L’amore non è palindromo

A non vuole essere considerata solo come un bel corpo, con un bel faccino da scopare. Dice che è una delle cose più deprimenti che deve affrontare ogni giorno. Perché la gente, si chiede, non riesce a capire che c’è altro oltre a un buco da riempire? Che dovrei fare per essere considerata più di un mero oggetto sessuale? A. va a scuola con B. che la mamma definisce un ragazzo sensibile. B. non è un brutto ragazzo, anche se lui si descriverebbe così. B. vede A. come un bel faccino da scopare, d’altronde è un bel faccino da scopare ma B. è anche innamorato di A., o almeno pensa di esserlo, anche se probabilmente è solo la combinazione di “bel faccino da scopare di A.” + “sensibilità di B.”. C. è stronzo. C. è bello e sembra poco sensibile, ma non sappiamo se è poco sensibile perché è bello o se è poco sensibile solo perché è stronzo. B. un giorno prende coraggio e si dichiara ad A. che gli risponde anche no e corre dalle sue amiche con il cuore di B. in mano lasciando a terra una lunga striscia di sangue. Poco dopo suona la campanella della ricreazione, C. entra in classe e dà una pacca sul sedere ad A. che gli urla qualcosa dietro ma poi sorride compiaciuta con le amiche. B. si convince ancora di più di essere brutto e che le donne siano tutte delle puttane e lo dice anche a sua mamma quando apre la porta del bagno e lo trova a piangere dentro la vasca. La mamma gli risponde che è vero, tutte le donne sono delle puttane, e poi lo stringe forte forte. A. pensa che C. sia bello ma è anche sempre stronzo con lei così si è convinta che, come tutti, la veda solo come una con un bel corpo e con un bel faccino da scopare. B. come dicevamo non è poi così brutto come pensa di essere e infatti D. ha una cotta per lui, ma non lo dice a nessuno, perché è grassa e pensa di non meritarselo. Anche B. pensa che sia grassa e infatti non la considera nemmeno per striscio nonostante sia un ragazzo sensibile e una volta abbia addirittura scritto nel suo diario segreto Chissà qual è il suono di un bacio non dato? Un giorno C., dopo una partita di calcio, si sta asciugando i capelli quando si accorge di non riuscire a smettere di guardare l’uccello di E. Ha come fame. E. se ne accorge e gli grida Cazzo guardi? C. comincia a soffrire per questa storia della fame che gli è venuta e più la reprime e più se ne vergogna. E più se ne vergogna e più va in giro a toccare il culo delle ragazze e a comportarsi come uno stronzo. E. un giorno riesce a convincere A. a uscire. Si presenta a casa sua con un mazzo di rose rosse e le fa mille complimenti per la sua bellezza, come se le dicesse che corpo che hai! E che bel faccino da scopare, ma lei in questo caso non se la prende, ne è addirittura lusingata, perché E. è bello e gentile. E infatti quella sera per premiarlo lei glielo prende in bocca (fare l’amore no, gli dice, è ancora presto) senza rendersi conto che si è appena fatta scopare il faccino. Nel preciso momento in cui E. riempiva la bocca di A. del suo liquido seminale, C. riempiva del suo un tubolare bianco che aveva sottratto di nascosto a E. durante l’allenamento, D. vomitava la sua cena dopo essersi ficcata due dita in gola provando per la prima volta piacere, mentre B. fumava di nascosto dietro casa la sua prima sigaretta. La prima di una lunga serie di sigarette post coito. Quello degli altri. Mentre fuma guarda il video che ha girato quel pomeriggio in cui si vede una tartaruga di terra che sta sopra a un’altra intenta a scappare. La tartaruga che è sopra allunga il collo nello sforza di riuscire a inserire, così immagina B., il suo piccolo pene sotto il guscio della femmina. A B. viene in mente l’immagine di due caschi da bicicletta che scopano, e sorride. La femmina continua a scappare e il maschio la insegue. La femmina va a destra e il maschio va a destra, la femmina va a sinistra e il maschio va a sinistra. Senza mai smettere di starle sopra. Il video dura diversi minuti durante i quali il maschio corre, cerca di stare in equilibrio sopra di lei e nel frattempo tenta di infilargli il pene sotto il guscio stando il più dritto possibile su due zampe. Fino a quando nell’inquadratura compare la scarpa di B. che si mette davanti alla femmina, interrompendo la sua fuga.

Premolare 35

Quella notte il dolore era diventato insopportabile.
Marzio ancora non riusciva a concepire cosa fosse accaduto improvvisamente al suo premolare numero 35 della semiarcata inferiore sinistra (aveva imparato la classificazione tecnica dei dentisti curiosando su internet).
Che ogni giorno degli ultimi sette, da quando quel maledetto dente aveva iniziato ad ammalarsi, si ripetesse catatonico che né i suoi nonni paterni e materni, né suo padre e sua madre e né lui per i suoi primi quarant’anni di vita avevano mai avuto una carie a quelle piccole ossa masticatorie non bastava a consolarlo, ma anzi lo rendeva ancora più incredulo e arrabbiato
Sarebbe anche passato sopra al fatto che a qualcuno della sua genia prima o poi fosse accaduta una cosa del genere e che fosse malauguratamente successo a lui non lo toccava poi tanto. Quello che gli era impossibile comprendere, con tutta la fantasia e l’immaginazione addizionabile alla sua razionalità, era l’evoluzione di quello che stava accadendo al suo povero dente in quel lasso brevissimo di tempo.
Una piccola macchia nera era comparsa sul premolare come primo sintomo, e l’aveva notata a causa di una sensazione di intenso brivido freddo provata mentre beveva un bicchiere d’acqua appena fresca di frigorifero, nulla di anormale. Era un punto scuro minuscolo con un lieve alone giallastro sulla corona esterna del dente, appena sopra il colletto gengivale. L’aspetto del premolare, a parte quel piccolo moschino immobile, era buono; lo smalto era brillante e luccicava ancora di bianco orgoglio sotto la luce led della mensola superiore dello specchio in bagno, dove Marzio lo stava ammirando scorato.
Il punto nero c’era però, maledetto e inaspettato.
Quel pomeriggio stesso, Marzio era stato tentato di cercare subito un dentista, ovvio, ma non ne conosceva nessuno e aveva il terrore di doversi rivolgere a un medico sconosciuto. Tali considerazioni tarparono le ali a quella risoluzione logica e consequenziale avviata in fieri contro quella macchia. Non si diceva del resto nei proverbi popolari che se un problema lo si affronta quando è ancora piccolo lo si può risolvere con minor danno e minor dolore? Sì, aveva convenuto Marzio. Ma aveva sentito proprio in quel momento salire dentro di sé un sottile e strisciante malessere provocato dall’ipotizzare quello che avrebbe trovato dal dentista. Cosa avrebbe provato quando l’ago della siringa per l’anestesia locale avesse violato le sue rosee e immacolate gengive? Avrebbe avuto una reazione nervosa incontrollabile al rumore del trapano al momento dell’accensione e dell’avvicinamento alla sua bocca? E infine sarebbe stato assalito da un senso di schifo, non motivato vista la sterilizzazione, per l’aspiratore salivare che chissà quanti puzzolenti aliti avevano violentato con i loro miasmi prima di lui?
Erano tutti pensieri che si accavallavano l’uno sull’altro per spingerlo nel baratro dell’inerzia e dell’angoscia. Aveva deciso di lasciar passare qualche giorno prima di affrontare di nuovo l’idea di prendere un appuntamento.
La mattina successiva alla scoperta della carie si era svegliato di cattivo umore. Non li ricordava, ma era certo di aver fatto brutti sogni, si era girato e rigirato più volte nel letto dormendo a scatti. Quando la sveglia elettronica aveva trillato alle sei e trenta era nella terra di nessuno di un dormiveglia inquieto. Sua moglie Vanna era accanto a lui e ronfava della grossa; lei aveva minimizzato la cosa dopo che Marzio l’aveva edotta della novità e con il suo usuale pragmatismo gli aveva detto: «Chiama quel cazzo di dentista prima che la situazione peggiori». Aveva infilato le ciabatte e si era diretto in bagno per pisciare. La lingua gli sembrava un corpo morto marcito da giorni, allappava secca e maleodorante.
La lingua batte dove il dente duole.
Certo, aveva pensato Marzio mentre allocava il suo pezzaccio rosso di carne pendula sulla corona malata del premolare, durante la notte la lingua doveva essersi spennellata ben bene chissà quante volte sul dente, assorbendo quel saporaccio di patate fradice che evidentemente i patogeni sprigionavano.
Aveva affrontato lo specchio del bagno stavolta con timore, come se avesse già colto un vago presagio di cattive notizie.
Aveva trattenuto a stento un urlo.
La macchia si era allargata, irradiandosi su metà della corona dentale esterna. Il nero della carie trascolorava verso il marrone e il giallo ocra alla periferia del suo nuovo lotto di avorio conquistato; l’area infetta sembrava pulsare di vita propria esponendola ai riflessi della luce sotto varie angolazioni, aveva guadagnato una proporzione incredibile di superficie rispetto a poche ore prima!
Il generale Custer muove in ritirata sulla collina, il nemico avanza, minaccia l’accerchiamento, urgono decisioni urgenti o sarà una carneficina.
Marzio, immaginando la battaglia di Little Bighorn come triste metafora della situazione del suo premolare, aveva richiuso la bocca avvilito. Era uscito dal bagno, aveva fatto colazione. Non provava un dolore eccessivo, sempre il solito fastidio ai caldi e ai freddi. Un accordo con la vigliaccheria stava montando dentro di lui ed era pronto per essere siglato, lui che nella sua vita non lo era mai stato.
«Lasciamolo stare. Non posso credere a quello che ho visto. Sto vivendo un’allucinazione, sì è così… magari tra poco mi sveglio e tutto è passato… e se non succede non me ne frega un cazzo, non posso accettare che un mio dente si stia comportando così.» si era detto mormorando tra sé e sé in cucina, finendo il suo tè al limone.
Non ci tornò sopra fino a quella notte di mercoledì.
Si era svegliato quattro volte in preda ai dolori. Aveva masticato un paio di antidolorifici ma niente: il patimento restava insopportabile. Vanna si era alzata alle tre dal letto, mandandolo affanculo e andandosene a dormire sul divano del soggiorno.
La sveglia stavolta tacque, perché Marzio l’aveva fermata prima che suonasse. Si sentiva uno straccio. Immaginò la sua mandibola trasformarsi in un incudine ed essere presa a martellate senza motivo da un fabbro incazzato per le corna subite da sua moglie. Gli venne da abbozzare un mezzo sorriso, ma il dolore era così intenso da tramutarlo in un ghigno straziante. Dalla tapparella abbassata solo parzialmente i primi barlumi di luce filtravano nella stanza e lo aiutarono a uscire dall’abulia di quell’incubo oscuro ma reale, da quel tormento senza fine che era stata quella notte allucinante.
Erano passati sei giorni da quando non aveva più avuto il coraggio di guardare il dente allo specchio. Era terrorizzato all’idea di vedere quali evoluzioni avesse preso quel male nero che arricchiva i dentisti e portava alla perdizione dei sensi e della ragione i pazienti: le vittime di quelle vili aggressioni di agenti patogeni inizialmente invisibili, che cantavano poi in coro gli osanna al supplizio, stendendo il loro oscuro sudario sull’avorio immacolato.
Marzio constatò con amarezza, alzandosi dal letto, che i suoi occhi lacrimavano. Il suo non era un pianto comune però, era la resa finale alla codardia verso una nuova terribile forma di coraggio che non riusciva ancora a nominare.
Non avrebbe visto allo specchio cosa stesse diventando o fosse già diventato quel dannato premolare. Se lo figurò soltanto: lo vide schernito e vilipeso da milioni di batteri che si moltiplicavano come conigli in calore, mangiato fino alla polpa e alla radice in un baccanale senza fine, sentendo infine il raschiare insopportabile delle loro microscopiche bocche fameliche sull’osso mandibolare.
Si portò le mani tra i capelli sconvolti in elicoidali e appiccicosi assembramenti e li tirò verso l’alto, sperando che fossero come i fili di una marionetta scesi per un attimo all’interno della sua testa, muniti ognuno di un amo, per agganciare quel corpo osseo martoriato fino a trascinarlo via in qualche modo.
Desiderava con tutte le sue forze che quel miracolo accadesse, ma sapeva che non sarebbe stato ascoltato da nessuno. Che le cose sarebbero solo peggiorate. L’umiliazione era devastante, e se la immaginava nelle risate sommesse alle sue spalle del dentista e dell’assistente se si fosse presentato sulla poltrona del calvario, nel momento in cui avesse aperto la bocca per mostrare al mondo la sua portentosa carie. Se la immaginava nello sfottò maleducato di sua moglie Vanna con quelle troie delle sue amiche, che probabilmente aveva già messo in atto allo smartphone da giorni.
Non era una situazione accettabile, da qualsiasi lato la si investigasse.
Restava un’unica soluzione.
Marzio si diresse alla porta finestra della camera da letto, l’aprì, issò la tapparella e uscì sul terrazzo che si affacciava dal quinto piano sul cortile interno della palazzina. L’alba stava guadagnando spanne di luce all’oscurità, l’aria era fresca e pungente, ma questi erano dettagli che i suoi occhi e i suoi sensi registrarono solo come l’ultima mera constatazione della sua presenza tra i vivi.

Il patologo aveva svolto il suo lavoro all’obitorio con la solita alacrità. L’ultimo corpo che aveva sottoposto ad autopsia quella sera era stato quello di un giovane uomo di quarant’anni, un certo Marzio Fulcroni, che si era gettato dal balcone del suo appartamento per motivi ignoti.
Tra le note particolari del suo responso autoptico, solo una cosa lo aveva colpito… non le fratture multiple scomposte di braccia e gambe e non lo schiacciamento del cranio che aveva fatto collassare il cervello facendo schizzare dalle orbite gli occhi come due pupazzi a molla. La cosa che non lo avrebbe fatto dormire per diverse notti erano le condizioni delle arcate dentali: ben trentuno denti compresi quelli del giudizio erano completamente cariati, neri in ogni loro parte, come se quell’uomo avesse fumato per dieci vite dieci pacchetti di sigarette senza filtro al giorno… solo un dente, il premolare 35, era intonso, perfetto, intatto, e il suo avorio luccicava magnetico e bellissimo come un diamante.

Illustrazione di Horacio Quiroz

Gli esemplari

Il giorno dello spettacolo meglio recensito degli ultimi dieci anni, che fu anche il giorno dell’incidente, tutti gli ordini di palchi erano occupati, dalle barcacce alla platea.
L’uomo con le motoseghe installate nelle braccia, barcollante e ubriaco di sangue, s’inoltrava nel pubblico alla fine di ogni rappresentazione, con la cesta delle offerte assicurata al cranio. Anche quando i geyser di carne e liquami non gli inclinavano la maschera, ostruendo la parte superiore del mondo, gli risultava impossibile vedere gli spettatori dalle ginocchia in su. Il lucore ramato del palco delineava solo le zampe degli scranni, i piedi nudi intrecciati, gli stinchi filiformi. L’uomo poteva al massimo indovinare quando un bouquet di dita oblunghe, carico di anelli, teso in uno sforzo di delicata precisione – per non schiacciarlo – discendeva dalle altitudini oscure del teatro e lasciava cadere un soldo, una pepita o una breve recensione nel cesto delle offerte.
«Grazie. Obbligato. Grazie.»
Dopo il suo passaggio, molti spettatori attingevano alla scia di sangue per segnarsi la fronte, o per inumidire un fazzoletto rigido come la tavolozza di un pittore che dipinge solo tramonti e incendi. Alcuni trovavano pezzi di maggior valore, che raccoglievano furtivi: un’infiorescenza carnosa su uno stelo d’osso, il liscio boccolo di un nervo, una briciola rossa glassata di cheratina che gli uomini con le tenaglie al posto delle mani perdevano sul cammino. Le parti riconoscibili valevano di più, come l’orecchio quasi intero che il Responsabile del Consiglio aveva pagato una somma esagerata, chiacchierata e mai divulgata. Non era neanche il pezzo migliore della sua collezione.
Già due anni prima sarebbe stato inconcepibile. Il direttore artistico, col beneplacito dell’industria, aveva ordinato che le tubature trasparenti che formavano il nome del teatro, sul muro esterno, fossero temporaneamente opacizzate attraverso un ingegnoso sistema a pressione, così da estorcere al pubblico in strada – in attesa di assaggiare il flusso estatico che costituiva l’esperienza media degli spettatori in sala – il pagamento di una quota collettiva che avrebbe allentato la pressione sulle tubature e mostrato il bolo sanguinolento al loro interno – la materia organica raccolta nelle vasche sotto al palco, triturata, capitalizzata e infine destinata al bioreattore annesso. E non solo gli uomini con le gengive tempestate di lamette si abbassavano a seminare capolavori per invogliare gli spettatori a tornare; il teatro stesso organizzava mostre speciali a porte chiuse che culminavano in performance personalizzate a prezzi non trattabili, riservate in esclusiva ai clienti più facoltosi.

Sofferenze e umiliazioni. Ecco cosa. Alleviate solo dalla consapevolezza che la tradizione e lo spirito artistico, magari con qualche livido e un occhio nero, sarebbero sopravvissuti anche a questo periodo disgraziato.
Lo spettacolo in questione era il terzultimo della giornata. Occupava la fascia di maggiore affluenza, quando andavano in scena gli esemplari maschi, piccoli e grandi – che, per motivi poco chiari, ricevevano un punteggio sempre superiore agli altri. Si era ipotizzato che i capelli lunghi delle femmine impedissero la chiara percezione dell’espressione quando si appiccicavano al viso nei momenti di massima catarsi – questa almeno l’opinione di alcuni critici e fruitori esperti – ma le sperimentazioni successive (femmine coi capelli corti, maschi coi capelli lunghi) non avevano corroborato l’ipotesi, che dunque venne scartata in favore del mistero.
Una cosa era certa: a reggere tutto era l’irriducibile varietà che caratterizzava la trasformazione da esemplare vivente a opera d’arte, il cui spreco immediato (vasche, tubature, bioreattore) accorciava il tempo di fruizione aumentandone esponenzialmente l’intensità emotiva – in delizioso contrasto con i cosiddetti trofei, pezzi speciali lasciati in pasto all’immaginario del pubblico per qualche minuto in più, a volte conservati per le suddette mostre a porte chiuse.
Dopo due ore e mezza di escalation – era il momento dei maschietti più teneri, riservati al finale – accadde che un fantasioso agglomerato di piastre a pressione, a seguito dell’esplosione di un tubo d’aria compressa, smottò verso la rete trasparente di contenimento che separa il palco dalla platea, lacerandola dalla sommità. Un maschietto – non quello che era sotto la piastra, ridotto a un tappetino bitorzoluto mezzo strisciante, ma quello in fila prima di lui – usò la macchina inclinata come trampolino per lanciarsi giù dal palco.
Non che non fosse mai successo. In genere gli esemplari non si orientano nei corridoi, a volte neanche riescono a uscire dalla sala, e prima o poi un addetto alla trasformazione li accalappia. Quella sera il maschietto si fece agguantare da uno spettatore, mentre con un piede rotto azzardava l’arrampicata sui gradini della platea. La cosa ringalluzzì il pubblico, che da qualche scena era sazio di piacere estetico e, al netto degli inconvenienti tecnici, era più interessato al brontolio dei propri stomaci.
Lo spettacolo s’interruppe: i tecnici tolsero la corrente per evitare danni ulteriori, arrestarono il flusso degli esemplari, sganciarono la rete di contenimento per sostituirla con un’altra più resistente e tagliente, ma non riaccesero le luci principali. Da dietro le quinte sbucò il direttore artistico, a cui l’esperienza decennale e i tempi grami avevano suggerito come trasformare un incidente deprecabile in un’occasione di reciproco guadagno sia per il teatro che per il pubblico.
Il direttore salì su una scala, per non importunare la schiena di nessuno, e rivestì i palmi dello spettatore con un foglio di plastica morbida. Il maschietto non se ne curò, prima per la disperazione indotta dalla vista di un suo simile senza maschera – latrati, testate ripetute, rotolamenti, versi inarticolati che potevano essere richieste d’aiuto (forse consce, forse no) – poi per il muto terrore con cui cercò di processare il volto dello spettatore, che la curiosità aveva attratto verso il basso, nell’umida luce rossastra del palco, su uno sfondo di volti simili.
Un tecnico srotolò un tubo flessibile e lo introdusse con delicatezza nella vasca improvvisata. Ne sgorgò un fiotto trasparente che il direttore monitorò dietro la finestrella di una visiera protettiva. A contatto col maschietto, il liquido arrossì come una vergine innamorata. Nessuno spettatore fu così sfrontato da cogliere l’arto ancora integro che il maschietto tendeva nella semioscurità, forse sperando che qualcuno potesse salvarlo in tempo. Il direttore arrestò il flusso per non annacquare l’opera, e concesse a tutti l’abluzione.
Deliquio. Gradimento sproporzionato. Recensioni storiche.
Se non che, in fila dietro al piccolo fuggitivo, al momento dell’incidente, ce n’era un altro. Quando la piastra a pressione malfunzionò, l’addetto al contenimento, che in genere circola dietro le quinte con una varietà di pungoli e storditori elettrici, avrebbe dovuto quantomeno tenere d’occhio gli esemplari ancora non trasformati, se non proprio costringerli verso il palco – l’odore di sangue e urina rende recalcitranti quelli meno suscettibili ai farmaci. Forse il maschietto si nascose dietro una tenda, o si finse morto vicino a quello che strisciava sotto le piastre inclinate. In ogni caso, evase dallo stesso strappo nella rete e si fermò a fissare il capannello di piedi ossuti che circondava il suo conspecifico. Nel panico (forse conscio, forse no) approfittò della distrazione generale per correre sotto uno scranno vuoto e arrampicarsi lungo le zampe cesellate, fino all’indentazione che sporgeva dalla parte inferiore della seduta.
Non osò muoversi per tutto lo spettacolo successivo, ma durante quello finale si affacciò a spiare il palco. Gli risultava difficile elaborare tanta informazione in uno stato di tachicardia perpetua, sbalzi di temperatura e alluvioni di sudore. Annusò una possibilità di fuga nella sacca profumata che lo spettatore sopra di lui aveva infilato tra i piedi divaricati. Quell’odore stantio e pungente lo inebriava, fra tutte le sensazioni possibili, di totale protezione materna. In mancanza di alternative, il maschietto si calò nella sacca con attenzione, toccando tutto e non riconoscendo niente. Trovò un angolo ovattato che gli diceva: Qui, e precipitò in un sonno indistinguibile dalla perdita di coscienza.

«Io non lo so, me lo sono ritrovato in borsa quando siamo usciti.»
Quattro volti, due acerbi e due maturi, alternavano espressioni inintelligibili dietro una fila di sbarre tortili in legno blu.
«Se glielo riportiamo ci danno una ricompensa. Sono tutti numerati, lo sanno che gliene manca uno. Un maschio piccolo, poi.»
Qualcuno aprì la porticina della gabbia.
«Sì ma non allungate le mani. Loro hanno un cuore più debole del nostro, non lo vedete che è spaventatissimo?»
Un giovanotto inquadrò nella porticina un occhio pieno di iridi.
«Mamma, ti prego
«Io lo riporterei e m’intascherei la ricompensa.»
Il maschietto si tastò il collare, suscitando squittii di dolcezza da tre spettatori su quattro.
«Dai, non possiamo portarlo indietro. Guarda cos’è.»
I piccoli esultarono intorno alla madre con discrezione decrescente. Il padre contenne la situazione con un discorso sulla responsabilità, il rispetto per il prossimo, la differenza tra un animale e un giocattolo, il cibo, la cacca e la pipì. I figli giurarono di fare il proprio dovere prima ancora di sapere quale fosse.
Confezionarono un piccolo nido – soluzione temporanea prima di comprare un lettino prefabbricato – lo infilarono nella gabbia e lasciarono la porticina aperta: che il maschietto esplorasse e familiarizzasse a tempo debito, senza pressioni. Intanto avrebbero pensato a un nome.

Dusty Ray, “Slouching towards marbled slumber”

Οἶδα o delle implicazioni del vuoto

Come curarti dallo stillicidio di Dio dal fondo dell’anima tua? Dove un tempo albergava l’esperienza dell’altamente significativo ora s’apre un crepaccio vacuo che ti sprofonda nel petto per poi ramificarsi metastatico lungo il tronco e giungere a scioglierti le ginocchia. Gli accessi di nulla assumono la forma di lacune semantiche interiori in preda alle quai crolli a terra. È successo mentre celebri messa, mentre visiti col Prefetto gli alloggi dei migranti, mentre porti la comunione ai carcerati.

Il Vescovo ascolta come la fede e il senso scolino fuori da te e ti manda dallo psichiatra che diagnosticando una depressione con somatizzazione dell’ansia ti prescrive Limbytril. Passano mesi e illuminazioni oscure e pensieri eterocliti t’opprimono asfissiandoti: potresti credere all’inferno solo se non avesse il soffitto, Jahvè ha distrutto Sodoma non per questioni omosessuali ma perché i suoi abitanti avevano covato il desiderio irrefrenabile di violare il sacro congiungendosi carnalmente agli angeli la cui aura numinosa li aveva mandati in frenesia erotica, il paradiso indicato dal Cristo non è che una condizione psicologica.

Hai un divorante bisogno d’evocare una ierofania che ti salvi. Tenti il digiuno e la veglia. Ottieni parestesie della mano destra. Allora – prima del suicidio verso cui pericoli – ripensi alle tue radici messicane e ti convinci che a propiziarla sarà la vecchia Ska Maria Pastora. La inali nel tuo studio in canonica e la poltrona su cui siedi diventa una foglia di tiglio accartocciata che è il prolungamento delle tue mani palmate. La foglia che dunque tu sei si libra nel deserto dalle dune d’ametista che s’è spalancato ai tuoi piedi, poi dalla sabbia inizia ed emergere – prima una mano, poi due crani, poi legione – l’orda dei morti il cui tanfo mefitico color lapislazzuli t’avvolge cantando stridulo e fosco in coro un inno ctonio che dice: «Oggi è il primo giorno del resto della tua vita, risveglia il tempo alla vita». Ora hai visto, quindi sai.

Nuotare

Caldo. Sudo nel lenzuolo. Da ore mi rivolto irrequieto nel letto, lottando contro il caldo, e il mio sudario in cotone di dubbia qualità. Non riesco a prendere sonno.

All’inizio, è stato il vocio proveniente dal piano terra dell’hotel. Ci deve essere un convegno. Non so. Pieno di Giapponesi, questo albergo. Si incontrano nella hall, impettiti, sorridenti. Si inchinano rapidamente, si porgono a due mani biglietti da visita come preziosi doni. Mormorano cose incomprensibili. Poi spariscono oltre una doppia porta. Due hostess compunte li fanno accomodare. E stasera, poi, ci deve essere stata una qualche cena, o festa: rumore di risate, e applausi.

Poi è stato di nuovo il traffico. L’onnipresente colonna sonora di questa città. Ora che è notte, ora che il fracasso del giorno s’è chetato, riempie lo spazio sonoro. Sembra che tutta la città si sia accordata per fare un pellegrinaggio automobilistico qua sotto. Il rumore nervoso degli scooter, quello aggressivo delle auto, il sonnacchioso, elefantesco rumore dei camion e dei mezzi pubblici. Clacson che abbaiano, squittiscono, perforano l’aria. Lentamente, anche quello è andato scemando nella notte. Solo qualche auto che sfreccia veloce, qualche autobus notturno.

Poi sono arrivati i “ping!” dell’ascensore al piano. I passi nel corridoio. I commiati davanti alle porte. Le ultime risate, o battute. Le porte, che si aprono-chiudono, talvolta sbattono. Il rientro in camera è durato in tutto, tra ping-segnali e rumori di sciacquoni e docce dalle stanze attigue, ventisette minuti. E quindici secondi.

Già. Perché la mia veglia ha una sua unità propria di misura. Quindici secondi. Per quanto metro scientificamente inadeguato, è il tempo che intercorre tra il ronzio che segnala lo spegnersi della lettera “R” dell’insegna dell’albergo proprio fuori dalla mia finestra, e quello del suo riaccendersi. MARISE. Fffft. MA( )ISE. Fzzzt. MARISE. Quindici secondi. Fzzt. MA( )ISE. Ronzio. Fzzt Lampo di luce. MARISE. La luminosità della stanza si intensifica di un erresimo di luce, accendendo d’una sfumatura rossa il quadro astratto prodotto in serie appeso di fronte al letto, unico ornamento della parete della camera. Allunga le ombre del tavolinetto basso su cui giacciono sparsi i miei biglietti da visita e le mie poche cose. Fzzt. Lampo di buio: il quadro sparisce di nuovo nell’oscurità, liberandomi dalla pena di vedere quella crosta.

Mi copro la faccia col cuscino. Troppo caldo. Il viso avvampa. Mi sento soffocare. Il caldo sembra essersi centuplicato. Getto il cuscino. S’affloscia con un tonfo sordo vicino alla porta del bagno. Fzzzt. Chiudere le tende e le finestre, per bandire luce e rumore, vorrebbe dire trasformare questo posto in una sauna. Il condizionatore ha l’aria di aver rinunciato a lottare da tempo. Il salvifico getto di aria fredda resta imprigionato da qualche parte, e il maledetto marchingegno rimane inerte e insensibile a qualsiasi impulso del telecomando, a ogni bestemmia e maledizione. Ffzzzt. MA( )ISE. Impossibile accenderlo, impossibile spegnerlo: un costante e soffice ansimare di impianto, un occasionale gorgoglio di tubi, denunciano l’esistenza di stanze più fortunate, e aggiungono un ulteriore elemento d’insonnia. Non ho le forze per scendere alla Reception. Domani.

Caldo e rumore sono, tuttavia, comode, accettabili scuse. Il mio sonno se ne è andato da un po’. Ogni notte dormo meno. Sempre meno. Non posso nascondermi dai pensieri. Di giorno, li affogo sommergendoli nelle mille cose prosaiche, eppure necessarie, della vita. Documenti, preoccupazioni, supermarket, telefonate, soffocano il grido dei ricordi, il graffio della coscienza. Ma la notte, no: la notte è loro. Appena finisce il quotidiano, appena il caos del giorno s’accheta, eccoli. Orribili pipistrelli che lasciano la loro grotta. Sciamano dentro alla mia testa, rimbalzano sulle pareti del cervello. Fzzt. E dove colpiscono, riportano qualcosa alla mente che non volevi. Una maledizione. Dormire è anche peggio. Quelli ci godono, quando dormi! Perché al ricordo, già tremendo di suo, si aggiunge l’elaborazione, l’onirica fantasia, il senso di colpa ingigantito della coscienza e trasformato nell’incubo. Cerco con la mano la bottiglia di J&B, senza successo. La prima, vuota, è sul tavolino. Fzzt. MA( )ISE. La seconda? Deve essere rotolata da qualche parte sotto al letto.

All’inizio l’alcol aiutava. Affidava il mio corpo ad un sonno di morte, senza pensieri, o sogni. E pazienza se la mattina successiva erano feroci mal di testa. Santa Farmacia, Nostra Signora del Doposbronza! Poi, come quasi tutti gli amici, mi ha abbandonato. Stasera, l’effetto benefico è durato ancora meno. Gli ultimi saluti sono stati conati piegato sulla tazza, l’addio un pulsante di plastica nel muro. Fzzt. MARISE. Niente sonno, Lorenzo-san.

Dopo trecentosessanta erresimi di notte, si è aggiunto un altro ritmo alla sinfonia insonne. I miei vicini, una coppia di forse mezza età che ho incrociato più volte in ascensore, ci stanno dando dentro. La testiera del letto che sbatte contro il muro, dietro la mia, racconta le spinte di lui. Il ritmo del loro rapporto batte uno staccato da telegrafo. Tum. Fzzt. Tum. Fzzt. MARISE. Tum. Tum. Fzzt. Tum. Tu-tum. Fzzt. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. MA( )ISE …Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Tu-tu-tum-tu-tu-tum-tututum-tututum. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Sesso Morse. Cuore sincopato dentro al muro. Me li immagino, presi nella frenesia dell’amplesso. Il battere mi restituisce le pause ed i parossismi. Fzzt. Mi immagino quello che fa lui, immagino la faccia di lei. Attingo a quel poco che ho intravisto dalla scollatura dell’abitino di lei, alla mia esperienza personale, alla mia Hollywood a luci rosse. Mi figuro scene e posizioni, parole e graffi. Senza quasi accorgermene, la mia mano prende a muoversi, sotto l’elastico delle mutande. Tu-tum. Tu-tu-tu-tum. Fzzt. Chissà se anche loro hanno la finestra aperta. Chissà quali ombre disegnerà la “R” sui loro corpi nudi. Chissà se uno dei due ha notato l’erresimo, se quei quindici secondi li ha presi come misura per darsi il ritmo. Mi annullo nell’immaginazione. Venti erresimi dopo, la mia immaginazione impiastriccia il lenzuolo. Poco male. Faceva schifo già di suo. Ma almeno mi ha donato cinque minuti di non-pensiero. Impagabili. Via ‘sto lenzuolo.  Tum-tum-tum-tum-tum-tum-tum-tu. Fzzt. Silenzio. Infarto dell’orgasmo. Qualche colpo, a distanza, sempre più ovattato. Di corpi che si aggiustano sul letto. Di parole e baci. Oppure di teste appoggiate sul petto e carezze. O di sonno pesante. Fzzt.

L’invidia brucia come una ferita. Da quanto non dormo come si deve? Dalla fiera a Rangoon. Da quella bambina e da suo padre. Dal suo corpo morbido. Dai miei quattrocento dollari e i suoi occhi accesi, dal mio piacere proibito e le sue grida di dolore. Dal mio ansimare ai suoi occhi vitrei, al suo corpo freddo, al suo collo stretto fra le mie mani. Da allora, le mie notti sono diventate un inferno. La mia coscienza non mi lascia pace. Non posso parlarne con nessuno. Non capirebbero, o mi denuncerebbero. Non posso andare da uno psicologo. Come potrei? Come sopportare lo schifo, il biasimo, che trasparirebbe dagli occhi? Le labbra serrate, che si trattengono dall’esprimere il giudizio, il disprezzo? Dormo poco, dormo male. La notte non concede ristoro. Mi sveglio stanco, affaticato, nervoso. La mia vita personale va a rotoli. Quella lavorativa, anche. Fzzt. MARISE. Questa commissione non andrà in porto. Niente software. I’m sorry, Mr. Candùci, but that’s not what my Company needs. Non puoi vendere software se ti droghi di caffè di giorno e se ti fai di tranquillanti o alcol la notte. Se fanno sempre meno effetto. Se sei un fascio di nervi. Se tremolii, e scatti involontari, punteggiano il tuo parlare. Se servono sempre più mentine per mascherare il fiato, più caffè per restare attivo. Se la tua faccia comincia ad assomigliare ad un vestito non stirato. Se la fatica ti impasta i pensieri, e l’inglese, il francese, si mischiano come liquidi nella zuppa del pensiero confuso. Fzzt.

Caldo. Mi sento soffocare. Aria! Questa non è la Francia, cazzo, è il Borneo! Barcollo verso la finestra. Il mignolo del piede destro ritrova la bottiglia, e la spedisce mezzo metro ancora più sotto al letto. Fzzt. Alla finestra, mi appoggio con le mani alla cornice, facendo un po’ forza sulle braccia. Sento i muscoli gonfiarsi. Immagino di allargarla così, solo con la forza dei miei muscoli, deformandola. Spalancandola come in un grido. Oppure, di usare le mie dita come siringhe, per iniettare i miei ricordi nei mattoni della parete e drenarli dal mio cervello. Fzzt. MARISE.

Con uno scatto sporgo la testa dalla finestra, respirando l’aria umida a pieni polmoni. Fzzt. La stanza è un mare, un liquido viscoso, dentro cui sto affogando. Emergo. Respiro. Fzzt. La cornice della finestra è il pelo di un’acqua scura, densa, invisibile. Mi spingo con le braccia. Mi viene quasi da muovere le gambe, per nuotare fuori da quell’acqua-stanza ancora più velocemente. Ma non c’è acqua. Solo aria inquinata, e rumore, e traffico, e la terra è là in fondo. Sorrido. Ecco. Sono libero. Sarò libero. Cado. Se sono fortunato, morirò subito.

Fzzt. Anzi, mo()irò.

Illustrazione di Eric Lacombe

Persephonìa – a post punk story –

Più reali diventano le cose, più somigliano ai miti.”–
Rainer Werner Fassbinder –

 

Alligatori nelle fogne. Sirene tutto il tempo. Andiamo di fretta, noi, e lèvati. È la Città che non dorme mai, babe. Funziona così. Start spreading the news…
Sono cazzate.
Ecco la verità.
Semplici cazzate per turisti.
Chiunque abbia trascorso almeno settantadue ore quaggiù lo sa bene.
A forza di after nessuna metropoli sul pianeta durerebbe tre giorni senza fulminarsi, e la Grande Mela non fa eccezione, anche se quella feccia di strippati a coca e Valium che ci vive dentro adora darsi un tono e campare di leggende spicciole.
Ma a un certo punto Sinatra sfuma, sapete, e poi arriva sempre la realtà.
Persino qui.
Una gran vagonata di miseria, kemosabes, più puntuale della sotterranea e salata come una cena da Delmonico il venerdì sera. La realtà dei tanti Jack, Joe e Jill che marci di lavoro fanno i pendolari dalle otto alle sette, con le loro scarpe vagabonde,
mentre provano a diventare i pezzi grossi, i re della collina; un limbo dove la Lex è deserta, la Borsa riattacca i telefoni e Manhattan piomba finalmente in coma.
Ora da certi angoli cinguettano sommessi patois. Taxi dalle occhiaie gialligne
scrutano Powell Boulevard a caccia dell’ultima corsa e dal fiume, nel frattempo, un’umida brezza spira verso Broadway. C’è la pace dei giusti, una vera benedizione.
Così, trapassate le foschie di lascivia e Quaalude che ancora infestano la Cinquantaquattresima Ovest, la Notte è pronta per il tango.
Canal Street è una milonga. E sul turbinio delle spazzatrici già vortica uno strascico di sogni.
Mentre fra Seward Park e la Bowery bruiva l’eco di quegli scarabei meccanici, Riff guardò il suo Daytona nuovo di zecca. Le due erano diventate le due e mezzo.
Devo parlarti – aveva biascicato Leandro al telefono – è urgente.
E figuriamoci.
Coi portoricani è urgente ogni volta, ma se sul piatto non servono sconti o sussidi quelli neanche ci provano ad arrivare in orario. Sarà sempre colpa della mala suerte.
Mi abuela s’está muriendo. Non ho trovato parcheggio. Mira, c’era traffico.
Quando alle tre una zoppia di tonfi ovattati rimbombò lungo la scala che portava dabbasso, nello studio, Riff sollevò gli occhi dal Journal e attese. Già la sentiva, però, già sentiva la lingua dell’amico che accampava l’ennesima scusa da due soldi.
«Alla buonora, Cristo.» gli sibilò, vedendoselo scendere gli ultimi gradini a passo di bradipo «Fossi venuto a nuoto da Staten Island avrei fatto comunque prima di te.»
«Oye, non rompere le palle, eh? Me serviva un cafè.»
«Lo vedo. Hai ancora un po’ di zucchero sul…»
Leandro si ripulì la bamba dalle narici e sniffò l’aria.
«Coño, ma tu la senti ‘sta puzza de cane lesso?»
«È il rendang.» svelò Riff «Ezra ha ordinato di nuovo dal filippino all’angolo.»
«Che? Ezra è qui?»
«Da un po’.»
«E te pesava el culo de avertirme, chingado
«L’ho fatto, señor stronzo, ma eri già volato a raglie. Rispondeva la segreteria.»
Allora Leandro gettò uno sguardo verso l’ufficio a destra della sala registrazioni.
La targa sulla porta recitava privato a caratteri scarlatti.
«È dentro?» chiese.
Riff annuì.
«Bene, así no hay problema.»
«Perché… Hai problemi col vecchio, tu?»
«Abbiamo, secondo me.»
«Parla per te, guapo. Io sono a posto.»
«Mira» la voce di Leandro s’affievolì, scivolando nei grigi mormorii di chi non aveva mai abbandonato certe scorciatoie da palazzone «non te pare che il rabbino está tomando un po’ troppo? Cioè… Sì, lavora, pero además de chiudere i contratti o escucharse un vinile ogni tanto, que hace? Te lo digo io, ‘mano. Un bicho.
El parásito incassa solo gli assegni, e noi nel frattempo “andale, andale, negritos!”.»
«Sei fuori strada.»
«Ni de broma, carnal. Il cinquanta per cento es un pinche atraco e lo sai. Nosotros tenemos que llamar a la puerta» bussò lui sul tavolo «de todos i club e li agenti della città. E sgobbiamo alma y sangre, ma mentre él s’entasca metà della torta por sí mismo, a noi che buscamos gli artisti queda un cuarto a cranio. El puto menudo, coño
Riff accolse la filippica grattandosi la guancia. La testa mimava no.
«Lo trovi divertente?»
«Abbastanza. Vai fortissimo in matematica per uno che non ha finito le superiori.»
«Oh, chupame la verga, lambón. Me soy sempre sacrificado para mi lavoro. Te
ricordi el festival de Rochester, sì? Mira, mira lo que me hicieron» gli ordinò, mentre s’indicava la gamba zoppa «pero nunca mi sono lamentato, y dal viejo manco grazie.»
«Ma di che doveva ringraziarti, mongoloide? Quel giorno te la sei cercata tu. Provarci con la squinzia di un Angel… » Riff si ravviò i capelli all’indietro «E non ti scordare che cammini ancora, perciò t’ha detto pure culo. Avessi fatto il viscido con la mia, di donna, t’avrei staccato le gambe per suonarci In the air tonight
«E va bene, tienes razon, ma el punto aquí rimane che la piña está agria, chacho
«Così vuoi fargli le scarpe.»
«Oye, no. Es più tipo… Rinegociare i patti.»
«Seh.» la lingua di Riff schioccò «Rinegoziare.» disse lui, sfilandosi una Salem
accartocciata dalla tasca «Di’ un po’, che facevi prima? Prima di questo lavoro, cioè.»
«Ya lo sabes
«Lo so, sì, lo so. Te n’andavi su e giù per Jefferson Street a smontare i copponi dalle macchine, o qualche radio, se proprio buttava bene. Questo facevi. Ora invece hai un bell’attico sulla Columbus, vesti Hermès, guidi una Khamsin e ti ripassi una pelle nuova ogni giorno. Sei quassù. In cima alla cazzo di catena alimentare» gesticolò Riff, la mano tre spanne sopra la testa «mentre i tuoi compari saranno dentro le peggio topaie di Bushwick a ingoiare cazzi un cinquino la pompa, oh, sempre che nel frattempo non
l’abbiano già lessati.» aggiunse «Te la cavi, niño, ma non sei Ezra. Comprende
«E che farebbe Ezra meglio di me?»
Riff accese la sigaretta.
«Un mucchio di roba.» sussurrò appena «Primo, capisce cosa manda la gente in
orbita… E nel nostro mestiere è fondamentale.»
«Io también, hombre
«Sicuro, e io sono Phil Spector.» lo schernì l’altro «Ti manca il fiuto, Puerto Rico. Tu perdi ancora tempo appresso a ogni stracciaculo fuori dal CB. Cerchi il nuovo Sid Vicious, ma dei punk ormai non frega più un cazzo a nessuno, solo agli europei, forse.
È ora che ti svegli, bello mio» Riff aspirò dalla Salem «a noi servono i pesi massimi, la nuova Siouxsie… O il nuovo Curtis, pace all’anima sua.» e allora glissò «Ricordi le prove dei tizi a Lodi? Avevano quel tappo di cantante tutto muscoli, Glenn qualcosa… »
Leandro accennò un .
«Mh, e mentre tornavamo hai detto che non valevano manco la benza del viaggio.»
«Non erano nada d’especiale, Riff, solo Cramps con la faccia pitturata.»
«E invece pensa un po’, Lester Bangs dei miei coglioni, la Ruby l’ha scritturati la
settimana dopo e due mesi fa è uscito il loro primo album. Una roba fotonica. Fotonica.
Ma che grazie al tuo ritardo è finita nel cesso più veloce della diarrea.»
«Però coi Pantacruel ci siamo rifatti diez volte más, no?»
«No. Ed eccolo qua il tuo secondo problema. Sei avido.»
«En mi barrio una comisión del tredici por ciento es un golpazo, non un problemo
«Lo diventa, un problemo, se tralasci certi… Dettagli. Sapevi che quell’animale di batterista si scopava le ragazzine, ma di fronte alla tua fetta sugl’incassi non ci hai perso ‘sto gran sonno… E ora, ma-chi-se-l’aspettava, Zulu Bryant è a Rikers per stupro di minori e la band s’è sciolta.» clap, clap, applaudì Riff «Bel lavoro del cazzo hai fatto.»
«Oye, pari mi mamá. No me jodas
«Senti, Don Cojón, mica l’ho iniziato io il discorso» insisté «e a dirla tutta c’è pure un altro motivo per cui Ezra becca più grano di te. Il nome Waylon Sharp ti dice nulla?»
«Quién, il chitarrista dei Fleischfresser?»
«Il cantante dei Voodoo Boudoir.»
Leandro scosse la testa.
«Beh, tre anni fa Sharp voleva farla finita. Sai… » Riff si puntò l’indice alla tempia, «Così, dopo aver bucato due serate, s’è messo in macchina e ha
tirato quattrocento miglia fino alla catapecchia dei genitori morti. Allora chiama Ezra, e gli biascica una roba tipo “Kemosabe, mi serve che vieni quaggiù”» l’uomo spense il mozzicone «perciò il vecchio sgroppa fin giù a Elkins e lo ritrova catatonico sul divano,
con mezza pera in circolo e una ventidue accanto.»
«E que pasó
«Che il cervellino da opossum del nostro bifolco aveva preso a squagliarsi. Di brutto.
Sharp non scriveva più mezza riga, pensava solo a farsele, e via via s’era pure creduto che il fantasma del padre c’entrasse qualcosa con la sua cazzo di crisi mistica. “Se non posso creare, tanto vale morire”, diceva.»
«Y Ezra?»
«Lui ha messo da parte la pistola, tranquillo, e gli ha fatto “Andiamo a ucciderti”.»
«Como sarebe ucciderti?»
«Non voleva seccarlo per davvero, genio. Mica è Vito Corleone» ironizzò Riff «se ne sono andati assieme da una che vive nella riserva di Carvins, un’avventista, una specie di santona o boh… Insomma, Ezra la conosce, è una pazzoide amica sua. E a quel punto lei prende Waylon, gli leva i vestiti, lo porta al lago…»
«E?»
«Lo battezza.»
«Lo battezza?»
«Croce sul cuore. Ha immerso lo stronzo nell’acqua e l’ha battezzato.»
«Tu m’estás tomando el pelo, di’ la verità.»
«È già la verità. Io non lo so com’abbia avuto un’idea del genere così dal niente, ma è arrivata quando serviva. Capisci? Sharp ormai spadella una mina ogni sei mesi, e lo sai perché? Perché Ezra ha un dono. Lui guarda nelle persone. Le spinge a reagire, a dedicarsi alla musica, a donare… Tutte loro stesse.»
Leandro abbozzò una risposta, ma le parole gli morirono sulla lingua.
Calò un silenzio più soffocante del fetore di rendang che ancora li circondava.
«Perciò questa conversazione non è mai avvenuta, chiaro? Il vecchio t’ha levato dalla strada, cazzo. Se sapesse che vuoi fregarlo, ci morirebbe. Un po’ di gratitudine, no?»
Il portoricano glissò. Sudava vergogna.
«De chi es l’album nuevo?» domandò. Il suo indice puntava l’ufficio di Ezra.
«Dei Dirge for Nevermore, il gruppo di-»
«Selenia Monroe.» completò Leandro «L’hai vista prima?»
Riff accennò un .
«Ha smollato la demo al vecchio e puff
«Fortuna che non c’ero, allora. Oye, bato, lo giuro su Dio, esa mala perra me rivolta las tripas. A te no? Parece una di quelle spanate de la Familia Manson.»
«Fosse l’unico problema…» azzardò Riff «Gliene mancano di venerdì».
«Già.»
«E così tanti che non t’immagini. Lo sai, ogni volta guardo quell’albina del cazzo e sento un peso. Una specie di groppo, proprio qui» rivelò l’altro, sfiorandosi appena lo sterno «è più una voragine, anzi. E cresce, cresce, e mi ruba il respiro, come se volesse risucchiarmi tutto. Fino alle scarpe.» esitò «Quand’ero in mano ai gialli avevo la stessa paura. È terrificante. Lei sale sul palco e tutti a sbavare. Poi però ci scambiamo un’occhiata, e di colpo vorrei solo sparirmene a stravaffanculo il più veloce possibile.»
«Lo creo, carajo. Ha gli occhi rossi. Es como guardare una chingada vampira.»
«Secondo te sono vere le storie?»
«Sulla Monroe? Macché, amigo. Sarà un poquito de color messo in giro dai suoi fan, robina che fa spettacolo, tipo esa puttanata che Elvis è ancora vivo.»
«Dici?»
Leandro annuì.
«No me sembravi uno superstizioso.»
«Mica è superstizione. Riflettevo solo ad alta voce.»
«Cazzate. Non hai la faccia a posto. En qué piensas
«È anormale.» ammise Riff, mentre giocherellava col suo Zippo «Parliamo di una ragazzina.» clic, clac «A diciassette anni io ero ancora a segarmelo sulle foto di Arlene Bell» clic, clac «invece lei apre i concerti di Lydia Lunch al Mudd e non ha manco l’età per farsi una birra. A te non pare strano?»
«Quién sabe, chacho. Avrà le cosce a fisarmonica.»
«No. L’avremmo saputo. Uno che si racconta le scopate in giro lo becchi sempre.»
«E allora no se. Escucha, per me t’estás fissando.»
«Sarà la storia dei cani. Continuo a pensarci.»
«Che storia?»
«Non la sai?»
«No.»
«Ok, gli trovammo dei localetti. Ricordi?»
«Seguro
«Beh, in pratica è successo che poco prima di quelle tre date i cani dei titolari sono scomparsi nel nulla. E non s’è mai capito come o perchè.»
«Imagínate, a New York scappano centinaia de bestie todos los días, Riff.»
«Sì, però ammettilo. È una coincidenza troppo assurda per non farsi due domande.»
«Quindi secondo te sarebbero stati loro? E por farci que? Un pinche spezzatino?»
«Non lo so. Magari sono sbiellati che fanno rituali nei cimiteri, sacrifici o cazzi del-»
Leandro lo interruppe secco.
«Oh, callate, callate, finiamola qua.» gesticolò «Non le voglio sentire ‘ste macumbe voodoo alla Robert Johnson. Me vengono gl’incubi.» allorché, tirando su col naso, imboccò le scale «Io mi do, chacho. Salutam’el viejo quand’acaba de menarselo.»
«Lo saluto, ma tu ricorda. Rompi di nuovo i coglioni sulle quote e sei fuori. Claro
«Claro, carnal. Adesso però vattene a dormire…»
«Tra un minuto.»
E così, tonfo a tonfo, l’imbeccata di Leandro sfumò in un’eco zoppa che risaliva verso Canal Street, mentre Riff, bolso e inebetito, poggiava l’ultima Salem a fil di labbra.
Il Daytona segnava le quattro meno venti.
Tempo di chiudere il baraccone.
L’uomo sfiatò un tiro e bussò allo studiolo di Ezra, l’oasi dove il vecchio – al grido di metsuyan, metsuyan – sceglieva sempre le bombe migliori di tutte.
Allora Riff aprì la porta; dalla stanza spifferò un lezzo tremendo, addirittura peggiore del rendang, un alito che sapeva d’acquitrini e frutta guasta.
Lui entrò e proseguì.
«E-Ezra?» balbettò, eppure di «Ezra?» neanche l’ombra, se non un pendolo di
Newton, immobile sulla scrivania, con attorno un mucchio di foto scattate quand’ancora esisteva la fila dei neri.
Riff s’avvicinò.
Un po’ di più, un po’ di più.
Gli bruciava il naso, come dopo un pessimo tuffo giù da una scogliera.
E i suoi occhi guardavano, senza vedere.
Accanto all’agenda del vecchio, lì dov’era posata la custodia dell’album dei Dirge, spuntava un bigliettino dal corsivo sinuoso, ma lo sguardo di Riff saettò subito al telefono; e per un istante riuscì quasi a sentire la voce della centralinista, 9-1-1, prego, dichiari l’emergenza. Il mio capo… È-è scomparso, prima che il fruscio del giradischi lo riportasse a quella realtà profanata. Signore, come sarebbe da una stanza chiusa“?
Pronto? Pronto? I poliziotti avrebbero pensato a uno scherzo, ma non lo era.
E neppure si trattava di leggende metropolitane.
No. Dentro quel tumulo pannellato ad Auralex mancava una persona. Mancavano centoquaranta libbre di vittima della Shoah. Ed era una verità empirica, nessun trucco. Riff ebbe un brivido e quasi cadde in ginocchio. L’angoscia che il suo stesso torace volesse inghiottirlo a poco a poco gli drenava sangue da ogni possibile organo.
E nel frattempo, dalla copertina di Persephonìa, lo scrutava l’atroce ritratto d’una Brigitte Helm spennellata da Francis Bacon, i cui sguardi parevano bramosi di carne.
Solamente allora – coi talloni al ciglio d’un abisso che gli cresceva ovunque
tutt’intorno – l’uomo esaminò la nota sotto il disco. Parole a strapiombo sul buio.

 

Illustrazione di Diana Gallese

Il ragno

Il risveglio non è indolore.
Prima ancora di aprire gli occhi, percepisce la mano appiccicosa sul cuscino. Le lenzuola lo avvolgono in un bozzolo umido e gli impediscono i movimenti. Tasta la chiazza di sudore e bava, gli occhi ancora incapaci di distinguere le forme della stanza, l’origine del suono, i contorni squadrati della sveglia. Si rivolta sul materasso, strattona le lenzuola, cerca di estrarre ossigeno da quella melassa che riempie la stanza. Allunga un braccio per fermare il pulsare ritmico che lo scuote fino alle sinapsi, tocca qualcosa di vischioso e ritrae la mano. Apre gli occhi nel buio e controlla l’orario sul quadrante luminoso: mancano cinque minuti alle sei, non è ancora suonata la sveglia.
Si alza e si dirige verso il bagno con gesti automatici, le braccia che pendono rigide lungo il corpo seminudo. Sbatte le ginocchia contro i sanitari, percepisce l’odore sgradevole della propria urina scivolare lungo le pareti di ceramica. Si strofina gli occhi davanti a uno specchio vuoto, i gesti per lavarsi la faccia sono stilizzati e inutili, servono solo a mandare avanti la routine del mattino, lo schema che gli permette di prepararsi e uscire di casa senza avere ancora attivato il cervello. Il corpo si muove per automatismi: mette la caffettiera sul fuoco, prende le fette biscottate dalla dispensa e la marmellata dal frigo. Quando apre lo sportello appiccicoso di ditate zuccherine non può evitare la zaffata di qualcosa andato a male. Allunga una mano fino all’interruttore. Anche questo è appiccicoso, sembra che qualcosa di denso coli dal soffitto per ricoprire le pareti del suo appartamento, i suo mobili, il pavimento stesso. Anche masticare e deglutire sono gesti automatici, la poltiglia che scende nella sua trachea non lascia traccia nel gusto o nella memoria. Lascia mezza fetta con marmellata di fragole sul piatto, finisce il caffè e si alza dal tavolo senza aver ancora prodotto un pensiero cosciente. Striscia i piedi sudati su un pvc altrettanto umidiccio fino alla camera da letto, ogni passo più difficile del precedente.
Prende il cellulare dal comodino per farsi luce e si accorge di come l’ora del display non combaci con quella della sveglia. Cerca il caricabatteria a tentoni, prima di rinunciare e indossare i vestiti da ufficio ammucchiati in fondo al letto. Un completo stropicciato e una camicia che progetta di lavare da almeno una settimana. Il sudore nuovo si mischia con quello dei giorni passati e un brivido lo fa starnutire sulla mano impreparata. Se la asciuga sul lenzuolo, prende il cellulare con l’altra e torna nell’ingresso, dove lo aspettano la borsa e le scarpe. Sente un ronzio provenire dalla cucina, lo sfrigolio di centinaia di mosche che strisciano le proprie zampe anteriori. Ignora quel suono così come il battito doloroso che lo insegue da prima del risveglio. Ora si è trasformato in una specie di sibilo strisciante, denso, ma lui ormai indossa le scarpe da ufficio, prende la borsa di similpelle e apre la porta di casa. Mentre esce sul pianerottolo sente qualcosa di umido cadere e colpire una superficie irregolare, un tonfo difficile da identificare.
Percorre le quattro rampe con passi precisi, misurati dalla ripetizione, trascinando dietro di sé la borsa, più pesante di quanto si ricordasse. Davanti al portone, la luce dei lampioni filtra dai vetri rotti e gli permette di assistere al corpo di una blatta che cede rumorosamente sotto al suo peso. Intravede altri scarafaggi muoversi lenti negli angoli dell’androne. Spinge il vecchio portone e lo lascia richiudersi dietro di sé, con un suono che gli ricorda quello della blatta sotto le scarpe.
Una volta sul marciapiede guarda verso l’alto e vede le finestre spente dei condomini illuminate dai lampioni stradali. Nella piccola porzione di cielo visibile da lì non ci sono né luna né stelle, solo una tenebra densa che fa da tela per la luminosità riflessa dalla città. Un altro starnuto gli ricorda di mettersi in moto, iniziare la lunga passeggiata che lo porta in ufficio tutti i giorni e lo riporta a casa ogni tanto.
I passi proseguono di cono di luce in cono di luce, calca i marciapiedi della città con passo incerto ma inarrestabile. Non si ferma neanche ai semafori, inutili a quell’ora del mattino. L’unica breve ombra che riesce a scorgere per la via è la propria, quando passa sotto ai lampioni, per poi tornare nelle tenebre da cui è venuto. Prosegue fra condomini sempre più alti, balconi e finestre fatiscenti, fra cassonetti sfasciati e auto abbandonate. Supera le bici prive di una ruota o di un sellino, i motorini rigati, inciampa nelle radici degli alberi che crepano il marciapiede. Ignora le vetrate dei negozi chiusi, le insegne al neon spente, i cartelli sbiaditi “VENDESI”. Alterna la borsa dell’ufficio da un braccio all’altro, le dita e le spalle sofferenti per il peso.
Ogni tanto si ferma a prendere fiato, controlla il cellulare e nota il livello della batteria sempre più basso. Ricorda anche l’orario sballato e lo ripone in tasca senza farsi altre domande. Le mani emergono dalle tasche più umide di come vi erano entrate. Forse anche per questo la borsa risulta così scivolosa e difficile da tenere, gonfia com’è.
Mentre supera l’ennesimo portone scheggiato, vetri rotti e graffiti, sente una fitta al piede sinistro. Prova a ignorarla per qualche metro, ma sotto al lampione successivo è costretto a fermarsi per controllare: un chiodo arrugginito ha penetrato la suola della scarpa, ridotta sempre peggio. Si appoggia a un muro per estrarre il chiodo e controllare il piede. Il calzino è macchiato di sangue, la pelle gli fa male ma crede di poter camminare. Si rinfila la scarpa e sposta il peso da un piede all’altro per testare i propri limiti, e mentre è lì, impegnato in quello strano e impercettibile esercizio fisico, concentrato sul proprio corpo sudaticcio, nota una figura scura appoggiata al lampione successivo. Una sagoma umana abbandonata fuori dal cono di luce, quasi invisibile nell’oscurità.
Esita un momento, prima di riprendere la borsa appoggiata per terra, non senza uno sforzo cosciente. Forse per via del piede ferito, ma gli sembra sempre più pesante mentre zoppica di lampione in lampione, da un marciapiede all’altro. Sente l’urgenza di arrivare a destinazione.
Di rado un’auto veloce lo supera o gli viene incontro, le ruote che grattano l’asfalto, i fanali che per un attimo illuminano l’intonaco scrostato dei condomini e i veicoli abbandonati ai bordi delle strade. In un furgoncino dalle ruote forate, vede per un attimo una figura immobile, un uomo addormentato forse, al posto di guida. Ignora l’informazione e prosegue, affaticato e dolorante. È costretto a fermarsi dopo pochi metri per controllarsi le mani arrossate per il peso della borsa e il piede che continua a sanguinare. Si riposa sotto a un lampione e studia i fogli delle persone scomparse, per non pensare ai propri dolori. È tentato di buttare le scarpe e proseguire scalzo, ma desiste. Vorrebbe solo arrivare in ufficio, sedere alla sua scrivania, accendere il computer.
Alza la borsa rigonfia con entrambe le mani questa volta, fatica a staccarla dal marciapiede appiccicoso, sporco. Cerca di camminare con il peso sulla destra, un passo lento ma regolare. L’obiettivo è non fermarsi più.
Eppure rallenta quando vede una mano sporgere da sotto una saracinesca mezza abbassata. Riesce a notare le unghie scheggiate e nere anche senza fermarsi, la pelle macchiata, rugosa, quella di un vecchio. Sulla vetrina successiva nota un cartello strappato che recita, o recitava, “prossima apertura”.
Si rende conto di essere sempre più lento, ma l’importante è non fermarsi. Ormai porta la borsa con entrambe le mani, la trascina quasi, le spalle e i gomiti doloranti. I piedi faticano a staccarsi da terra, forse ha pescato una cicca, o i residui degli alberi, i pollini, la resina, non sa cosa pensare e non gli importa trovare una spiegazione razionale alla propria fatica, vorrebbe solo che avesse fine.
Per attraversare una strada, alza la borsa e la fa ricadere sul marciapiede successivo, dopo qualche passo affrettato su di un asfalto sciolto e colloso. Il dolore dal piede sinistro si è propagato a tutta la gamba, forse perché cammina storto, o forse per via di quella borsa che lo tira tutto sulla destra.
Quando svolta in una strada più grande ma altrettanto vuota, riconosce le file di insegne a led delle sale slot, le scritte OPEN blu e rosse che punteggiano la notte. Davanti a una di esse, un uomo è disteso lungo tutto il marciapiede, avvolto in stracci lerci e consumati. È costretto ad alzare le gambe e soprattutto la borsa per superarlo. Scavalca il corpo senza guardarlo in faccia, anche se non può evitare di distinguere i piedi scuri e gonfi, deformi.
Suda per la fatica e non solo per l’aria sempre più densa che lo circonda. Fa troppo caldo per il suo vestito, ma se si togliesse la giacca non saprebbe dove metterla. Lascia cadere la borsa che sembra sul punto di esplodere. Colpisce il marciapiede con un suono umidiccio e rimane lì davanti, impassibile. Sospira, la supera e si volta. La afferra con entrambe le mani e inizia a trascinarla sul marciapiede, procedendo di spalle.
I lampioni illuminano lo sforzo sul suo viso, i capelli che gli si appiccicano sulla fronte, i vestiti che lo avvolgono in un bozzolo di pieghe sintetiche e strati di sudore. Spinge sui talloni, tira con le spalle, le dita contratte attorno all’impugnatura della borsa, fino a che non gli cedono all’improvviso, per il dolore e la fatica.
Cade all’indietro, sorpreso più che sofferente per l’impatto con la superficie irregolare del marciapiede. Solo dopo qualche istante sente una fitta allargarsi nel cranio fino alle pieghe del cervello. Chiude gli occhi, sfinito, e rimane immobile, disteso a terra, la borsa ai suoi piedi.
Li riapre giusto in tempo per vedere un lungo artiglio peloso uscire dall’apertura laterale della valigetta.

“Homage to Redon” di Jimm Gerstman

Notte sulla città

“Considerate la natura di una città. È un immenso deposito di tempo, il tempo scartato da tutti gli uomini e le donne che hanno vissuto, lavorato e sognato e sono morti nelle strade, le quali crescono come un essere organico dotato di volontà, si schiudono come i petali di una rosa affondata nel sangue e tuttavia mancano così tanto di evanescenza da preservare il passato a strati casuali, così che questo vicolo è antico mentre quello che vi corre accanto è di costruzione recente, ma ciononostante è stato costruito sulle rovine sprofondate e interrate di quello più vecchio, forse dell’originale, intrico di vicoli che ha dato origine all’intero quartiere.
(Angela Carter – Le infernali macchine del desiderio)

Non avrebbe saputo dire il momento preciso in cui aveva iniziato a farci caso. In fondo era nato e vissuto in quella città, ne aveva percorso le strade fin da bambino, e non era in grado neppure di datare con precisione l’inizio di quel senso d’inquietudine che aveva pervaso la sua vita trascorsa interamente in quella urbanità tentacolare. La città era vecchia, ma non antica. La sua trasformazione da piccolo centro in grosso agglomerato urbano che aveva fagocitato altri piccoli villaggi e frazioni risaliva a non più di un secolo prima, a seguito di un rapido sviluppo come centro industriale, una tendenza che poi era declinata dopo la prima metà del Novecento. Una crescita troppo rapida e traumatica perché la preesistente identità di architetture e comunità umana potesse confluire con naturalezza nella nuova veste moderna di una metropoli che si era accresciuta di cinque volte. Il centro urbano appariva come un’escrescenza tumorale di cemento e acciaio che si era espansa nel verdeggiante paesaggio della pianura circostante, per poi necrotizzarsi a seguito dello spopolamento progressivo e la scarsa manutenzione urbana. Questa tendenza all’incuria e al disfacimento era iniziata nelle sue aree periferiche per poi penetrare sempre più nel suo cuore. Dalle facciate scrostate delle case popolari alla periferia, il degrado strisciante intaccava giorno dopo giorno l’illuminazione e insidiava il manto stradale che si crepava attendendo mesi e persino anni per una sommaria e insufficiente manutenzione, così come accadeva per la linea metropolitana spesso in avaria.
Seppure malata, agonizzante, sempre sull’orlo di un annunciato collasso, la città sapeva rivelargli in certi momenti indizi di una vita segreta. Spesso, nelle notti insonni passate affacciato alla finestra del suo minuscolo appartamento, gli sembrava di udire, nel silenzio di quel paesaggio urbano così avaro di spazi verdi dove il canto degli uccelli era così raro, una sorta di ritmico ansare a malapena coperto dal suono delle sporadiche auto che circolavano nella notte. Talvolta percepiva una vibrazione bassa ma continua che si propagava uniforme dall’asfalto ai palazzi. Un qualcosa che, in modo sottile, risuonava sommesso in tutta la città e nei suoi stessi occupanti, ma di cui egli soltanto sembrava accorgersi.    Spesso riusciva a percepirla persino mentre viaggiava nei treni semi-deserti della metropolitana, che correvano sbuffando nelle gallerie sotterranee. Sotto il suolo pareva risuonare in modo più distinto. Quando passeggiava per le strade buie a tarda sera, gli sembrava che il vapore che usciva dalle feritoie sui marciapiedi andasse al ritmo di quel suono appena percettibile. E anche una volta rientrato a casa, quella vibrazione sotterranea sembrava riecheggiare nelle mura del suo appartamento, e in nessun momento del giorno o della notte quel ritmico pulsare appena percettibile lo abbandonava completamente, e spesso si sorprendeva a constatare come fosse stranamente in unisono con il battito del suo cuore.
Fu così che, in una sera come tante altre, la sua passeggiata irrequieta lo portò in una delle zone più desolate della città. Vecchi edifici figli di un piano regolatore mai nato e di lottizzazioni selvagge inframmezzavano una bassa collinetta coperta di erba giallastra e malsana. Palazzi che non superavano il quinto piano dalle facciate abbandonate all’incuria e ai segni del tempo, strutture tubolari di amianto velenoso mai rimosso ne ornavano le facciate. Niente scale di sicurezza, solo tante finestre in forma di cellette soffocanti da cui filtravano luci elettriche fioche, o forse erano i vetri sporchi a renderle opache. Non gli giungevano i rumori della vita stipata in quei palazzi, ma il suono del vento, che in quel punto della città spirava più forte, e qualcosa più in sottofondo ma che di minuto in minuto cresceva, una sorta di sordo brontolio, tra un russare asmatico e il respiro inquieto di un’invisibile entità colossale. Aggirandosi tra gli edifici, nelle ombre della sera calata quasi del tutto ormai, si sentì disorientato, smarrito, piccolo e inerme come non mai. Già spaventato dalla brulicante umanità della città, la sua apparente calma nel crepuscolo la trovò ancora peggiore, una promessa di minaccia, violenza e alienazione. Ebbe d’un tratto timore guardando le sagome degli edifici, gli sembrarono troppo incombenti, instabili, come se potessero crollargli addosso da un momento all’altro, cercò di spostarsi rapidamente, ma sembrava che il brullo terreno erboso vibrasse sotto i suoi piedi, impedendogli la fuga. Sì, il terreno smottava, si corrugava, si agitava davanti a lui. Incespicò in una crepa che si apriva, mentre quel suono sordo aumentava d’intensità e ritmo. In ginocchio, levò ancora lo sguardo alle cime delle case, e le vide pronte a balzare su di lui, fameliche, ciclopiche, rapaci.

Nessuno seppe darsi una spiegazione. Eppure era senza dubbio accaduto.
Un intero quartiere alla periferia nord est della città era crollato senza alcun preavviso. Gli edifici, vecchi e fatiscenti ma privi di carenze strutturali accertate, si erano sgretolati come se una forza invisibile li avesse afferrati per le fondamenta e scossi con brutalità.
Era un quartiere vecchio e a bassa densità abitativa, tuttavia le vittime furono oltre un centinaio. Avvenne a ora di cena, quando quasi tutti erano in casa davanti alla televisione. Qualcun altro invece si attardava a rincasare. Fu impossibile, in quello sfacelo di calcinacci e mura sgretolate, capire con precisione chi era stato colto dalla morte tra le quattro mura e chi per strada. Fu impossibile anche identificare tutti i corpi.
Circolò una strana voce, per molti anni dopo la tragedia. Qualcuno che si era trovato affacciato alla finestra dall’altra parte della città e guardava in quella direzione dichiarò di aver visto la bassa collina su cui sorgeva il quartiere levarsi all’improvviso verso la luna, per poi riabbassarsi immediatamente, e le case accartocciarsi l’una sull’altra, come le molte dita di una mostruosa, ciclopica mano che per un attimo si era protesa al cielo.
Quando furono rimossi dalla collina tutti i materiali di risulta, i resti umani, le pietre, dopo che venne lavato via il sangue, e per molto tempo dopo che erano cessati l’urlo delle sirene e il rumore dei convogli, il pianto dei familiari e il vociare dei telecronisti, restò sospeso in quel luogo un suono appena udibile, un sospiro ritmico che pareva provenire dalla stessa terra.

Si era destato per un attimo infinitesimale dal suo sonno interminabile, dopo il parossismo di terrore raggiunto nel suo incubo. Come spesso capita alla fine di un sogno angoscioso, si era svegliato colto dalla sensazione terrificante di essere in caduta libera, assieme ai palazzi che aveva visto tremare su di sé e il terreno che si fendeva in preda all’attività tellurica. In quell’attimo di confusione e smarrimento forse aveva compiuto, non poteva esserne sicuro, un movimento involontario, a metà tra uno scatto e lo stiracchiarsi delle membra. Non poteva esserne sicuro, e non importava. Tornando all’incoscienza del letargo, rise tra sé dello strano sogno che aveva fatto, il suo ridicolo delirio di claustrofobia e paranoia. Forse era un suo inconscio desiderio assecondato dalla fantasia onirica, immedesimarsi nella vita piccola, claustrofobica e miserevole di un abitante delle metropoli, allo stesso modo di quando talvolta l’uomo sogna di essere una formica. Ma non importava più, ora. Contava solo poter tornare a dormire. Assopirsi e riposare. In dormiente attesa.

Hotel Bardo

Chiamatemi dottor ZETA. Sono uno dei pochi Psichiatri dei Morti in circolazione. Mi sono diplomato tanto tempo fa – non importa sapere con precisione quanti anni, quando ero un lettore di Melville, diciamo – e ora in missione QUAGGIÙ.
Il guaio, o principale “disturbo” dei morti è che una volta giunti qui – tra due righe o Bar-do – i trapassati diventano spettri ma non lo sanno, non vogliono sapere di essere SPETTRI.
Brividi di morte e una strana sensazione di bagnato. Nel punto intenso e feroce in cui il corpo di carne e sangue viene abbandonato e la vita va al di là, si ha come la sensazione di essersi liberati da scarpe troppo strette.
Finita l’agonia, si assume un piccolo CORPO MENTALE, quasi trasparente, in volo in corridoi di luce simili a sogni.
Et voilà: ecco giungere una vecchietta in una folata di vento. Nonna Lina, la chiamavano. Ci si accorge che è un nuovo arrivato perché sfreccia nel famoso TUNNEL DI LUCE con una tipica aria da rimbambita. Proprio come quella che hai tu PROPRIO ADESSO, caro lettore, anche se non hai subìto, per il momento, lo STRESS della morte come nonna Lina. Abbi fiducia, l’ORA giungerà certamente anche per te, chissà quando…
Ma lasciamo parlare Nonna Lina, questo morto fresco di giornata, tra tanti altri che spingono per entrare QUAGGIÙ. A capo nella morte dello SPAZIO BIANCO.
La solita solfa, ha attraversato tanti muri, la testa vuota da dietro, per dire: Oggi compio novantadue anni e non ho neanche un dente né i soldi per rifarmeli. Ha perso il senso del tempo, come in una routine della buonanima di Burroughs, e non sa che le è capitato di peggio. E continua: Ero un po’ pallida e affaticata e dovevo essere ricoverata. Una volta dentro poi, sono iniziati i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie. “Come va la nonna, dottore?”, chiedeva mio nipote.  “È molto debole, è anemica!”.
Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene fregava più niente!
Esattamente lo stesso motivo per il quale da diversi anni nonna Lina, prima di giungere qui, all’HOTEL BARDO, era rinchiusa in casa di riposo.
“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.
“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un ulcera o un tumore… dovremmo fare un’endoscopia”.
Scusate se m’intrometto. Ma che senso ha sottoporre una attempata signora di 92 anni a una gastroscopia? A chi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? E inevitabilmente la gastroscopia venne fatta perché i nipoti volevano poter dire a sé stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.
Dopo la gastroscopia finalmente mi dissero che avevo solamente una piccola ulcera duodenale. Ma quello che non posso perdonare è che i miei familiari fecero la spia al dottore confessando che la settimana prima avevo mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, …sa, è tanto golosa”.
La vecchia perse il ritmo del giorno e della notte e non era abituata a dormire in una camera con altre tre persone, né a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambiava il turno degli infermieri, non era abituata a essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventavano un incubo, che ora sono realtà.
Nonna Lina che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida e affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte era sveglia come un cocainomane. Parlava alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifaceva il letto dodici volte, chiedeva di parlare col direttore dell’albergo, chiedeva un avvocato perché detenuta senza motivo. “Ma perché mi detenete qui, all’HOTEL TERMINUS, senza motivo. Voooglio vedereee il Direttore”.
All’inizio le compagne di stanza ridevano, ma alla terza notte minacciarono il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Cominciò quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna venne finalmente messa a dormire.
“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.
Tutto questo continuò fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna si addormentò senza la puntura di Talofen. “Dottore, la vecchina del 12 non respira più”. Fu allora che giunse QUAGGIÙ.

Solo adesso crede di ricordare. Vede un corpo, il suo, che sta all’obitorio N° 1 e non lo riconosce. Messosi in fila, perché c’erano tanti morti, il nipote chiese ai becchini di portargli la cara salma per sbloccare il suo iPhone. Conteneva le foto della famiglia e forse le indicazioni per sapere dove la vecchia aveva nascosto il testamento, le voleva. Prese il pollice freddo di nonna Lina e lo appoggiò sullo schermo, però non riuscì a sbloccarlo, funzionava solo con le persone vive. E nonna Lina non lo è più. Però vede il nipote fare tutte quelle manovre e crede di sognare.
Ma perdonate un momento. Sul Pianeta in bilico, scoppiano tante guerre, l’ultima nell’Est europeo, e arrivano tanti CORPI MENTALI di morti, anche di donne e bambini stuprati e impiccati, mentre la Terra è cosparsa di sangue. Ecco perché questo tumulto QUAGGIÙ, nel Bar-do. Sono i Vampiri che si ribellano e minacciano lo sciopero perché ritengono intollerabile TANTO SPRECO DI SANGUE. Si vede che sono parsimoniosi, hanno il senso dell’economia.
Ma torniamo a nonna Lina, ha bisogno delle mie cure perché si sta accorgendo di essere morta e non sa che fare. La sua coscienza, il KA libero come un uccellino dal corpo fisico è come sospinta verso nuove reincarnazioni dalla turbinosa energia sottile dei ricordi delle passate azioni. Mi avvicino e le sussurro che sono solo immagini prodotte dalla sua testa vuota. “Ma allora sono morta?”. Dice, o meglio grida e stride con bocca scomparsa, non so se la sentite. E si agita, si dimena. Credete al vostro Psichiatra dei Morti. Una delle cose più difficili, nel nostro mestiere, è tener fermo un morto. Mi sfugge. Forse cercherà un corpo da abitare e qualcuno a cui succhiare un po’ di tempo. Magari solo il tempo di una lettura. Chissà dov’è finita. Spero non dentro di te, lettore, attratta dal tuo odore.

Fotografia di Oana Stoian

 

 

 

Re Corpulento – Necronautica V

“Circolano un sacco di storie su di me… alcune sono divertenti, altre meno, ma chi sono io per giudicare? Quella che preferisco l’ho sentita da un mio fan, un decarabiano che si era fatto amputare la mano per superare le guardie del corpo e chiedermi l’autografo… Insomma, viene questo tizio, firmo una mia xilografia su legno del Cocito, gli regalo un laccio emostatico per fermare quel sangue che gli esce a fiotti in attesa che si faccia vedere da un Aberrazionista e faccio per liquidarlo. Lui tentenna un istante e credo che sia prossimo a svenire ma in realtà sta solo prendendo coraggio… quindi mi chiede: «Ma è vero che il tuo cazzo è così grosso che hai dovuto smettere di indossare le mutande perché ogni volta che ti viene duro le rompi e ne devi buttare almeno quattro ogni giro di luna abissale? ». Scoppio a ridergli in faccia mentre i ragazzi della sicurezza lo portano fuori per mozzargli l’altra mano.”

Tratto da “Intervista al dannato John Curtis Holmes”, dell’inviato Gamiacco da Messalinopoli, Luciferovisione, Anno non pervenuto.

L’ultimo bel ricordo che ho di lei è quello di un mattino di metà settembre. La luce del sole entrava dalla finestra della camera da letto e io, avendo il viso rivolto verso di essa, mi svegliai. Erano le sei perché controllai anche l’ora e poi mi girai verso la mia donna. Quando ci eravamo addormentati ci eravamo avvinghiati, come a volerci sostenere, poi però si era spostata durante il sonno e in quel momento si trovava raggomitolata come in un’approssimativa posizione fetale. Le toccai il braccio scoperto e mi accorsi che era freddo, allora la strinsi tra le braccia e lei, con gli occhi socchiusi, borbottò qualcosa di sincero nel dormiveglia e si addormentò posando il viso sul mio petto. Ci saremmo svegliati un’ora più tardi. L’ultimo bel ricordo che ho di lei, dicevo.

Adesso non c’è nulla di più bello di una visita alla Cittadella di Lilith, la Las Vegas di Pandemonium, così come la definiscono i dannati arrivati qui dalla metà del Novecento. Coacervo di case chiuse, di grattacieli dalla disperata forma fallica, di negozi di oggettistica pseudo-sessuale, di case di produzione teratopornografiche e di set demonovisivi gestiti da attori morti di AIDS o di overdose, di bordelli dove schiavi di qualsiasi sesso e forma sono obbligati a vendere il proprio corpo agli esemplari più poveri e disgustosi della Capitale, di campi di sterminio governati dalla Divisione della Totalizzazione Onanistica, di cabine della castrazione, di cliniche di bruttezza e chi più ne ha più ne metta.

Il quartiere fu concepito dalla Stella del Mattino in persona per fare un regalo a quella puttana ingestibile di Lilith quando, non molto tempo dopo la Caduta, espresse il desiderio di una zona tutta sua dove poter fornicare, fare soldi e spartirsi una fetta di potere. Nella Cittadella è la pornocrazia a governare, non la solita e annoiata demonocrazia fatta di titoli nobiliari, di casate, questioni etniche e sangue nero più o meno puro misti a tante altre diavolerie che potete benissimo trovare un po’ dappertutto. Qui più si è troia e più si comanda, ovviamente con il benestare della padrona di casa e non sono infatti pochi gli arrampicatori sociali che si sono ritrovati a trascorrere lunghi periodi di prigionia in un’arena delle Succubi o in una cella dell’impotenza nelle profondità del Penitenziario di Priapo in via degli Acri di Pelle.

Personalmente non me la passo male e mi trovo ormai spesso a bazzicare da queste parti anche se non sono riuscito a trovare casa come desidererei. I prezzi non sono più abbordabili come una volta da quando hanno sospeso la Festa della Decimazione per incentivare le nascite degli ibridi e sovrappopolare certe aree di Pandemonium. Per questo motivo è piuttosto complicato per un dannato della media borghesia come me trovare un monolocale o perfino un infimo loculo in stile Cavalcanti; case libere quasi non se ne trovano e case vuote costano più di un intero set di organi messo in vendita sull’Infernet. Già, sono solo uno dei tanti alla fine ma, come ho detto, non me la passo male. Quando ero in vita facevo il chirurgo e allora sì che ero ricco. Ora non ha più senso, lo so, ma noi comuni dannati abbiamo ereditato questa pessima abilità nel ricordare tutto delle nostre vite precedenti.

Qualche tempo fa questo perfetto signor nessuno che sono diventato si è innamorato. L’amore tra i dannati  è raro ma ancora più raramente è duraturo, non tanto a causa del normale virtuosismo sentimentale che anche la nostra non vita ti fa prendere, quanto piuttosto per i capricci del caso infernale. Mi chiamo, cioè mi chiamavo, Aleksandr Ushakov. Vivevo e lavoravo a Brjansk e c’era Stalin al potere. Lo stesso pupazzo baffuto che adesso mostrano in demonovisione a occuparsi dell’Holodomor per conto dei diavoli del Dipartimento delle Carestie Pubbliche. Le mie giornate da vivente trascorrevano monotone tra le riunioni dei medici del partito, le battute di pesca sul fiume Desna, gli interventi nell’ospedale locale e una ragazza che non mi ero ancora vigliaccamente deciso di sposare. Quella sospensione nella quale vivevo si interruppe quando i nazisti invasero il paese nel 1941 e occuparono la mia città. Gli hitleriti mi catturarono e trascorsi anni in un campo di prigionia dove me la cavai essendo medico. Alla fine l’Unione Sovietica vinse e il compagno Stalin ci fece liberare ma dopo qualche tempo fui arrestato e interrogato. Me la cavai ma decisi che era il caso di cambiare aria quindi, grazie all’aiuto di certi amici, raggiunsi prima la Turchia, poi il Portogallo e infine andai a vivere negli Stati Uniti d’America dove ero conosciuto come Alex Doyle. Nome falso, curriculum semiserio, cittadinanza falsissima.

In cambio di questi favori fui preso a lavorare presso certi figuri della malavita ucraina di New York. Questi sapevano che ero russo ma mi presero in simpatia perché mi davo da fare come medico. Li ricucivo senza fare troppe domande ogni volta che restavano coinvolti in qualche sparatoria o in qualche rissa. Ero il medico personale di alcuni boss e venivo pagato bene. La mia identità fittizia mi permise di superare indenne l’ondata di maccartismo degli anni ’50 ma poi… ecco, si arriva sempre a quel fottuto “ma poi”.

C’era questa donna che mi ricordava terribilmente la mia ex fidanzata di Brjansk. Era la moglie di un tale Leonid che si occupava di riciclaggio e soffriva di ipocondria. Mi piaceva da morire quel paio succoso di seni che strabordava dal vestitino da casalinga con cui si presentava quando andavo a trovare il marito. All’inizio provavo per lei una forte attrazione sessuale che era perfino ricambiata dagli sguardi che mi lanciava ogni volta che capitava che rimanessi in casa da solo con lei mentre quell’imbecille di Leonid si faceva misurare la pressione; poi capii che mi stavo innamorando. Ci scrivevamo lettere d’amore di nascosto, bellissime e forse un po’ innocenti. Ero ricambiato anche in questo. Decidemmo di fuggire insieme e lasciarci alle spalle gli ucraini e i loro traffici. Lei, inoltre, voleva a tutti i costi affrancarsi dal marito che la malattia psicosomatica aveva anche reso impotente. Si chiamava Daryna.

In quel giorno di settembre di cui parlavo all’inizio ci incontrammo in un motel nel New Jersey. Facemmo l’amore fino all’alba e poi ci addormentammo come due sposi in luna di miele. A mezzogiorno due scagnozzi di Leonid fecero irruzione nella stanza e ci portarono via. Non seppi più nulla di lei fino a, diciamo, poco fa. Quanto a me, invece, fui legato mani e piedi e caricato in una Buick con destinazione ignota. Mi strangolarono dalle parti di Trenton, lasciandomi credere che mi avrebbero riportato a casa dove avrei dovuto chiedere perdono a Leonid. Dopo la morte mi tagliarono i genitali e mi li spinsero a forza nella gola. Curioso come faccia a saperlo.

Mi svegliai in una gigantesca latrina dove una specie di stronzo parlante, che seppi poi essere un Escrementale, mi annunciò candidamente di essere finito all’Inferno. Dovete sapere, ma solo per cronaca, che sono qui non perché ho desiderato banalmente la donna d’altri, cioè, probabilmente anche per quello, ma principalmente perché mi occupavo anche di mercato nero degli organi lì a New York. Ma sono solo dettagli. Alla fine macellavo personaggi di poco conto per i loro reni. All’epoca quelli andavano per la maggiore ed erano i primi organi che sulla Terra si potevano trapiantare. Dettagli, come dicevo.

Inutile dilungarsi sulle mie peregrinazioni in questo altromondo fatto di gioia sanguinosa e caos; importante è sapere che sono sopravvissuto ma tutti qui sono costretti a sopravvivere, almeno noi dannati. Diversamente da tanti derelitti che dividono con me questa esperienza infinita, mi sono fatto strada anche se conto di essere stato ammazzato e poi riconfigurato almeno una dozzina di volte. Sono stato schiavizzato prima nelle piantagioni di Latte del Tartaro e poi nella costruzione di Demonomati meccanici presso la Premiata Fabbrica Demonomatica #68924 del Quartiere Albert Fish dove, mentre azzardavo una chirurgia per fermare l’emorragia di un mio sfortunato collega che si era beccato lo schizzo di uno Spermageist in calore, uno dei guardiani mi notò e mi fece trasferire come aiutante in una delle scuole di apprendistato degli Aberrazionisti dove trascorsi anni interminabili a ripulire interiora e insegnare tecniche di sutura alle matricole. Avevo uno stipendio miserabile ma arrivai a potermi permettere di salire un po’ nel sistema delle caste che regolano la vita di Pandemonium.

Iniziai così a trascorrere il tempo libero nella Cittadella di Lilith. Iniziai a farmi conoscere nei locali e la mia lussuria nel cercare piacere carnale che mi permettesse di dimenticare la negazione della mia non-esistenza anche solo per un istante, mi permise di intavolare qualche interessante relazione anche se solo sessuale con altre donne, dannate come me; poi, però, ho visto finalmente qualcosa che non mi sarei mai aspettato.

Mi trovavo allo Spitfire Club, un locale per scambisti dove demoni minori possono provare il brivido di vivere un po’ di tempo come dannati scambiando cioè il loro ruolo di dominatori in quello di dominati. Il locale è aperto anche a quelli come noi, pagando il giusto prezzo, e chi non è costretto a rinunciare a un paio di occhi per una scopata o a qualche chilo di cartilagine, può tranquillamente pagare una quota di iscrizione senza ritrovarsi disteso su un tavolo da dissezione.  Lì ho rivisto Daryna e possa io sprofondare nel più profondo degli Inferi se non sostengo il vero. Ah già. Diciamo che lo giuro allora sulla testa ormai putrefatta della mia buona babushka.

Era lì, sul palco. Un Corpulento le palpava il culo tatuato mentre, vestita da dominatrice in un costoso completo in vera pelle del marchio Ed Gein, frustava con un cerbero a tre teste di cazzo e nove paia di palle il fallo flaccido di un Fragilificatore in libera uscita. Il disgraziato emetteva zolfo dalle narici mentre la versione dannata di Daryna iniziava a strizzargli il doppio paio di capezzoli che aveva sul petto. In tutto ciò mi ero avvicinato parecchio al palco e il suo magnaccia, quello che la palpava con quegli arti cascanti tutto grasso e niente muscolo, se ne accorse e rivolto a me cominciò a sibilare.
“Rimani al tuo posto inutile testa di cazzo!” disse.
Daryna si voltò un attimo e parve riconoscermi ma non si scompose e continuò il suo turpe lavoro procedendo a inzaccherare la faccia scomposta del Fragilificatore con interiora di Pesce Mucoide che prendeva a grandi mani da un secchio lì vicino. Il demone sorrideva tirando fuori la lingua biforcuta che prontamente Daryna stuzzicava con le sue lunghe unghie ricostruite.
“Ti ho detto di stare indietro verme!” urlò ancora il Corpulento sputando una massa di colesterolo dalle labbra e agitando maniacalmente un manganello.
Un buttafuori, un Centauro a Sei Zampe con il simbolo dell’occhio della provvidenza tatuato sul collo muscoloso, iniziò ad avvicinarsi minaccioso. Alla fine mi fece in disparte pronto a cogliere il momento opportuno.  Fu il momento a trovare me.
Mentre ero al bancone a trangugiare l’ennesimo cocktail di Locusta Fermentata nel Midollo di Dannato, il barista iniziò a puntare una figura alle mie spalle sghignazzando qualcosa che non recepii a proposito di profilattici ritardanti con l’Amanita nigra. Mi voltai e la vidi.
“Alex”
“Daryna”
Non dicemmo nulla per un po’ mentre il barista continuava a sganasciarsi e si metteva gli artigli sulla patta dei pantaloni simulando una sega.
“Da quanto tempo?”
“Troppo, Daryna, troppo… quasi un’eternità” risposi io poggiando il drink consumato a metà sul banco con il barista che adesso, non trovando di meglio oltre allo sfottermi, aveva infilato il cazzo macilento in uno shaker e se lo scopava non resistendo alla tentazione di segarsi.
“Vieni con me. Parliamo in un posto più tranquillo”
Mi portò in quello che doveva essere il suo camerino e mi pregò di parlare piano perché il suo pappone, quella massa di lardo e di negazione di Dio che la accompagnava sul palco, era nei paraggi. Mi raccontò la sua storia e io le raccontai la mia. Dopo essere stata ricondotta con la forza da Leonid era stata stuprata dai suoi sottoposti, ripudiata come moglie e allontanata con venti dollari che l’ex marito le aveva infilato in bocca come gesto umiliante. Aveva vissuto ai margini della società per qualche tempo, non potendo chiedere aiuto a nessuno e dandosi alla prostituzione. Alla fine si era procurata una pistola in un banco dei pegni e l’aveva usata prima su Leonid e le sue guardie del corpo e, infine, su se stessa. Di me non aveva saputo più nulla ma immaginava che mi avessero ucciso.
“Ti ricordi quando abbiamo fatto l’amore lì nel motel? Ti ricordi quando ci siamo addormentati abbracciati e all’alba ti ho svegliata per caso e mi avevi detto qualcosa per poi riaddormentarti?” le chiesi senza bisogno di sapere altro da lei.
“Ti dissi ti amo”
“Già. Ti amo pure io. Quella volta non ti risposi, te lo dico adesso” scoppiammo a piangere entrambi e ci baciammo. Bussarono alla porta.
“Che cazzo stai facendo?” urlò il bastardo che avevo iniziato a pensare di uccidere.
“Nulla mio padrone, mi sto preparando per il prossimo incontro” rispose Daryna con voce tremante mentre si asciugava le lacrime. Il Corpulento entrò lo stesso nella stanza.
“Tu adesso mi spieghi che cazzo ci fai qui dentro con lei, altrimenti ti mando a leccare le vagine delle Puttane della Congrega di Babilonia per l’eternità” e senza che potessi rispondergli allungò uno dei suoi arti molli e mi scaraventò fuori.

Sentivo Daryna urlare mentre il Centauro a Sei Zampe di prima mi lanciava nel vicolo tra l’ilarità dei presenti e quella del barista che era uscito per fumarsi una Cancerogena Filtro Zero.
“Non farti più vedere” nitrì il buttafuori cercando con gli occhi equini l’approvazione degli astanti che se la ridevano di brutto nel guardarmi crollato in mezzo alla spazzatura. Rimasi fermo in quella posizione per un po’, con gli occhi alla porta che nel frattempo era stata richiusa. Visto che non c’era altro da fare, i presenti mi ignorarono e il barista rientrò nello Spitfire gettandomi addosso la cicca ormai spenta. Una figura di bassa statura mi si avvicinò. Era un anziano dannato vestito con un abito da pagliaccio del circo.
“Stai bene fratello?” mi disse con la bocca sdentata di chi è stato pestato più volte.
“Sto bene, grazie” risposi rialzandomi.
“Serve qualcosa fratello? Qualcosa per rimetterti in piedi? Qualcosa per il cazzo? Ho tutto quello che ti serve nel mio negozio dietro l’angolo” continuava a dire quello. Era un indù.
“Ho bisogno di qualcosa che possa uccidere un Corpulento”.

Risultò che il demone che aveva comprato Daryna non era un magnaccia qualsiasi ma un personaggio noto nell’ambiente della Cittadella di Lilith come Re Corpulento. Si trattava di una massa adiposa e disossata nata dalla fantasia degli Aberrazionisti per dotare la categoria dei Corpulenti con una quantità maggiore di colesterolo e trigliceridi onde poterne utilizzare il grasso in eccesso come fonte energetica e materiale di consumo. Re Corpulento era il primo di questi prototipi ma il Dipartimento del Dispendio Energetico di Pandemonium aveva decretato che la loro produzione era troppo onerosa, quindi il progetto fu abbandonato e i prototipi esistenti messi in libertà. Il Re era diventato famoso come il più lascivo e narcisista degli esemplari della sua specie e diventò anche famoso per aver divorato e defecato tutte le sue amanti. Coinvolto, come spesso accade, in un giro di teratopornografia, aveva avuto successo ed era diventato il direttore dello Spitfire Club dopo aver letteralmente ingoiato il precedente titolare.

Tecnicamente non è possibile uccidere un demone ma dovete sapere che all’Inferno, quando ci si trova a che fare con demoni minori, quindi con individui che non hanno né origini angeliche né origini che potremmo definire “naturalmente” infernali, la cosa è fattibile utilizzando una qualsiasi arma. Possono morire, insomma, come le persone sulla Terra. Il problema è che ai dannati è negato il possesso di qualsivoglia oggetto in grado di danneggiare un demone, maggiore o minore che sia, tranne che per motivi di lavoro o in caso di ordine diretto da parte di un’autorità; così recita l’articolo di legge vattelapesca. La pena, in caso di violazione, prevede di diventare materiale da costruzione per l’eternità.

L’indù non si rivelò utile in alcun modo. Aveva conoscenze ma di sicuro inferiori rispetto alle mie e, temendo potesse denunciarmi, lo mandai a quel paese facendogli credere che i miei erano deliri da buon dannato russo ubriaco. Mi rivolsi a un dannato piuttosto famoso e al tempo stesso affidabile di cui non farò mai il nome ma che mi aiutò in passato e che avevo avuto la fortuna di conoscere mentre era ricoverato in ospedale a Brjansk durante la seconda guerra mondiale quando ero ancora in vita, prima che mi imprigionassero i tedeschi. Diciamo che certi fucili d’assalto che si usano ancora sulla Terra portano il suo nome.

Eccomi qui, insomma. All’uscita dello Spitfire Club con un improbabile cappotto di lana di Fecaloma che mi serve per nascondere il preziosissimo AK-74 artigianale con cui sfracellerò Re Corpulento. Il piano è semplice e si giocherà tutto sull’effetto sorpresa in quanto nemmeno la mia cara Daryna conosce le mie intenzioni ma mi è bastato scambiare quelle poche parole con lei per capire che, a costo di finire trasformato in un mattone di carne, il mio scopo è quello di liberarla e prenderla con me. Magari poi ce ne andremo a vivere fuori dalla Capitale visto che a Pandemonium tirerà una brutta aria e ci cercheranno. Potremmo raggiungere qualche piantagione di schiavi nella Regione Meridionale oppure andare a nasconderci nei territori selvaggi della Grande Desolazione. Il nostro avvenire è segnato dal successo.

La mia idea è quella di aspettare l’uscita della coppia dal locale. Ho scoperto la vettura del grassone che non poteva non avere un modello di demonobile fuori misura in grado di trasportare il suo culo. Daryna è tenuta nella villa di Re Corpulento ed è sempre costretta a seguirlo, almeno fino a quando il demone non si stancherà di lei e sceglierà un nuovo giocattolo per i suoi clienti, ma non posso attendere. La mia missione è chiara. Io sono determinato. Sono pur sempre un uomo e sono deciso a mantenere la mia superiorità su queste creature del cazzo che Dio ha creato nei suoi momenti di noia. Nemmeno l’Altissimo potrà punirmi perché sono già all’Inferno e nemmeno il Bassissimo potrà farlo perché ci renderemo irreperibili e il suo Terzo Occhio non si poserà mai su di noi. Lo giuro su tutto ciò che mi è più chiaro. Lo giuro su Daryna, la donna della mia vita e della mia non-vita.

Sono nascosto nel buio del parcheggio senza attirare l’attenzione di una coppia di Asimmetrali che vomitano all’unisono in preda ai fumi di chissà qualche bevanda del cazzo. I due finalmente si allontanano barcollando e rimango da solo. Passa un giro di luna abissale e non arriva nessuno tranne un macilento dannato che trascina la propria carcassa a bordo di un carretto di legno. Mi passa accanto senza guardarmi e mi accorgo che non può farlo perché non ha più i bulbi oculari per vedermi. Chiede a gran voce elemosina ma scompare dietro l’angolo proprio mentre la porta posteriore del Club si apre e adesso vedo Daryna che procede, al guinzaglio, alle spalle di un corpo più o meno informe che ciondolando raggiunge la macchina. Non posso sbagliare.
“Tu” dico avvicinandomi con passo svelto e tirando fuori l’arma.
“Tu, grandissimo…” sta per dire Re Corpulento.
Lo mitraglio con una scarica di colpi che in buona misura finiscono attutiti dalla sua massa grassa ma che, dopo una seconda scarica, fanno il loro lavoro.
L’amorfo cade a terra sfrigolando ma tenendo ancora la mano serrata sul guinzaglio che tiene legata Daryna. Una terza e ultima scarica di proiettili artigianali la tagliano in due all’altezza di quello che dovrebbe essere il polso.
La mia donna è confusa ma realizza subito chi sono.
“Amore, Alex… Aleksandr… sei venuto a prendermi…” e singhiozza dalla contentezza avvinghiandosi a me come quella volta in cui andava tutto bene.

Mi godo l’epifania di quel momento. Vorrei che il suo abbraccio non finisca mai. Vorrei che tutto si congeli in quell’istante, che dimenticassimo la nostra condizione di dannati e che sia l’intero Inferno a congelarsi intorno a noi.
“Sono qui. Sono qui per te. Adesso andremo via” le sussurro.
“Moya lyubov…” mi dice in ucraino.
E mentre raggiungiamo la macchina del suo padrone di cui ormai saranno i Vermi Latrinosi a occuparsi, mentre entro nell’auto sorridendo perché il nostro futuro insieme finalmente è un’eterna realtà dalla quale non sarà un Leonid a svegliarmi, mentre tutto sembra scomparire, succede qualcosa di improvviso e brutale.

“Alekxandr!” urla Daryna che non è ancora entrata in macchina con me. Esco.
La vedo. Non è sola. Re Corpulento, viscido e inaspettato come l’antagonista in un film dell’orrore da drive-in americano, è sempre abbattuto, ma non è morto del tutto. Le sue fauci sono serrate sulle gambe di Daryna che giace a terra immobilizzata. Sta cercando di ingoiarla come farebbe un serpente. La sua mandibola si è perfino lussata nello sforzo di fagocitarla e dai suoi piccoli occhi neri, sepolti dalle palpebre colme di xantelasmi, sgorgano lacrime acide.
“Quand’è che muori?” gli grido lanciandomi sulla sua testa calva con il calcio del fucile.
Lo colpisco più volte fino a farne una massa ancora più informe di quella che era in origine. Alla fine sento uno strappo. Un rumore come di grosse forbici quando tagliano una risma di carta con un solo colpo. La presa è allentata e Daryna riesce a trascinarsi via. Senza gambe.
Dal ginocchio in giù non c’è nulla. Sono immobilizzato dal terrore e dalla rabbia.
Maledico il nome di Dio nella mia lingua.
Daryna mi guarda e sembra sorridere ma la sua è solo una smorfia di dolore mentre con le mani cerca di allontanarsi dalle fauci ormai spente di Re Corpulento.
Maledico il nome di Lucifero nella mia lingua. Lo sento ridere nella mia testa.
Daryna mi guarda e sembra sorridere ma è quella smorfia di dolore che le è rimasta impressa sul volto pietrificato dalla nuova morte.
I dannati non possono mai morire per davvero all’Inferno. Una regola che non può essere modificabile nemmeno dagli artifici più audaci dell’Occultomanzia. Ma Daryna non sarà più la stessa.
La raccolgo come si raccoglie la spiga di grano più preziosa della messe. Così leggera e così diversa adesso che la porto in macchina in una scia di sangue che chissà quanto dovrò lavorare per arrestare. La amo. La amo ancora. La amerò sempre.