Monstrumana, effequ

La parola “mostro” non è stata sempre usata per identificare qualcosa di orribile, spregevole, dato che in origine denominava semplicemente un “fatto, evento o persona portentosi, eccezionali, in senso sia positivo sia negativo”. Un mostro quindi è un “portento”, qualcosa che travalica le leggi della consuetudine per apportare, con la sua unicità, modifiche positive o negative alla società. Arricchirla? Abbrutirla? Chi lo sa, certo è che dopo l’avvento di un “mostro” niente sarà più lo stesso. Nella letteratura la creatura di Frankenstein ha dato un bel calcio al gotico dei castelli umidi e delle apparizioni spettrali per elargire materia di riflessione sull’etica scientifica. Di certo questo esempio è il più eclatante se si parla di creature letterarie al di fuori di ciò che viene ritenuto normale, ma il mondo delle storie riserva personaggi mostruosi che non sono semplici villain, né pure star da Freak show, come invece erano stati etichettati finora. Dracula, sotto questa prospettiva, non è un semplice succhiasangue, così come Mr. Hyde non è il semplice risultato di un esperimento.
Di scandagliare, sondare e reinterpretare la figura del mostro, si occupa il saggio che mi appresto a recensire quest’oggi, ovvero “Monstrumana” di Francesca Giro e Gaetano Padano, edito da effequ. 


Già dal titolo abbiamo la conferma che l’opera vuole avvicinare mostri celebri della letteratura agli esseri umani, come se noi non stessimo osservando uno strano fenomeno come “altro”, ma come se ci guardassimo allo specchio. I mostri presi in esame, infatti, vengono interpretati come la proiezione a livello più o meno sommerso della società e dei suoi mutamenti, dei tabù e dei turbamenti dell’essere umano.
L’opera presenta diversi mostri celebri a cui sono dedicati tre saggi che ne approfondiscono il background o tentano di dare un’interpretazione della loro genesi.
Il primo mostro celebre analizzato è il mostro di Frankenstein, e nei tre mini-saggi che lo riguardano vengono narrate le sue origini letterarie, il rapporto con il concetto di maternità che aveva Mary Shelley e la scandalosa richiesta della creatura al suo creatore affinché gli venga creata una compagna. Il più ricco di spunti mi è apparso questo ultimo tema , dato che molti degli episodi sulla vita dei coniugi Shelley erano noti e forse più interessanti per i neofiti.
Da un’autrice inglese si passa poi a un autore francese, Hugo, quando viene analizzata la figura del Gobbo di Notre Dame, la sua figura deforme e come essa viene percepita dalla società. Qui gli studi tra la vita privata di Hugo e l’analisi di come il gobbo agisce nel romanzo li ho trovati molto più bilanciati rispetto ai precedenti fra il senso di meraviglia suscitato da aneddoti curiosi e la riflessione stimolata invece su ciò che nasconde il mostro.
Lo shakesperiano Calibano è invece protagonista del terzo saggio, affascinante per via dell’analisi sulla lingua parlata dal mostro e come essa venne riprodotta nelle varie versioni del dramma fino a oggi. Le riflessioni sulle molte valenze della creatura, vista ora come un segno della mentalità coloniale, ora come mezzo di rivalsa proprio contro gli oppressori, sono davvero accurate.
Mr. Hyde, come controparte del Dr. Jekyll non poteva certo mancare in questa rassegna: alcune considerazioni sulla presenza femminile nell’opera di Stevenson e su come Stevenson stesso concepisse l’universo femminile sono un ottimo spunto di riflessione su come anche a distanza di anni, quando sembra che sia stato detto tutto su un libro, emergono ramificazioni possibili su ciò che la trama nasconde.
Dracula viene affrontato come una sorta di dispensatore di comportamenti “non convenzionali” nel romanzo: le donne si comportano molto spesso come gli uomini dell’epoca, mentre ogni tipo di relazione viene vista in modo distorto. Interessante quindi l’interpretazione “alla larga” dell’opera di Stoker come un romanzo con elementi “queer”.
Gollum è il protagonista del quinto saggio, che ne traccia esaustivamente l’identikit non tralasciando nemmeno le fonti del suo esprimersi per enigmi.
Uno dei saggi più interessanti riguarda Sophie Fevvers, personaggio freak di un romanzo “Notti al circo” di Angela Carter anche per le interessanti considerazioni sul fenomeno dei Freakshow che si sono trascinati fino agli ultimi anni del ‘900, nonostante il progressivo considerare le stranezze normali casi clinici.
Di nuovo si parla di esseri femminili considerati mostruosi con tutte le implicazioni e le ramificazioni di questo vocabolo nei saggi dedicati a Medusa (un vero must la parte dedicata a come questo mostro venisse considerato nel Romanticismo), alla vampira Carmilla e alle sirene.
Da ultimo è interessante come rilettura del fenomeno, il saggio sulle case infestate e sui fantasmi.
Monstrumana non è un’opera in genere per tutti i palati: ad esempio molte riletture orientate verso il femminismo potrebbero far storcere la bocca a chi si è nutrito per anni di una visione “classica” dei mostri esaminati, ma se la creatura insolita può generare riflessioni, scioccare e ispirare, dico, perché no? Perché non aggiungere anche questo tassello alle innumerevoli interpretazioni che si sono avvicendate nel corso degli anni? C’è chi ha visto una sorta di rito sessuale nell’atto di Dracula di far bere il proprio sangue a Mina per vampirizzarla, come c’è chi ha visto nel mostro di Frankenstein una sorta di spauracchio da usare in una campagna contro gli OGM. Una prospettiva insolita, un punto di vista totalmente fuori dal consueto, può quindi solo arricchire, oltre che destare qualche reazione avversa, proprio come i romanzi in cui figurano i mostri di cui si sta parlando.
Forse al saggio manca la figura dell’alieno, ma capisco la volontà di mantenersi su un filone gotico senza aprire portali dimensionali che danno su un intero universo fantascientifico, e poi già la parola “alieno” in sé avrebbe finito per reclamare un saggio a parte.
In generale la lettura può essere stimolante per chi conosce già la materia e desidera un approccio diverso, come per chi invece vi si affaccia per la prima volta.

Costellazioni familiari, di Ana Llurba

Eris Edizioni dà alle stampe un nuovo libro di Ana Llurba, scrittrice sudamericana New Weird, dopo il romanzo La porta del cielo, già recensito in questi luoghi un po’ di tempo fa. Questa volta l’autrice si cimenta in una serie di narrazioni brevi, dal titolo Costellazioni familiari, come uno dei racconti presenti nella raccolta. Se La porta del cielo si focalizzava su tematiche vagamente legate alla fantascienza, le storie contenute in questa opera tendono ad abbracciare un immaginario fantastico più ampio, sotto l’insegna del perturbante. Il primo racconto, Sulla sponda, è un vero e proprio inizio col botto, narrando le vicissitudini di una prostituta transessuale alle prese con situazioni pulp, ricchi raver senza scrupoli che vogliono farle la pelle e misteriose creature che si nascondono sulle rive di un fiume: qui la Llubra dimostra di essere a suo agio con tematiche care a film di Tarantino e situazioni estreme che mi ricordano molto lo splatterpunk anni Ottanta, ma con quel pizzico di sovrannaturale e pessimismo che mozzano sul nascere il sorriso generato dalle vicende paradossali e sfrenate. Il ritmo è un crescendo incalzante, martellante come un pezzo gabber in cui situazioni paradossali e scene di violenza nel party sfrenato per il quale la protagonista viene ingaggiata come escort non sono la cosa peggiore che capiterà di leggere; il finale lascia un alone di mistero e sensazioni cupe, nella sua risoluzione-non-risoluzione, e come struttura forse questa storia è una delle più riuscite della raccolta.

Nel secondo racconto, La cosa più simile alla felicità, è lo straniamento a farla da padrone, perché la vicenda viene narrata dalla prospettiva di un registratore di cassa affezionato a una commessa del negozio, sullo sfondo di una non ben precisata pandemia. La tecnologia sempre più parte della nostra vita è rappresentata come senziente, anche se vi è una sorta di incomunicabilità con gli esseri umani, soprattutto quando viene inutilmente usata per difendersi dalla circolazione di un virus: la scena in cui un drone inviato a fare la spesa in un negozio paga una confezione di tonno in scatola per usarlo come proiettile e distruggere una telecamera a circuito chiuso in spregio agli umani è potente ed emblematica.

Andando avanti con le storie la Llurba lascia intendere che queste siano legate da un filo rosso, si fa riferimento ad alcuni elementi che si ripetono, oppure questi vengono utilizzati semplicemente come mattoni per una sorta di “combinatoria” sullo stile di Calvino. Ad esempio la pandemia, il concetto di virus ricorre in Io e Roberto, un racconto di zombie ben congegnato, che mi ha ricordato film come Open Grave o Epidemia Mortale oppure in La vita eterna, in cui la protagonista è certa che la sua migliore amica sia un vampiro. Questo ultimo racconto affronta le inquietudini adolescenziali, i tentativi di ribellione di due giovani per non sottomettersi alle convenzioni del “sistema” che ben presto si scontrano con la vita reale. Il vampirismo diventa un residuo dell’età delle fiabe, un “virus” anche virtuale che si insinua nella vita adulta della protagonista, una sorta di scappatoia dalla monotonia che la società vuole imporre.

Il tema della magia nera invece viene esplorato in Le buone maniere e Le vergini nere, quest’ultimo, per l’equilibrio e l’atmosfera plumbea è un vero gioiellino. In entrambi i racconti le protagoniste sono due donne di servizio legate a credenze indios fuori dal loro ambiente: una al servizio di una vecchia anoressica stramba, l’altra di un artista berlinese che nell’armadio ha due inquietanti statue di cera  raffiguranti due gemelle. L’arte combinatoria della Llurba, ovvero situazioni simili ma mai uguali, come animali che si suicidano o culti di fanatici degli extraterrestri, fa piombare il lettore come nella stanza degli specchi di un luna park abbandonato. È come se l’autrice volesse ipnotizzarci storia dopo storia con una sorta di deja-vu, come se i protagonisti fossero reincarnazioni dei personaggi di racconti precedenti e tutto si reiterasse in una sorta di mantra. Ellis Rocket e Nazareth a mio giudizio sono un po’ gli anelli deboli del libro: il primo l’ho trovato troppo “lynchano”, criptico nella sua messa in scena, mentre il secondo appare poco più di un divertissement. Sull’autostrada riprende il classico viaggio on the road di una famiglia allo sfascio in cui accadono episodi strani senza alcun tipo di spiegazione, senza dubbio il finale apertissimo e incomprensibile può far storcere il naso ad alcuni, tuttavia l’atmosfera onirica creata sapientemente rimane una certezza in questa lettura.

In genere la scrittura asciutta e semplice si dipana in una introduzione lenta, è un elemento fondamentale per creare ambienti e delineare personaggi, per poi far mutare repentinamente le situazioni nel giro di poche frasi. Questi racconti, proprio per tale motivo, devono essere letti con attenzione, perché il loro ritmo non si spezzi e quindi sono un intrattenimento che richiede però anche un certo impegno. Come ho accennato, in alcune storie il finale arriva ex abrupto, quando meno ci si aspetta, e molto spesso è aperto, sin troppo aperto, tanto da lasciare il lettore spiazzato (come è ovvio che accada), ma anche un po’ deluso. È il caso di Costellazioni familiari, o in Villa Anhita Ruin Porn in cui forse la soluzione della vicenda arriva troppo rapida. L’ultimo racconto, La tregua, è forse il meno cupo della raccolta e quello che concede di più al grottesco, riprendendo la tematica fantascientifica sugli alieni e su fazioni opposte di culti (gli Immacolati e i Listeriani) che vogliono liberarsi dei microbi o li venerano. I protagonisti delle storie molto spesso si presentano da sé, con un io narrante e sembrano mettere in scena in chiave Weird e cupa le fasi della vita: l’infanzia, la pubertà, la vecchiaia. Nessuno dei protagonisti viene risparmiato dal dolore, dalla struggle for life destinata spesso a finire miseramente; spesso i personaggi sono devastati da problemi quotidiani o crisi esistenziali su cui si impiantano situazioni sovrannaturali che aggravano la loro condizione facendoli diventare qualcosa d’altro, oppure sempre tali problemi sorgono all’interno di situazioni già compromesse: mondi devastati dall’apocalisse, disagio sociale da cui non ci si può riscattare (lotte fra culti, guerre, catastrofi naturali). Il realismo magico si interseca con l’esistenzialismo in una miscela a dir poco esplosiva: è una lettura più per chi vuole godere di certe atmosfere che per chi desidera seguire una trama vera e propria, tanto che in questo il romanzo La porta del cielo con una vicenda ben delineata, non scontentava né una tipologia di lettore, né l’altra; comunque chi ha apprezzato lo stile della Llurba nell’opera precedente non rimarrà insoddisfatto da queste “pillole” New Weird impreziosite dalle illustrazioni di Darkam, che si adattano benissimo alle atmosfere.

Lord Lyllian – Messe nere, di Jacques d’Adelswärd-Fersen

Lord Lyllian è figlio di uno scandalo, e forse non avrebbe mai visto la luce se l’autore non fosse stato coinvolto in un’indagine giudiziaria. Se poi l’indagine giudiziaria che ha ispirato questo romanzo riguarda rituali satanici, corruzione di minori e oscure pratiche sessuali, l’opera in sé va molto aldilà di altre scritte nel pieno del Decadentismo con l’obiettivo di shockare il pubblico solo con la fiction.

L’autore, Jacques d’Adelswärd–Fersen, era un dandy dei primi del Novecento con un titolo nobiliare e alcune poesie all’attivo, quando la sua vita fu sconvolta da un’indagine della polizia parigina sui festini omosessuali che organizzava e che vennero dipinti dalla stampa come “messe nere”. Uscito pressoché indenne dal polverone sollevato (i piani del suo matrimonio andarono a monte) grazie alle pressioni di illustri personaggi che partecipavano alle orge, Fersen si ritirò in esilio volontario a Capri, dove finì i suoi giorni, ma non rinunciò a dire la sua sulle accuse di satanismo e corruzione di minori attraverso il suo “Lord Lyllian”, riportato alla luce dalla casa editrice Pendragon.

Jacques d’Adelswärd-Fersen

Si potrebbe pensare che questa sia un’opera forgiata sul sentimento di rivalsa, una sorta di autocelebrazione, tuttavia il romanzo è qualcosa di più complesso, che prende solo spunto dalle vicende personali dell’autore per diventare una sorta di spaccato nella vita di un dandy, dalla sua iniziazione fino alla maturità. Nell’opera possiamo trovare forse la rappresentazione più concreta e naturale di un movimento dalle mille sfaccettature come quello del Decadentismo, proprio nelle vicende che vengono narrate. Lord Lyllian, l’alter ego di Fersen, è un nobile ventenne poco avvezzo ai rapporti sociali perché abituato a un’esistenza solitaria nel suo castello scozzese, finché il padre non muore e si ritrova come guida il poeta Harold Skilde, ricalcato – senza troppi camuffamenti – sulla figura di Oscar Wilde. Skilde apre al ragazzo le porte di un mondo fatto di vitalismo come di decadenza e lo educa al piacere e all’osservazione della realtà in ogni suo aspetto, anche il più putrido: Lyllian diventa da principio un avido discepolo, arrivando anche a sostenere che “anche le fogne possono farti sentire vivo!”


La storia inizia in medias res, partendo proprio da un festino in cui il lord dandy si rende protagonista assoluto con la sua spregiudicatezza, per poi tornare indietro con un flashback alla sua infanzia e alla sua iniziazione al sesso da parte di Skilde (che avviene con la prepotenza che il ragazzo a sua volta userà con le sue giovani vittime), e infine ripartire ai fatti presentati nel primo capitolo. La narrazione procede in una sorta di anticlimax, non ci si devono attendere colpi di scena, perché le situazioni “forti”, quelle più estreme, sono comunque più presenti nella prima parte del romanzo che nella seconda. Tanto per fare un esempio, il rito orgiastico con tanto di sacrifici di agnelli e suicidio plateale, infatti, è rappresentato come un punto di partenza per un cambiamento interiore di Lord Lyllian, non come “piatto forte” da riservare al pubblico al termine di un crescendo: ciò dimostra l’intento dell’autore di ritrarre il cambiamento del personaggio che descrive, il suo tentativo di liberarsi una volta per tutte del suo “mentore” Skilde ed essere autonomo pure nella ricerca dei piaceri estremi. Dalla seconda parte la narrazione ricalca quella di una tragedia greca, dove i fatti, nel rispetto delle unità aristoteliche, avvenivano fuori campo e raccontati successivamente: il dialogo diviene la forma preferita di Fersen per mostrare sia i mutamenti del suo alter ego letterario che le sue imprese da libertino. I personaggi in questo contesto appaiono come un caleidoscopio di voci, alcuni descritti con pennellate davvero veloci, un po’ come quando si attacca bottone con tutti a una festa e in realtà non si conosce davvero nessuno: in un simile calderone di nobili dalle abitudini sessuali inconsuete e dai gusti stravaganti a cui il Decadentismo ci ha abituati, spiccano Skilde, D’Alsace e d’Herserrange. Non ho usato a caso il termine “pennellate”, perché secondo il mio punto di vista questo libro non deve essere letto in modo lineare, ma visto come una serie di quadretti in cui ogni situazione va gustata a sé, e solo dopo contestualizzata nella storia, quasi si mettessero insieme le tessere di un puzzle. Quando la narrazione comincia a ricalcare l’autobiografia dell’autore diventa più opaca, sibillina: chi si aspetta di sapere di più sulle famigerate “messe nere” sbandierate nel sottotitolo forse resterà deluso, del resto anche quei rituali satanici di cui venne accusato Fersen non erano altro che carnevalate in costume, anche se pare ci sia stato davvero il coinvolgimento di minorenni. Lord Lyllian vive le sue passioni “estreme” in maniera naturale, tanto che festini e rituali orgiastici vengono messi in scena in modo elegante e mai volgare: l’evoluzione del carattere del protagonista sarà quella di allontanarsi pian piano da certi ambienti, ma non di pentirsi delle esperienze fatte, il che è coerente con il tono usato dall’autore – quasi volesse opporre una narrazione oggettiva a quella scandalistica fatto dalla stampa dell’epoca sulla sua vicenda personale.

Gli ambienti descritti, nella loro luminosità di paesaggi mediterranei (L’Italia e la Grecia dei tour estivi intrapresi dai giovani facoltosi), sono di uno squallore disarmante, quando Lyllian si aggira per bettole squallide, bordelli e contesti familiari degradati in cui i genitori di adolescenti vergini fanno da mezzani pur di avere qualche spicciolo. L’autore nella solarità degli ambienti riesce a evidenziarne il marciume, quasi il suo alter ego letterario non possa far altro – una volta traviato dal suo mentore – che andare a scavare nel torbido nonostante la bellezza dei luoghi visitati. La prosa, nel rappresentare il degrado è moderna e soprattutto molto agile, merito anche di una traduzione dell’opera di Annalisa Marchianò che è molto ben riuscita e che ha un occhio particolare nell’evitare ripetizioni o rime interne (in un contesto novecentesco avrei usato più il “voi” del “lei” nei rapporti amichevoli, ma a fronte di un lavoro così meticoloso è una questione da nulla). Il romanzo, per come è stato scritto, pare quasi una sorta di “falso d’autore”, un’opera moderna che si vuol fingere realizzata ai primi del Novecento; scordiamoci i periodi eccessivamente lunghi, l’ipotassi e la ricerca del lirismo dannunziano, perché Fersen è diretto e leggero. La lettura quindi procede senza intoppi, anche nelle parti in cui il protagonista si perde in elucubrazioni esistenziali con i suoi sodali viziosi e dialoga con loro di perversioni, ricerca sfrenata di piaceri e satanismo.
Questa edizione è curatissima sin dalla copertina, che riproduce il ritratto del compagno che Fersen ebbe a Capri, ma soprattutto per il comparto note. A piè di pagina, infatti, grazie a brevi e precise spiegazioni spesso si sciolgono dubbi su personaggi dell’epoca e sulle citazioni fatte nei dialoghi aiutando il lettore a orientarsi nel testo. Anche il saggio finale, a opera di Jessy Simonini è davvero illuminante sul contesto e la genesi del romanzo. Nel saggio in questione si pone una questione interessante: nell’epoca in cui venne scritto “Lord Lyllian” l’omosessualità era condannata, ma tollerata in ristrette cerchie altolocate e spesso il vivere in modo così chiuso la propria sessualità faceva sì che spesso il confine tra essere consenzienti e l’essere traviati o finire in pratiche estreme fosse molto labile. Poniamo pure un certo gusto per la teatralità e per il macabro di quegli anni e uno scandalo era facilissimo da montare negli ambienti frequentati dai dandy – anche se ovviamente il coinvolgimento di minori da parte del protagonista non viene mai giustificato con gli occhi della modernità dello studioso, laddove l’autore nel romanzo tende a liquidarlo secondo un’ideologia farcita di spleen ed eccessi (visti come elementi naturali della vita).
Chiunque voglia approfondire il lato oscuro dei primi del Novecento, o avere un’idea di come certe pratiche sessuali – vietate dalla moralità e quindi vissute clandestinamente o in modo abnorme – fossero parte dell’alta società dell’epoca può e deve approcciarsi a quest’opera, anche solo per apprezzare come un dandy come Fersen abbia voluto mettere nero su bianco la propria esperienza senza cercare scuse o autocelebrarsi. Di certo bisogna considerare che, nonostante la modernità della prosa e le scene nelle sale da oppio e nei bordelli, la storia non vuole essere né avventurosa, né propensa all’intrattenimento più spicciolo: “Lord Lyllian” è sempre figlio della sua epoca, bisogna ricordarlo, e come tale ha dei tempi e un ritmo che non è propriamente dinamico, perché l’interiorità del protagonista ha quasi maggiore importanza delle sue imprese. Proprio per questo il romanzo si lascia apprezzare e offrendo un notevole approfondimento psicologico del personaggio diviene quasi una discesa nell’intimità di un vizioso alla continua ricerca del senso della propria vita.