Mindlag [Episodio 10]

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Il Teatro Humorpop era dove lui, Lia e Ned erano stati acclamati la sera del raid, dopo che la notizia dello spray esilarante sui Melancotech si era sparsa per tutto il quartiere. Tra la folla in un’euforia chimica da Epto giravano video sui rolltab e tutti gli Humorpop, quando loro tre erano arrivati sulle loro Monoruote, si erano alzati in piedi, sulla scalinata variopinta. Sul frontone sorretto da colonne storte dipinte di vernice rosa fluo, il volto in pietra del Gran Briccone pareva anche più gioviale del solito, il suo sorriso privo di denti era largo, come se gli fosse stato pagato un tributo.

Il Sarcacerdote, in cima ai gradini arcobaleno, aveva spinto via i tre finalisti al contest di haiku e aveva fatto il cenno della “gola tagliata” per annunciare che la competizione era annullata, poi si era affrettato a scendere gli scalini, tirandosi su la tunica disseminata di scarabocchi pornografici.

“Potere! Potere all’allegria!” li aveva salutati quell’ometto pelato afferrandosi il pube, proprio dove era disegnata alla meglio una vulva.

Lia era balzata giù dalla Monoruota: “Gliele abbiamo suonate ai tristoni!” aveva squittito, mentre Ned aveva sollevato la bomboletta spray come una reliquia, verso le mani protese a toccarlo. Anche Bog aveva avuto le sue pacche sulle spalle, poche in realtà, perché Lia aveva sollevato la maglietta per far ballare le sue tette dai capezzoli dipinti di vernice fluo.

“In questa notte due rotonde lucciole danzano liete” aveva pensato Bog.

“Il Gran Briccone è stato saziato!” aveva decretato solenne il Sarcacerdote: “Dunque niente contest stasera, tanto le poesie presentate mi davano il vomito!” poi, dopo aver finto di rigettare e ottenuto scrosci di risa, l’uomo in tunica aveva spalancato le braccia solennemente: “Decreto festa per tutti! Seguitemi nel tempio!”

Sui volti di Ned e Lia, i sorrisi si erano spenti, su quello della ragazza un po’ meno, dati i tiranti intrazigomatici, quindi il Sarcacerdote aveva allargato le braccia: “Ebbene?”

“Noi credevamo di beccarci il titolo!” fece Ned e Bog gli aveva posato una mano sulla spalla: “Lascia stare, facciamo festa!”, ma Lia gli aveva lanciato un’occhiataccia: era un’espressione così strana, unita al suo sorriso perenne.

“Le regole sono regole, Gran Briccone può essere uno solo, e ci si diventa con un haiku!” Aveva ribadito il Sarcacerdote, stringendosi nelle spalle, dopodiché si era gettato in bocca due cristalli di Epto.

La folla attorno aveva emesso un brusio in crescendo, qualcuno aveva urlato: “Ce lo haiku, Ned?” e Ned si era voltato verso Bog con uno sguardo strano, colmo di una freddezza glaciale, quello di un traditore, poi gli aveva dato le spalle e aveva sciorinato al Sarcacerdote la formula rituale: “Haiku ce l’ho”

La scalinata era divenuta un florilegio di umoristi, chimicamente sfrenati, i Rolltab si erano levati a puntare Ned.

Bog era rimasto attonito: il suo amico non aveva alcun talento per gli haiku, si era inventato la bravata del raid proprio per rimediare il titolo a tutti e tre, senza mettersi in gioco. Invece lui si era preparato per mesi, aveva cesellato il suo haiku, Lia ne aveva seguito le varie stesure, non accorgendosi mai che era dedicato a lei.

Si era limitata a criticare anche la versione finale, dicendogli che non avrebbe avuto alcuna chance. Era per questo che si era prestato all’assalto dei Melancotech: un Gran Briccone per tutti e tre e la gloria!

Ned invece appariva stranamente sicuro, magari per l’adrenalina del raid ancora in circolo. Si era schiarito la voce e aveva atteso che tutti tacessero, i rolltab erano scaglie luminose in modalità “video”.

No, Ned non ce l’avrebbe fatta, Bog ne era sicuro, e Lia si era ritirata ormai dalle competizioni, sempre troppo critica verso se stessa e i suoi componimenti o avrebbe rischiato di deprimersi!

Sarebbe toccato a lui, Bog, salvare la serata, con il suo haiku, anche se imperfetto. In fondo un paio di volte era arrivato in finale, si era avvicinato al titolo più degli altri. Lo avrebbe vinto lui il contest, avrebbe dedicato la vittoria a Lia e l’Epto l’avrebbe divisa con tutti. Ognuno quella sera sarebbe stato felice, mentre lui sarebbe stato nominato Gran Briccone.

In cima alla scalinata, Ned si era infilato le mani nelle tasche della giacca a spicchi colorati, assumendo la posa di chi era lì per caso, rubando qualche risata al pubblico. Poi, quando anche l’ultimo schiamazzo era scemato, aveva iniziato a declamare, con voce sicura, pulita: “Mi specchio in te… “

Bog si era morso il labbro inferiore fino a farsi uscire il sangue. Quel primo verso era del suo haiku. E anche i seguenti.

Mi specchio in te
nel sorriso perenne
brioso il mio io

Con il sapore del sangue sulla lingua aveva cercato lo sguardo di Lia, ma lei era rimasta a fissare Ned, e quando era esploso il boato, l’esaltazione della folla, con gli altri si era precipitata ad abbracciare il nuovo Gran Briccone.

Bog aveva sorriso, poi si era lanciato in uno scroscio di risate, perché un Humorpop deve sempre essere felice costi quel che costi. Ed era felice per Ned, e lo sarebbe stato per Lia, quando si sarebbe appartata con lui nel camerino del teatro.

Si era gettato disperatamente nei festeggiamenti, ballando come un forsennato, respirando sudore allegro all’aroma di Epto, abbagliato dagli ologrammi sparati in cielo. Lia e Ned erano spariti, come prevedibile, e Bog si agitava, beveva, scroccava cristalli perché amico del campione del contest. Nessuno lo notava davvero, era un allegro fa gli allegri, anche se lui, il volto di pietra del Gran Briccone che gli sorrideva dal frontone del teatro, sapeva che non era così.

La frenata che Bog impose alla Triruote fu repentina, tanto secca produrre un cigolio lamentoso. Era la sintesi di un moto di ribellione dopo essersi fatto cogliere dall’ennesimo mindlag per poi ritrovarsi travolto da un disperato senso di smarrimento.

Di fronte a Bog, solo un deserto delimitato da transenne. Il teatro era un rudere, i lavoratroni, su lunghi trampoli di acciaio lo stavano demolendo. Due colonne tenevano su il frontone, il resto era un cumulo di macerie.

Quella sfida, fra il Gran Briccone di pietra che si ostinava a sorridere e le bestie meccaniche dagli occhi rossi, era già decisa in partenza.

Bog aprì lo sportello senza neanche rendersene conto, si ritrovò fuori, sferzato dalla pioggia che lo colpiva come una sassaiola.

“No…” mormorò a quei giganti di metallo, e loro neanche lo ascoltarono, continuarono meticolosamente a demolire, muovendosi a tempo sui trampoli flessuos o quelli ragniformi arrampicandosi sulle gabbie per spruzzare plastocemento.

Bog strinse le maglie del reticolato che lo separava dallo scempio: un massacro discreto e operoso, fatto di trapani polverizzatori a basso impatto acustico. Il lavoratrone demolitore puntò la sua proboscide acuminata sul Gran Briccone e lui continuò a sogghignare, nonostante metà della sua faccia si stesse tramutando in polvere.

“No! No! No!” Bog strinse la rete fino a farsi male, poi cadde in ginocchio, la giacca appesantita dall’acqua pareva volerlo trascinare giù.

Il Gran Briccone scomparve assieme a tutto il frontone, le due colonne resistettero qualche secondo, prima di rovinare in una caduta eclatante, farsesca su quel che rimaneva della scalinata variopinta. Anche lo Skinavatar di Bog si sarebbe disintegrato, come tutto quel posto.

“Si allontani.” la voce sintetica parve tagliare in due la notte, e il ronzio dei lavori cessò istantaneamente.

Un rubino di luce fissava Bog da un’impalcatura. Pian piano Bog distinse le sue quattro zampe da granchio appollaiate sugli steli metallici dell’impalcatura.

“Si allontani. Me-nimal lavora per voi” il rubino divenne un tizzone sfrigolante mentre il lavoratrone pronunciava quelle parole. Altri bagliori scarlatti nell’oscurità si fissarono sul Beta. Tutte le macchine avevano cessato di lavorare all’unisono.

“D-devo passare… v-voglio solo andare a casa” Bog balbettò con un tono di voce totalmente privo di dignità.

“Si allontani dal cantiere. Ultimo avvertimento.” ribadì il lavoratrone, con un tono totalmente privo di pietà.

Gli altri operai sintetici, che fossero ragniformi, granchiformi o trampolieri si unirono in un’eco sommessa di “Ultimo avvertimento!”

Nella sua imponenza, tra banchi di nubi nere, Il calamaro verde fluttuava poco lontano, fra le pinne dorate del quartiere di lusso.

“Richiesta di intervento alle autorità competenti tra 5…4…3…” il rubino di luce assunse la forma di ogni numero che declamava. Bog scattò in piedi: “Me ne vado!” disse mettendo bene in vista le mani, come se gli stessero puntando contro un’arma, poi corse a rifugiarsi nella sua Triruote. Si allontanò a marcia indietro, l’occhio rosso del lavoratrone si bloccò sul “2”, poi tornò a essere un semplice cerchio.

Il verde mostro degli abissi parve gonfiarsi all’orizzonte, i tentacoli benedicevano la città. Un lampo tra le nubi fece tremolare appena la sua carne di pixel, poi l’ologramma tornò a dominare la notte.

Dentro il buio dell’abitacolo dell’utilitaria, rivoli d’acqua solleticavano il volto di Bog, così tentò di tergerli quasi prendendosi a schiaffi. Poi si accorse delle lacrime, fuoriuscivano contro il suo volere e non accennavano a smettere. Voleva solo essere a casa, connesso con un ago infilato nel cranio. Voleva solo essere punito e dominato, perché in fondo era quello il suo destino. Era la sua natura, quella che Haß si era raccomandato che seguisse.

Il Beta tirò su col naso, poi sorrise per il rumore che aveva prodotto, simile a un grugnito, infine sorrise alla giungla di impalcature e ai puntini rossi, divenuti uno sciame frenetico attorno alle macerie. E lanciò la Triruote a tutta velocità, contro la recinzione e le transenne.

Illustrazione di Giorgio Borroni.

2 risposte a “Mindlag [Episodio 10]”

  1. Ottimo racconto, bravo all’autore.

    Nota per il sito: cliccando su Episodio 1 si viene riportati all’episodio 10 🙂

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