Iain Banks, La fabbrica degli orrori (Fanucci, 2022)

Il male, per quanto violento, profondo, banale, insensato possa essere, ha sempre delle radici, un’origine, una causa. E per quanto giustificare atti efferati e crudeli non sia auspicabile in una civiltà civile, è sempre desiderabile prevenire determinati atti non stancandosi mai di comprenderli, perché spesso indice di un disagio assoluto, e frutti, a loro volta, di altra crudeltà. Insomma, sarà banale, ma spesso chi è cattivo è perché è costretto a esserlo, dalle circostanze, dall’ambiente, dalla vita. Chi è carnefice quasi sempre è stato, in primissima battuta, vittima.
Queste, nel bene e nel male, le riflessioni che La fabbrica degli orrori, di Iain Banks, credo abbia l’intento di far emergere, al di là delle vicende narrate che già per se stesse svolgono un ottimo intrattenimento. Ma un libro non dovrebbe limitarsi solo a questo, vero? La fabbrica degli orrori è un romanzo semplice e potente come la lama di un coltello ben affilato, che non ti lascia alcun istante per respirare, che ti prende per mano e ti costringe a tenere gli occhi ben aperti su un tipo di orrore che, per quanto apparentemente alieno alla nostra quotidianità, non possiamo evitare di sentire vicino.
Il protagonista, l’adolescente Frank, è un ragazzo sui generis, dagli interessi particolari, schivo, asociale (se non per un amico nano), che vive da solo con il padre e si dedica a strani rituali mistici fatti di sacrifici animali, venerazioni territoriali e così via. Si intravede, dietro alla descrizione dei comportamenti rituali del ragazzo, una simbologia brutale che nasconde il desiderio di riappropriarsi di un’esistenza che è consapevolmente ai limiti, della società e delle consuetudini, in una sorta di rilettura del reale e degli eventi che lo costituiscono.
Il motore della storia è la fuga del fratellastro maggiore Eric da un centro di igiene mentale. La cosa turba il minuscolo nucleo familiare (formato solo da Frank, dal padre vedovo e da una governante che si palesa solo per un giorno a settimana), e in particolare il giovane Frank che riceve, quasi ogni sera, una chiamata dal fratello pazzo. Sebbene neanche Frank sia tanto dritto di testa, la figura di Eric aleggia come un’ombra e induce il protagonista a portare avanti tutta una serie di pratiche tra il voodo e lo scaramantico al fine di interpretare le intenzioni del fratello, quasi a volerne predire le mosse, e lo costringe a rivangare il passato e gli omicidi che sin da piccolo Frank a perpetrato a danno di alcuni familiari.
La descrizione degli orrori non segue un’escalation, ma viaggia sempre su una soglia piuttosto alta di disturbo. Sin dal principio del romanzo il lettore si trova a dover empatizzare con quello che è a tutti gli effetti un giovane sociopatico e sanguinario, che segue uno schema magico che esiste solo nella sua testa, e anche dai flashback, narrati come il resto del testo in prima persona, si evince che quella di Frank è una vera e propria sete di violenza. Ingiustificabile, esecrabile, assolutamente, se non fosse per il disvelamento finale che, come dicevamo all’inizio, fornisce al lettore una chiave interpretativa con la quale rileggere il romanzo e ricavarne un’idea totalmente diversa; un finale quanto il più lontano possibile da tutti quelli che, durante la lettura, ci si sarebbe potuti aspettare.
Fanucci riporta in libreria questa perla scura degli anni ’80 in un’edizione curata e godibile; opera di un autore rinomato soprattutto per romanzi di fantascienza (arcinoto è il suo Ciclo della Cultura) ma che è riuscito, in duecento pagine, a creare quello che sarebbe diventato un classico dell’horror grottesco.

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