Il nuovo sesso: transumanesimo e kink nel mondo infetto di “Crimes of the future”

Mutazioni organiche, transumanesimo, sessualità alternative e somatizzazione corporea di un mondo sintetico e infetto.

Questi i primi appunti che ho buttato giù per descrivere in poche parole le folgorazioni che vengono messe in scena nell’ultimo film di David Cronenberg, “Crimes of the future”.
Strutturato come una summa radicale di tutti i principali filoni di sperimentazione del maestro del body horror, il film sembra infatti voler rimarcare i concetti-chiave, le epifanie e le mutazioni legate alla “nuova carne”, optando per uno stile molto cerebrale e forse poco “a favore dello spettatore”. La scelta di intersecare citazioni delle pellicole cult della carriera del regista, a numerosi riferimenti culturali e filosofici sottotraccia, probabilmente ha reso “Crimes of the future” un gioiellino più per feticisti della “materia” (nel senso letterale del termine), che un prodotto mainstream. In quest’ottica, il film è molto denso di suggestioni visive, stratificazioni e rimandi concettuali e politici che si rivelano estremamente contemporanei, ma non sempre facili da cogliere. Questa impalcatura sofisticata penalizza un approfondimento di trama che lo avrebbe, invece, reso più appannaggio del grande pubblico, tant’è che la maggior parte delle critiche si sono concentrate sulla sensazione di essere stati davanti a un pilot, piuttosto che a un film autoconclusivo e appagante.

Tuttavia, la peculiarità di prodotto non-finito (rafforzata anche da un finale aperto all’interpretazione), non inficia lo spessore di una prova in cui Cronenberg scava a fondo (questa volta sul serio) al futuro della nostra specie, al di là del mero esercizio stilistico e con un’incisività disarmante.
E sono proprio le incisioni ad essere il piatto forte di “Crimes of the future”, ambientato in un futuro imprecisato dove le conseguenze dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici hanno portato il corpo degli esseri umani a innescare continue mutazioni. In questo contesto, l’ex-chirurga Caprice (Léa Seydoux) e il suo partner/artista Saul Tenser (Viggo Mortensen) realizzano delle performance artistiche di rimozione chirurgica dei nuovi organi sviluppati da Saul, affetto dalla Sindrome da Evoluzione Accelerata. Ciò avviene attraverso il modulo autoptico Sark, che altro non è che un dispositivo biomeccanico in origine deputato alle autopsie e, successivamente, hackerato per consentire questo tipo di performance della carne.

In un approccio del tutto simile a quello della Body Art, Caprice costruisce una messa in scena brutale dell’osceno, volta a mostrare le metamorfosi interiori di Tenser e arricchita dal suo tocco artistico, che prevede il controllo a distanza dei bisturi con un pod biomorfo, per utilizzarli come se fossero dei pennelli e tatuare i nuovi organi prima di rimuoverli.
Se a un primo momento sembrerebbe di assistere a un semplice intervento operatorio in salsa artistica, man mano che il film scorre, ci rendiamo conto che in realtà all’atto dell’incisione e della manipolazione corporea corrisponde anche un profondo godimento erotico del praticante e del ricevente, che è visibile anche quando l’oscenità delle interiora di Tenser viene data in pasto allo sguardo eccitato del pubblico presente in sala durante le performance.
Cronenberg, infatti, propone uno scenario dove le operazioni chirurgiche sono il nuovo modo di fare sesso dell’umanità del futuro, che travalica ogni confine morale per godere.

Se come è vero, la sessualità in quanto costrutto sociale andrebbe sempre interpretata situandola nel contesto in cui viene pensata, performata, fruita e discussa, non meraviglia che nel mondo infetto proposto da Cronenberg, i desideri e le relazioni tra gli esseri umani somatizzino le trame malate di una società che, oramai anestetizzata davanti al dolore, non segue più i tradizionali impulsi biologici, ma vede l’eccitamento erotico coincidere con lo smantellamento (piuttosto che con l’unione) dei corpi.
In opposizione alla repulsione, la nuova bellezza sta, infatti, proprio nelle interiora: la chirurgia in futuro non è più impiegata per assecondare un desiderio di abbellimento e di scolpirsi in senso canonico. Piuttosto, vìola il corpo per rompere il dogma della sua immutabilità, cancellando ogni stereotipo di bellezza per oscillare tra “defigurazione e rifigurazione”, proprio come avveniva nell’Arte Carnale della celebre performance artist francese ORLAN.
Il rimando alla corrente della Body Art è palese in tutto il film, anche attraverso l’apparizione di Klinek, un artista che viene ritratto mentre danza su note industriali e conturbanti (siglate dal compositore canadese Howard Shore) e che si agita in maniera plastica con un corpo innestato da diverse orecchie, parossistico rimando alle sperimentazioni dell’australiano Stelarc (si veda, a tal proposito, la sua performance Ear on arm).

Soprattutto, colpisce il contrasto che il film genera con un mondo presente, proponendo un completo ribaltamento dell’iperconnessione tecnologica e dislocata che attualmente viviamo e che è stata amplificata anche a seguito della pandemia: in “Crimes of the future”, infatti, la ricostruzione di un’unità erotica tecnologicamente mediata in cui i corpi non si toccano, non ha nulla a che vedere con il cybersesso. L’atto non è disperso nel cyberspazio, ma è incarnato, situato e localizzato in un luogo fisico in cui il bisturi diventa il sex toy con cui stimolare e stimolarsi per raggiungere il piacere, anche con un tocco voyeuristico.
Tuttavia, per quanto ci siano rimandi al tema delle autopsie, quanto vediamo mostra una carne che pulsa e che ci investe di una sensualità mista al trauma violento, al compiacimento del terrifico, e che somiglia quasi a un rito apotropaico.
In questa maniera, non più legato agli organi riproduttivi, il desiderio può trovare illimitato potenziale di esprimersi in qualsiasi parte del corpo, deputando a zone erogene anche quelle parti non comunemente caricate di connotazioni erotiche, così come accade nelle fantasie feticiste e come Caprice ci mostra nello stimolare oralmente la zip installata sull’addome di Tenser.

Il corpo diventa, infatti, un ready-made che produce nuove categorie estetiche innescando un principio dialettico di defamiliarizzazione e spaesamento, desiderio morboso ed eccitazione. Assecondando modi alternativi di “essere dentro”, così i corpi si prestano ad essere penetrati in pratiche dove la frontiera tra interno ed esterno, contenitore e contenuto, primitivo e civilizzato, è messa in tensione, quando non rovesciata.
Questa perturbante dualità fa sì che la bellezza del corpo nudo di Caprice, quando si concede alla manipolazione di Tenser nell’unico episodio in cui assistiamo ad un’inversione dei ruoli, non può esser più comparata a quella di una Venere botticelliana da ammirare a distanza, quasi fosse un’entità divina e astratta.
La bellezza di Caprice, al contrario, è carnale e terrena proprio perché non reprime l’orrore, ma lo fa esplodere nella tensione pulsionale e desiderante del corpo trafitto. È la bellezza di una Venere anatomica come quelle che produceva Clemente Susini a fine Settecento: un’effige che si desidera toccare e con la quale si instaura un gioco lugubre e perverso, che pone al centro la verità anatomica, piuttosto che il canone ideale.
Nel mondo infetto di Cronenberg, per venerare Venere non ha più alcun senso ammirarla da lontano: adesso bisogna aprirla, letteralmente.

Citando ORLAN, in un passaggio intenso del suo Manifesto dell’Arte Carnale:
«Posso vedere il mio proprio corpo aperto senza soffrire! Posso guardarmi fin dentro le mie interiora, un nuovo stato del guardare. Posso vedere il cuore del mio amante e il suo splendido disegno non ha niente a che vedere con sdolcinatezze simboliche. Cara, amo la tua milza, amo il tuo fegato, adoro il tuo pancreas e la linea del tuo femore mi eccita». ORLAN – Percezione in “L’Arte carnale – Un Manifesto”, 1989.

L’estremismo grottesco degli spettacoli di Body Art di Caprice e Tenser attira l’attenzione di due investigatori del Registro Nazionale degli Organi (Wippet e Timlin, quest’ultima interpretata da Kristen Stewart) e di un gruppo sovversivo guidato da Lang Dotrice.
La trama politica in questo caso è molto elaborata, seppur non spiegata in maniera estesa, perché con questo incrocio di personaggi attorno al duo di artisti, il regista punta a sottolineare come la mutazione della carne e della specie umana siano anche – e soprattutto – una questione biopolitica. Infatti, le organizzazioni di potere (come la New Vice Unit), le istituzioni (il Registro Nazionale degli Organi) e le multinazionali mirano a controllare le popolazioni proprio attraverso il monitoraggio e la disciplina dei loro corpi. Basti pensare alla company LifeFormWare, che produce letti e sedie biomeccaniche che, come uteri artificiali, si innestano su chi sviluppa nuovi organi come Tenser e sono provvisti di software che consentono di anticipare e regolare ogni esigenza corporea.

Dalla parte diametralmente opposta, si collocano Lang Dotrice e i suoi supporters che, dichiarandosi contro questa forma di dominio governativo sulla carne, mirano a portare l’umanità al prossimo stadio evolutivo, assecondando queste mutazioni genetiche come qualcosa di “naturale”, per quanto questa nozione sia oramai decostruita.
Sta proprio qui il vero salto concettuale che vuole incorporare Cronenberg nel suo immaginario: allontanandosi dal potenziamento tecnofilo del transumanesimo più puro, che mira a trascendere i limiti umani con innesti biotecnologici, la trama strizza l’occhio a una prospettiva postumana, dove, anziché associare alla tecnologia una condizione super-umana che amplifica il bias cognitivo nei confronti delle altre specie, si spinge verso una evoluzione “naturale nella sua innaturalità” del corpo postorganico. Nello sviluppare organi che gli consentono di ricevere nutrimento sintetico a base di plastica e scarti tecnologici, il corpo, infatti, manifesta uno spirito di adattamento radicale alle severe condizioni di inquinamento ambientale, diventando emblema di un “accoppiamento strutturale” con l’ambiente circostante (Matura & Varela 2001) e accorciando le distanze con quel mondo non-umano da cui antropocentricamente sembrava essersi emancipato.

Del resto, «Il corpo è la realtà», come ci ricorda Cronenberg, è il luogo per eccellenza in cui convergono sia l’essenza della nostra presenza corporea, sia la dimensione sociale e culturale delle mutazioni generate dal contesto ambientale.
Tuttavia, l’essere umano non vuole decentrarsi dalla sua posizione di superiorità, per cui la possibilità di sviluppare un apparato digerente in grado di assimilare gli scarti viene vista come un paradosso che genera deformità e difformità dalla norma. Abbracciare questo punto di vista, infatti, significherebbe far saltare non solo l’umano come ideale, ma anche l’ideale di umano, che diventano simboli di un passato superato, a favore di un’ecologia più “dark” che pone in un rapporto di coesistenza e contaminazione con l’essere umano anche le sostanze tossiche che l’umanità stessa ha prodotto.

Viene da sé comprendere come questo rappresenterebbe un’alternativa troppo anarchica al desiderio biopolitico di soggiogare i corpi e costringerli ad un’evoluzione controllata. Ed ecco perché investigatori, politici e multinazionali si alleano per contrastare questa tendenza sovversiva, arrivando a sabotare l’ultima performance pubblica di Caprice e Tenser, che sarebbe stata rivelatrice della validità della causa di Dotrice.
Lo stesso Tenser, che all’inizio si pone in linea con l’agenda “ufficiale” asportando e donando i nuovi organi che produce, verso il termine del film comprende l’inganno in cui è stato intrappolato: le performance di cui si rende protagonista sono, infatti, solo un modo per negare la spinta vitale della propria interiorità corporea, relegando allo stadio di “rimosso” tutto ciò che lo porterebbe, invece, ad abbracciare un cambiamento viscerale.
In questa chiave, pur nella loro visionarietà scenografica, le performance di Caprice e Tenser non hanno nulla di sovversivo in uno spettacolo artistico che vorrebbe farsi portavoce di una provocazione anti-estetica.
Ma ecco che, finalmente, arriva la tanto attesa epifania che ci porta al finale di “Crimes of the future”. Mentre Tenser è sempre più agonizzante nei confronti del suo stato di sviluppo di masse cancerogene, tanto da essere impossibilitato e disgustato nel deglutire cibo biologico, Caprice, in un ultimo atto di complicità, gli propone di assaggiare un cibo nuovo: una barretta sintetica a base di plastica che era stata loro donata da Dotrice.
È proprio questo il momento in cui la vera rivoluzione artistica della coppia di body artist si concretizza, ossia quando ci regalano un’ultima performance molto intima, in cui Tenser addenta la barretta sintetica e, ripreso da Caprice, finalmente si affranca dal dolore e si abbandona, commosso, a quella Sindrome da Evoluzione Accelerata che tanto aveva rifiutato e combattuto.

Ancora una volta, quindi, la soluzione sembrerebbe risiedere nell’assecondare ed abbracciare il nuovo stadio evoluzionistico dell’essere umano, come occasione di rigerazione e coesistenza con le nuove “creature mostre” (Haraway, 2019).

Ancora una volta, non ci resta che urlare “Gloria e vita alla nuova carne!”.

Buona, perversa, evoluzione della carne a tutti noi.

Bibliografia minima e sitografia

Donna Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriate, DeriveApprodi, 2019

Donna Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli Editore, 2018

Georges Bataille, L’erotismo, SE, 2020

Georges Didi-Huberman, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Abscondita, 2014

Gilles Deleuze & Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Giulio Einaudi Editore, 2002

Gilles Deleuze & Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, 2017

Humberto R. Maturana & Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, 2001

Leonardo Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, 2017

Rosi Braidotti, The Posthuman, Polity Press, 2013

Selenia Marinelli, “Ibridi dalla fine del mondo”, in Alessandro Melis (a cura di). ZombieCity. Strategie urbane di sopravvivenza agli zombie e alla crisi climatica, D Editore, 2020

Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016

 

http://stelarc.org/?catID=20242

https://www.orlan.eu/bibliography/carnal-art/

https://www.ilpost.it/2017/09/08/venere-anatomica-libro/

Il cinema russo di Elem Klimov: Idi i smotri (Va’ e vedi)

Siamo abituati ai film di guerra come pellicole dove l’esaltazione degli eventi bellici fa quasi sempre da sfondo a vicende personali, storie di personaggi singoli o di gruppi che affrontano situazioni esasperanti per arrivare al classico finale dove ogni cosa sembra tornare al proprio posto, il bene trionfa inevitabilmente sul male e, nei casi in cui ciò non avviene, si viene lasciati con un epilogo dolceamaro che si abbandona comunque a una conclusione pregna di speranza. Idi i Smotri, noto in Italia come Va’ e vedi, non ha nulla di tutto ciò.
Pellicola sovietica basata su un romanzo poco conosciuto degli anni ’70, vede la luce nel 1985 sotto la direzione di Elem Klimov dopo una gestazione non facile. Il regista, nato e cresciuto nella famosa città di Stalingrado e vittima egli stesso degli eventi del secondo conflitto mondiale sul fronte orientale, era già stato più volte oggetto della censura nelle sue opere precedenti, ma riuscì nel mantenerne la forma che si era brutalmente preposto nonostante le accuse di eccessivo realismo rivolte dal Goskino, il Comitato Statale per la Cinematografia. Il risultato è stato fenomenale. In meno di un anno dall’approvazione della sceneggiatura, Klimov riuscì a partorire la migliore delle sue opere e l’unica, probabilmente, che si è assicurata un posto di pregio anche all’estero.


Siamo nella Bielorussia sovietica del 1943. Il giovane Fliora, poco più che un ragazzino, infervorato dalla retorica partigiana contro l’occupazione tedesca, decide di procurarsi un’arma per potersi unire alla milizia locale. Lo fa scavando a mani nude in una trincea abbandonata nonostante i richiami dell’anziano del villaggio che non vuole che la cosa possa attirare le attenzioni degli occupanti nazisti. Procuratasi l’arma, finalmente Fliora può arruolarsi tra i partigiani, ma le cose non sono come sembrano; contrariamente a quanto si aspettava, il giovane verrà impiegato per mansioni umili e la sua attenzione sarà solamente rivolta ad una giovane infermiera, Glasha, che sembra ricambiarlo. Un improvviso bombardamento segnerà la loro fuga e il tentativo del ragazzo di tornare nel suo villaggio che però troverà deserto. Ormai allo sbando nella campagna devastata dalla guerra, i due finiscono separati e Fliora riesce a raggiungere un altro villaggio proprio nel momento in cui questi viene occupato da un’unità militare nazista composta da collaborazionisti russi e membri della Waffen-SS. La loro presenza non è casuale in quanto i soldati sono sul posto per rastrellare gli ignari abitanti e farne strage per poi darsi alla fuga. Solo per caso il protagonista riesce a scamparla e a riunirsi con il suo gruppo partigiano che, nel frattempo, ha ingaggiato i responsabili del massacro e li ha messi in rotta catturandone alcuni. Il film si conclude con Fliora che, traumatizzato fino al midollo dalle atrocità di cui è stato spettatore, ridotto a vittima stordita e straniante degli eventi, non può che seguire la marcia dei suoi commilitoni verso un destino prestabilito di lotte e altre atrocità.


La narrazione procede in un percorso che rapidamente sfocia nello stordimento. L’esperienza del protagonista non ha alcuna valenza patriottica o pedagogica, ma è un flusso drammatico di volti segnati e deturpati, di vasti ambienti tagliati dalla nebbia e dai segni della guerra, senza risparmiare una certa carnografia fatta di corpi nudi ammucchiati dopo esecuzioni sommarie, uomini bruciati e vacche mitragliate. Nell’insieme, pochi e simbolici sono i dialoghi perché in questa pellicola è l’intera vicenda a prendere parola con i fischi alle orecchie prodotti dalla deflagrazione delle bombe e la bizzarra colonna sonora che comprende parti strumentali a pezzi famosi di musica classica e musica popolare russa che vanno da Strauss alla Korobeiniki. I personaggi secondari sono mostrati con dettagli impietosi: i partigiani sono uomini gretti, tagliati con il coltello ma scompostamente gioiosi quando esibiti nelle occupazioni più disparate che vanno dal girare con un fantoccio di Hitler, decorato con un teschio umano ostentato come trofeo, fino al radunarsi disordinatamente per una foto di gruppo tra i boschi; analogamente i nazisti, sempre citati ma mai presenti nella prima ora del film, appaiono poi brutalmente dediti alla razzia e al genocidio, con i collaborazionisti che, forse volutamente, vengono mostrati ben più barbarici degli stessi tedeschi quando si trovano a dover scegliere quale ragazza risparmiare per destinarla allo stupro di gruppo che la lascerà grondante sangue e catatonica o quando devono incendiare la chiesa dove chiudono a forza gli abitanti del villaggio per destinarli all’olocausto.

La mano di Klimov procede con fare dantesco e asettico nel portare Fliora verso la dannazione brutalista della maturità di chi si avvicina al gioco della guerra con l’incoscienza quasi fiabesca della gioventù sognando glorie che poi finiscono vomitate lontano da una mise-en-scène disorientante formata da squallore umano e frenesia assassina.
“Idi i Smotri” ebbe un certo successo in una nazione che cominciava a conoscere gli effetti della perestrojka e vinse il primo premio al Festival Internazionale del Cinema di Mosca nel 1985. Abbastanza sconosciuto all’estero al grande pubblico, il film ha ritrovato una sua vitalità con la versione restaurata che è stata presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2017 dove ha ottenuto un ulteriore riconoscimento. Singolarmente, Klimov, venuto a mancare nell’ottobre del 2003, non girò nessuna altra pellicola dopo questa, affermando di aver perso interesse nel cinema.
Qualche curiosità finale. La scena dell’attacco nazista al villaggio è ispirata ai crimini commessi dalla famigerata unità di Oskar Dirlewanger, che si macchiò di simili delitti proprio durante le sue operazioni anti-partigiane in Bielorussia. L’attore che interpretava Fliora, allora quattordicenne, fu preparato al ruolo ricorrendo a un ipnoterapista e al rilassamento mediante training autogeno per evitare, a dire del regista, che quell’esperienza lo traumatizzasse per davvero.

L’arte senza il mondo – Le inquadrature di Too Old To Die Young come finestre affacciate sulla demondificazione

4. Sullo schermo divampa l’inquadratura centrale del quarto episodio di Too Old To Die Young, punto apicale, deja-vu epifanico. Uno scenario, quello che segue, che reclama densità crescente anche per via della scena che lo precede: l’ennesimo viaggio in auto in cui la parola è lasciata ai talk radiofonici, dai quali suppurano americanissimi flussi di coscienza paranoici e telefonici. Affacciati a uno svincolo ballardiano solcato da innumerevoli scie di lampade allo xeno rappresentanti la civiltà postmoderna, il personaggio con un occhio solo recita a beneficio del personaggio inespressivo che pronuncia ogni sua battuta affogandola in una mostarda di silenzio apneico e oppiaceo, il monologo cruciale, quello sul significato esistenziale ultimo, quello sulla demondificazione.


L’immagine indugia sull’orrore tecnologico, il testo è un mantra, un vangelo memetico del postumano. I droni sulle basse frequenze della colonna sonora di Cliff Martinez imperversano a ricordarci che tutta l’ansia crescente, nonostante le apparenze, è da questo lato dello schermo, non dall’altro. Di là non c’è ansia, visto che di là non esiste empatia. “Un tempo c’era l’uomo e la natura” — “Le città che abbiamo costruito presto saranno spazzate via dalle inondazioni, sepolte nella sabbia, incenerite”. Serve dire altro? La recitazione rasenta il punto di non ritorno – e siamo nel momento più denso da quattro ore – l’impossibile grado zero della scala fahreneith, il quarto stato materico ricreato per frazioni di secondi sulla stazione spaziale internazionale, il coma autoindotto della fine delle necessità comunicative.

Tutto è meta. Gli attori sono meme inespressivi utili a inscenare qualunque dramma si voglia sovrapporre alla scena. Scorrono schermi nello schermo, impossibile non cercare di scorgere quale sia il film programmato nello schermo all’interno dello schermo, come il volto di Marilyn ne “la mostra delle atrocità”, tutto assume il peso del segno, diventa il meta-volto di meta-Marilyn che travalica la consequenzialità, viaggiando in entrambi i versi dello spaziotempo. Così come. Fuori dallo schermo. Dalla finestra del mio seminterrato irrompono suoni di autocarri, cori ubriachi (meta-tifosi che si esprimono nei loro meta-idiomi anche se estrapolati dal meta-contesto cui si riferiscono), sibili di meta-automobili e ronzii di meta-condizionatori che traballano a preludere la prossima imminente isola di calore antropogenica.
L’unidirezionalità è compromessa, il “fuori” sta entrando nel film. Problema lineare: come godere a pieno di un’opera fatta di silenzi in una stanza del centro di una capitale europea estremamente rumorosa? Problema al quadrato: chi ha l’ha realizzata ha previsto che i destinatari di questo streaming, la maggioranza, sarebbero stati in questa identica condizione? Problema al cubo: ogni scelta artistica è di per sé un messaggio, laddove anche la selezione naturale della propria audience è in se stessa un messaggio? Hic est Pitagora. Qui c’è l’occulto, il nascosto, il non-visibile che riempie i vuoti. Entrate a vostro rischio e pericolo. Superate la prova. Meritatevi il messaggio. Forse non fa per voi. Andate in pace. Problema all’ipercubo: anche se non fosse nella volontà dell’artista dare un determinato messaggio con la sua opera, posso trarmi in errore speculando sui significati che da questo oggetto scaturiscono? In altri termini, con un esempio più semplice: potrei mai scindere l’impressione che ho nel 2020 guardando un’opera del passato depurandola dei significati che questo oggetto ha assunto nel corso degli anni per fattori esterni malgrado la volontà del suo artefice? E posso similmente fingere di non sentire che anche il futuro su cui sono accelerato sta premendo su tutto questo? L’arte vive in sé, malgrado il suo autore, nonostante i suoi genitori. Il marmo dell’antica Grecia è bianco per noi, era colorato per i contemporanei, così, per noi, il bianco è diventato un simbolo della classicità, i segni che sono sopravvissuti fino a noi si sono sporcati delle civiltà e delle contemporaneità che hanno attraversato nei millenni, allo stesso modo dei fossili passati attraverso il fango e le pietre e i movimenti tettonici e le eruzioni vulcaniche, le opere contemporanee sono destinate, nel migliore dei casi, a trapassare ogni contingenza in forma di profezie che includono tanto il passato quanto il futuro più remoto. È complicato. È postmoderno. Iperstiziale. La civiltà postmoderna è una Rivoluzione Calda, così Nick Land. Stesso problema con un altro Refn, Valhalla Rising interrotto a metà mio malgrado quando diventava tutto rosso e i bisbigli venivano sovrastati persino dal suono della rotazione terrestre, dal vento nella mia stanza, dai passi dei microrganismi sulle superfici, del fruscio dei globuli bianchi nelle mie vene.

Voci lontane, sempre presenti (Così Davies nel 1988, io avevo dodici anni e nella sala buia del cinema non capivo come fare a evitare di pensare a “qualcosa”: problema dei silenzi e delle pause). ((Problema del cinema muto)). (((Fruizione del muto in epoca del muto vs. Fruizione della stessa in epoca del sonoro))). ((((Fruizione dell’opera nell’epoca della sala cinematografica vs fruizione della stessa in epoca dello streaming)))). In Punto Omega di DeLillo viene proiettato il film Psycho rallentato quanto basta perché il tutto abbia una durata di 24 ore. In una sala non sempre vuota del museo, un personaggio contempla i fotogrammi interrogandosi sul senso di questa metamorfosi di dilatazione, al punto che l’opera rappresentata è al contempo la stessa ma è evidentemente mutata in qualcosa di diverso. C’è dello spazio tra un fotogramma e l’altro. Interstizi. Spazio e tempo. Quando l’arte è silenziosa e fredda e lenta c’è spazio. I suoi atomi semantici si respingono magneticamente, i vuoti che si espandono esigono di essere riempiti da meta-pensieri che vengono attirati all’interno dello schermo, per un fenomeno di condensa, ogni vuoto va riempito, il pensiero si condensa per entrare nello schermo. Anche tutto il caldo della civiltà in cui vivo vuole entrare nei vuoti dello schermo freddo. Qualcuno ha preso Pyramid Song dei Radiohead e l’ha dilatata al punto di farla durare ore. L’ascolto è un’esperienza simile. L’uomo ha ormai imparato a sfruttare i suoi stessi bias cognitivi per ricreare la magia dello stregone che strega se stesso, una meta-droga di autoindulgente deragliamento cosmico, non ci si può tirare indietro a questa stimolazione. Ipnosi auto-rigenerante.

Drone music, meditazione e contemplazione. Glitch music, arte strumentale creata con errori digitali derivati da cortocircuiti volontari. Strumenti usati in modo volutamente improprio. Pianoforte trattato con mollette di metallo sulle corde. Silenzio che evita la parola per lasciare lo spazio alla voce interiore. Perché altrimenti ripetere un carrello lento per tre volte consecutive, perché altalenare? Il dogma dice che non si torna indietro. Tornare indietro e quindi ancora avanti? Perché rallentare fino a rasentare la pinacoteca? La contemplazione artistica è l’unica via di uscita, così Schopenhauer. Non ho detto natura, ho detto arte. La natura è deprimente, in ogni sua forma, la realtà ci ricorda che la natura non esiste. Dove è finita la natura in Refn? Nelle rocce del deserto verniciate di rosso fluo. Nei neon. Nel verdissimo campo da calcio in mezzo alla polvere, innaturale. C’è solo una spiaggia in tutto il film, e quando arriva la scena della spiaggia non finisce bene. Dove è finita la natura in Ballard? Nei paesaggi spinali? Nelle giungle tossiche che galleggiano sui cumuli di rifiuti? Nel demondificato, o esiste solo la natura, oppure non esiste altro che l’umano e il suo insistere. Bias. Io ci sono. Sono in questo testo. Sarebbe disonesto fingere il contrario. Non posso esimermi dall’esistere. Sono desolato. Abbiamo bisogno di inventare un’ecologia senza la natura, così T. Morton, oppure possiamo godere della desertificazione intrinseca al nostro punto di vista. In un cinema “demondificato”, l’aggettivo è di M.Fisher, ripreso da Heiddeger, l’uomo non può vedere altro che la sua ombra proiettata sul disastro. Il futuro dirompe nel presente, la minaccia di una alterità che è già qui. L’assenza. Quello che dovrebbe esserci, ma che invece non c’è (più?). O quello che c’è, esattamente dove non dovrebbe esserci nulla (ancora noi? Ma non dovevamo non vederci più?). Avete provato la sensazione di trovarvi su una autostrada immersa nelle colline toscane, e di pensare che l’unico punto di vista accettabile è l’autostrada stessa, l’unico punto da cui l’autostrada non si vede?

1. Ci vuole una minorenne o una vergine, come in Blade Runner di Villeneuve, per ricordarci che la purezza risplende in modo sinistro in mezzo alle macerie che abbiamo creato. Una borghese immacolata o una miliardaria senza colpe e piena di soffio vitale per preludere allo schianto fuoricampo. Che sia brillante, che faccia male il pensiero di vederla disarticolata contro una superficie che sappiamo orribile e impietosa. Una incolpevole tra i bruti. Che chiuda lo stomaco. Di nuovo la natura. Il padre e la figlia, altro monologo reso devastante dai silenzi in cui è inserito. La famiglia denuclearizzata, laddove non c’è madre (non in questo piano, anche se è una ingombrantissima presenza sul piano del non-visibile), laddove il padre non è padre e la figlia diventa nucleo scisso e motore della fusione atomica che muove tutti. In un mondo demondificato una famiglia tradizionale evaporerebbe sotto ai raggi gamma radioattivi. L’unità di misura qui è l’asse degli sguardi, una retta biunivoca come il binario di un carrello che continua a tornare indietro, non c’è spazio per troppe trinità, ostacolerebbero il gioco. C’è chi crede di “andare nella natura” quando cammina nei boschi, ma nel presente accelerato, quella che conosciamo per esperienza diretta è natura nella misura in cui lo è la vasca di cemento per i trichechi nati nello zoo. L’acquario con lo scrigno di plastica e i coralli morti presi da un ecosistema a caso. Il set dei teletubbies con le colline verdi di plastica. Un tempo qui era tutto natura. Non un campo di grano, non un bosco coltivato per essere un bosco, ma il terrore. Il vuoto cosmico. La morte. La morte è natura, l’estinzione è natura. La natura è senza ossigeno. Oppure la natura è troppo ossigeno, tanto da ucciderti. Rasenta lo zero fahreneith. Non ci sono più boschi in cui fuggire come nei romanzi del ‘900. Non esiste più la frontiera come dimostrava già Danny Boyle, decadi fa, in “the Beach”. Non c’è spazio per le avventure di Jack London, non nell’ipermodernità. L’unico set possibile qui e ora è la città, la provincia, la cementificazione. Il parco acquatico deserto, di notte, illuminato di luce violetta e rosa elettrico. La demondificazione è ormai nei nostri occhi. È la nostra imminente estinzione. È un iperoggetto (T.Morton) di cui non si vedono i contorni per quanto ci sovrasta. Le sculture di Daniel Arsham, i fossili dell’ ipercontemporaneo. Arsham prende una Porshe e ne fa un fossile che ha attraversato eoni nelle pietre laviche. I suoi palloni da basket della Spalding contengono cristalli derivanti dal pleocene, li ha fatti tornare fin là, e poi di nuovo fin qua. Il tempo scorre come un iperstizione, nel senso che preferisce, deridendo il principio causale, deridendo la natura. Adidas sponsorizza i suoi giardini zen di sabbie blu elettrico, che vengono arati a beneficio del tempo che scorre. Il tempo stringe, comprati delle sneakers. La sabbia artificiale è quella di una clessidra grande quanto l’universo stesso. La multinazionale genera la griffe che si nutre dell’artista che si nutre di linguaggi sintetici che si nutrono di morte. Il cerchio si chiude. È tutto meta. Avanti il prossimo.

 

12. Demondificato è tutto ciò che non ha più nulla a che fare con gli ultimi strascichi del positivismo o della fiducia nel progresso. Il positivo è diventato prima banale, poi si è rivelato essere una promessa del tutto falsa. La digital art è la nuova arrivata, ma sembra che il cinema abbia ancora qualche tempo per fare la parte dell’ultimogenito della Famiglia Museale. Nato con un codice fatto di acidi ribonucleici sequenziati in modo che fosse già una bomba a orologeria durante gli anni di una singola vita: John Wayne o, se volete, John Ford. Il classico è buoni contro cattivi, il moderno è che il cattivo ha i suoi motivi. Il postmoderno è che non ha importanza, siamo tutti cattivi. L’ipermoderno è che il tempo scorre in entrambi i sensi e tutti hanno seri problemi con la propria madre. Siamo tutti cattivi dalla nascita. La responsabilità di un feto è questa: di essere già nella squadra sbagliata, quella che si chiederà a sua volta: chi ha ucciso il mondo? Come in Mad Max – Fury Road. Come api che svolazzano sui fiori, ci diciamo che è così bello vivere per qualche minuto in un mondo così esotico, così “poco da ape”. Ma il mondo dei fiori non esisterebbe senza il mondo delle api. Intanto impolliniamo le nostre discariche di protesi artificiali con surrogati di neuroni di silicio estratti da miniere africane, lavorati da mani minorenni sottopagate facendo esattamente quello per cui siamo stati programmati, scindendo gli atomi, studiando le galassie e i buchi neri, prevaricando i deboli, riscrivendo la nostra stessa morale, moralizzando il nostro stesso dover-essere per dargli un sapore più bilanciato, per fingere che quell’enorme clessidra blu elettrico nel cielo non sia altro che il cielo stesso. Una cosa naturale. Quindi?

1. Quindi stiamo a contemplare il modo in cui i riflessi dei neon si muovono sulla carrozzeria di un’automobile di notte, i colori sono perfetti, i momenti sono perfetti, le riflessioni delle caustiche sono matematicamente prevedibili solo per una cpu che il nostro cervello non possiede, la drone music e la vaporwave fanno tutto il resto, serve altro? Serve tempo. Per pensare a questo. A livello subatomico la nostra mano non tocca mai la superficie delle cose. Sono campi magnetici invisibili, gli elettroni degli atomi della mia mano sfiorano gli elettroni degli atomi dei tasti su cui scrivo. Serve tempo. Anche per il parallasse, ecco qui: L’auto è immobile. L’autista è immobile. I neon sono immobili. La strada e il parcheggio sono immobili. Solo la macchina da presa si muove, e con lei, tutto il parallasse si muove. Così il mondo danza. Ma solo nei nostri occhi.
É l’occhio – il suo punto di vista in movimento – che lo fa danzare. Serve tempo. È l’occhio che demondifica il mondo, mentre il mondo è all’oscuro di questa operazione, inconsapevole di questo atteggiamento oculare, in attesa di non avere occhi addosso.
Questo fatto dipinge il tutto di un colore tragico, di cui abbiamo disperatamente bisogno.