che si inseriscono nel tracciato del politologo tedesco e a superarla nella descrizione ermeneutica ed estetica del contesto politico e sociale attuale.

Se la costruzione del saggio è semplice, però, non sempre il testo è di immediata intuizione, soprattutto per chi potrebbe non avere gli strumenti adeguati alla comprensione di alcuni termini, non solo filosofici ma anche prettamente tecnici di filosofia estetica. Tuttavia Vercellone non dà nulla per scontato e, coadiuvato dai suoi illustri interlocutori, riesce in qualche modo a mantenere attiva la lettura, anche nei passaggi più ostici. In particolare ho trovato interessante il modo in cui l’autore sia riuscito a far dialogare una visione teoretica complessa della modernità e proprio a causa di questa sua caratteristica non sempre di facile interpretazione con le forme di espressione estetica più “basse” non in senso dispregiativo, ma intese come quelle più diffuse all’interno della società di massa.

Ho trovato interessante la parte in cui l’autore mette sotto le sue lenti il kitsch, una specifica categoria estetica che, seppur nel suo “cattivo gusto”, riverbera una certa potenza politica, che da una parte fa in un certo senso da collante simbolico della società capitalistica occidentale, creando territori concettuali comuni, riconoscibili e in qualche modo confortanti, dall’altro, proprio nella sua lontananza dalla struttura messianica schmittianamente intesa, può dare luogo a politiche illegittime.

“Il meccanismo messianico è del tutto interno all’identità laica del potere occidentale, alle sue strutture di significato. Si può addirittura aggiungere che, in assenza di messianismo, non si danno politiche legittime, e che il potere legittimo è sempre un potere messianico. Su queste basi la crisi attuale trova motivazioni che consentono di meglio identificarla, di comprendere il desolato panorama popolato da laicismi rozzi e senza memoria e da populismi alla lettera criminali perché privi di ogni legittimità. Il mondo globalizzato l’universo dei non luoghi di Marc Augé, che ci immergono nella vertigine della dispersione e dell’anonimato ha, come si è visto, un’intensa inclinazione per il kitsch, per il ritrovamento facile della patria consueta, per far di noi degli Odisseo che ritornano a Itaca senza dover affrontare lunghi viaggi. È la questione dell’autoriconoscimento, è la dialettica dell’identità perduta e riconquistata […] quella proposta dal kitsch, che prova a rinnovare sotto spoglie domestiche la relazione con il fondamento invisibile proposta dal katechon.”

Il testo di Vercellone è dunque profondo e multidisciplinare e tocca una vastità di argomenti da rendere impossibile darne conto in poche battute. Un testo per molti versi complesso e, ovviamente e forse proprio per questo, stimolante soprattutto per chi è stanco di doversi sorbire un dibattito politico, parlo di quello italiano, ma credo si possa estendere al globale, che ha fatto ormai da decenni del piattume la sua bandiera.

Il Dizionario del Diavolo, di Ambrose Bierce

Mondadori finalmente ripropone, nella sua prestigiosa collana Oscar Draghi, un’opera fondamentale di un autore ottocentesco che non dovrebbe mancare sugli scaffali di ogni buon novocarnista. Un autore, Ambrose Bierce, da posizionare tra i molto più considerati Poe e Lovecraft, ma che a questi ha davvero poco da invidiare.

Bierce nasce nella prima metà del XIX secolo e muore nel 1914 in modo del tutto misterioso. L’anno prima, infatti, ormai ultrasettantenne, parte come corrispondente per il Messico per seguire la guerra civile di Pancho Villa ed Emiliano Zapata. Durante la battaglia di Ojinaga, Bierce scompare. Una teoria sostiene sia stato fucilato contro il muro del cimitero di Sierra Mojada dagli uomini di Villa. Secondo un’altra versione, lo scrittore non sarebbe sopravvissuto alle ferite riportate nella battaglia. Altri, infine, propendono per il suicidio. Ma il decesso è solo l’apice di una vita dedicata al giornalismo, alla narrativa, alla parola in generale.

Caratteristico dello stile di Bierce è l’atteggiamento satirico. Testimone ne è proprio questo Dizionario del diavolo (solo la prima parte del volume), una raccolta alfabetica di lemmi dalle definizioni ironiche e sarcastiche, spesso al limite del dissidente. Un modo di fare, questo, che, come affermano gli autori della bellissima introduzione, Franco Pezzini e Massimo Scorsone, gli causerà diverse antipatie nell’ambiente giornalistico e non solo, nonostante Bierce non fosse una persona scorbutica e difficile da frequentare. Non a caso infatti, specificano Pezzini e Scorsone, “la ferocia di Bierce è tutta tesa a far cadere maschere, finzioni scandalose, ipocrisie: il suo Satana è quello del Libro di Giobbe, pubblico ministero alla corte di Dio, e in effetti l’uomo Bierce ha un proprio ruvido, indignato senso di giustizia che anima sottotesto l’operazione lessicografica.”

Qualche esempio del tono cinico dei lemmi del Dizionario:

“ABITUDINE (habit), s.f. Manette per uomini liberi.

ANNO (year), s.m. Periodo di tempo formato da trecentosessantacinque delusioni.

IDIOTA (idiot), s.m. Membro d’una grande e potente tribù che ha sempre esercitato un dominio assoluto sulle vicende umane. L’attività dell’idiota non si limita a uno specifico campo di pensiero o d’azione, ma “pervade e regola il tutto”. Ha sempre l’ultima parola; inappellabile è la sua decisione. È arbitro della moda, delle opinioni e del gusto, stabilisce i limiti del discorso e delinea i confini della condotta.

SANTO (saint), s.m. Peccatore morto, riveduto e corretto […]”

E si potrebbe andare avanti per molto…

Tutt’altro che progressista e democratico, dunque, Bierce mal sopportava le avanguardie letterarie, privilegiando lo stile al contenuto di una storia, che, inoltre, avrebbe dato i suoi frutti migliori nella sua forma breve. Completano infatti questo volume alcune raccolte antologiche di racconti che spaziano dalla narrativa di guerra (la cui maniera influenzerà successori altrettanto illustri come Hemingway e Crane) alle più note ghost stories.

In un’ideale top 5 inserirei sicuramente: Uno degli scomparsi, le brevi vicissitudini di un soldato posto difronte al suo stesso fucile; L’uomo e il serpente, emblematica situazione in cui quello che vediamo non sempre corrisponde alla realtà; La scienza in primo piano, che rimanda a spazi non-euclidei proto-lovecraftiani che permetterebbero l’esistenza di singolarità extradimensionali; Una conflagrazione imperfetta, in cui le competenze affabulatorie dello scrittore continuano a illudere il lettore e a catapultarlo in strutture ricorsive di contenuto e forma; e infine, forse il mio preferito, Il padrone di Moxon, racconto fantascientifico che anticipa le visioni lisergiche di un certo Philip Dick.

Un esempio per tutti estratto proprio da quest’ultimo:

“Perché non potrebbe senza affermare ciò che vorrebbe negare, ovverosia una collaborazione intelligente fra gli elementi costitutivi dei cristalli. Quando i soldati formano le linee o i quadrati, lei la chiama ragione. Quando gli stormi d’oche selvatiche in volo disegnano una V, lei parla d’istinto. Quando però gli atomi omogenei d’un minerale, muovendosi liberi in una soluzione, compongono forme geometriche perfette, o le particelle d’umidità ghiacciata le meravigliose strutture simmetriche dei fiocchi di neve, lei non ha nulla da dire. Non ha nemmeno inventato un nome per nascondere la sua eroica irrazionalità.”

Ma limitarsi a cinque titoli significa svilire notevolmente il volume, ricco di dettagli e particolarissime storie, che, finalmente tradotte nella nostra lingua (da Michele Piumini e Maria Grazia Bosetti), rendono giustizia a un autore altamente sfaccettato come Bierce. Come giustamente sostengono i curatori, fino a questo momento, in Italia, “le antologie circolanti […] hanno sottolineato molto un colore fantastico che in Bierce rappresenta però solo una delle tinte d’affresco, né forse la principale. Più corretto sarebbe parlare di macabro, non tanto nel senso di un Grand Guignol più o meno coevo all’ultima produzione di Bierce, o di certo horror di fumetti e di pulp che a lui si ispireranno spesso”, quanto un macabro inteso come “un precipitato di storia americana: storia civile e incivile, potremmo dire, oltre che religiosa, spiritismo compreso, in una sovversione cinica e nichilistica che rende il sottofondo persino più truce degli orrori dipinti”. E a noi che il macabro piace, non possiamo farci sfuggire questo balenottero di quasi settecento pagine.

Iain Banks, La fabbrica degli orrori (Fanucci, 2022)

Il male, per quanto violento, profondo, banale, insensato possa essere, ha sempre delle radici, un’origine, una causa. E per quanto giustificare atti efferati e crudeli non sia auspicabile in una civiltà civile, è sempre desiderabile prevenire determinati atti non stancandosi mai di comprenderli, perché spesso indice di un disagio assoluto, e frutti, a loro volta, di altra crudeltà. Insomma, sarà banale, ma spesso chi è cattivo è perché è costretto a esserlo, dalle circostanze, dall’ambiente, dalla vita. Chi è carnefice quasi sempre è stato, in primissima battuta, vittima.
Queste, nel bene e nel male, le riflessioni che La fabbrica degli orrori, di Iain Banks, credo abbia l’intento di far emergere, al di là delle vicende narrate che già per se stesse svolgono un ottimo intrattenimento. Ma un libro non dovrebbe limitarsi solo a questo, vero? La fabbrica degli orrori è un romanzo semplice e potente come la lama di un coltello ben affilato, che non ti lascia alcun istante per respirare, che ti prende per mano e ti costringe a tenere gli occhi ben aperti su un tipo di orrore che, per quanto apparentemente alieno alla nostra quotidianità, non possiamo evitare di sentire vicino.
Il protagonista, l’adolescente Frank, è un ragazzo sui generis, dagli interessi particolari, schivo, asociale (se non per un amico nano), che vive da solo con il padre e si dedica a strani rituali mistici fatti di sacrifici animali, venerazioni territoriali e così via. Si intravede, dietro alla descrizione dei comportamenti rituali del ragazzo, una simbologia brutale che nasconde il desiderio di riappropriarsi di un’esistenza che è consapevolmente ai limiti, della società e delle consuetudini, in una sorta di rilettura del reale e degli eventi che lo costituiscono.
Il motore della storia è la fuga del fratellastro maggiore Eric da un centro di igiene mentale. La cosa turba il minuscolo nucleo familiare (formato solo da Frank, dal padre vedovo e da una governante che si palesa solo per un giorno a settimana), e in particolare il giovane Frank che riceve, quasi ogni sera, una chiamata dal fratello pazzo. Sebbene neanche Frank sia tanto dritto di testa, la figura di Eric aleggia come un’ombra e induce il protagonista a portare avanti tutta una serie di pratiche tra il voodo e lo scaramantico al fine di interpretare le intenzioni del fratello, quasi a volerne predire le mosse, e lo costringe a rivangare il passato e gli omicidi che sin da piccolo Frank a perpetrato a danno di alcuni familiari.
La descrizione degli orrori non segue un’escalation, ma viaggia sempre su una soglia piuttosto alta di disturbo. Sin dal principio del romanzo il lettore si trova a dover empatizzare con quello che è a tutti gli effetti un giovane sociopatico e sanguinario, che segue uno schema magico che esiste solo nella sua testa, e anche dai flashback, narrati come il resto del testo in prima persona, si evince che quella di Frank è una vera e propria sete di violenza. Ingiustificabile, esecrabile, assolutamente, se non fosse per il disvelamento finale che, come dicevamo all’inizio, fornisce al lettore una chiave interpretativa con la quale rileggere il romanzo e ricavarne un’idea totalmente diversa; un finale quanto il più lontano possibile da tutti quelli che, durante la lettura, ci si sarebbe potuti aspettare.
Fanucci riporta in libreria questa perla scura degli anni ’80 in un’edizione curata e godibile; opera di un autore rinomato soprattutto per romanzi di fantascienza (arcinoto è il suo Ciclo della Cultura) ma che è riuscito, in duecento pagine, a creare quello che sarebbe diventato un classico dell’horror grottesco.