Manuale per uccidere la scrittura / 1

Manuale per uccidere la scrittura / 1

Manuel Acuña, poeta romantico messicano, nel 1873, poverissimo, ingerisce del cianuro nel suo stanzino alla Scuola di Medicina, solo, forse affranto dall’amore. Il battito del suo cuore aumenta di colpo, lo sente rutilante nelle orecchie come se stesse fuggendo dalla sua cassa toracica, poi diminuisce progressivamente, come una farfalla che rallenta il battito d’ali posandosi su un fiore. Avviene inesorabile l’anossia cerebrale e dunque il collasso cardiovascolare. Manuel schiatta con un tonfo sul pavimento, i suoi baffi neri che creano una virgola scura sopra la bocca spalancata come una tagliola.

Manuel Acuña

 

Carlos Casagemas, pittore e poeta spagnolo, amico di Picasso, non sopporta di non essere corrisposto nell’amore per la parigina Germaine Pichot, una delle donne ritratte da Picasso ne Les demoiselles d’Avignone e ballerina del Moulin Rouge. Nella sua mente ossessiva, chiusa come un riccio, è convinto che la donna sia la sua fidanzata, ma lei non ricambia l’affetto come lui vorrebbe. Carlos beve molto. Si ubriaca per le vie di Parigi. Il 17 febbraio del 1901, in un bistrôt, a mezzogiorno, prima pranza con la donna, si scolano assenzio, lui forse le chiede di sposarlo e lei rifiuta, forse è incazzato perché sa che lo tradisce, e lui le spara, ma manca il colpo. Quindi si punta la canna alla tempia e fa centro. A 20 anni lascia il suo corpo morto incastrato tra i tavoli del ristorantino, il cranio squarciato da qui zampilla furioso il sangue macchiando le tovaglie di pizzo, lasciando un’ombra rossa sui listelli di parquet, la pancia piena.

Carlos Casagemas nel ritratto di Pablo Picasso

Georg Trakl, passato alla storia come poeta espressionista austriaco, già nel 1905, mentre legge Nietzsche, Rimbaud e Dostoevskij seduto sul suo sgabello dietro al bancone della farmacia dove lavora, si droga con quello che trova sugli scaffali. Lo hanno bocciato al ginnasio, è un tipo inconcludente, non riesce a capire il suo posto nel mondo. Lavora in farmacia, poi in un ospedale militare, poi da altre parti dopo che ha finalmente concluso le scuole e ha frequentato e ultimato ottimamente un corso di farmacia. Beve anche molto, scrive per qualche giornale, pubblica poesie. Viene chiamato come soldato, c’è lo scoppio del primo grande conflitto. Soffre di crisi depressive tremende. Nella battaglia di Grodek, in Galizia, assiste più di 80 feriti, è un’impresa grandguignolesca. C’è una carneficina in atto. Immerge le mani nelle viscere, nel sangue, in cavità nei corpi che neanche pensava potessero crearsi. La vista di 13 soldati impiccati sugli alberi di fronte la sua tenda lo perseguita. Cerca di uccidersi, ce la fa il 3 novembre del 1914, nella sua camera dell’ospedale psichiatrico di Cracovia, iniettandosi una dose massiccia di cocaina, il suo volto contratto è una maschera bianca, come di cera, come di gesso.

Georg Trakl

Hart Crane nasce lo stesso identico giorno di Ernest Hemingway. Poeta simbolista, immerge il muso con passione nella lettura di Yeats e Pound. Poeta orfico, suggestivo, simbolista, cresce in una famiglia spezzata in partenza, i  genitori, insofferenti tra loro, si lasciano quando è ancora piccolo. Crane soffre di forti crisi depressive. Grazie a una borsa di studio parte per il Messico. Nel viaggio di ritorno in Florida, il 27 aprile 1932, forse comprendendo in maniera cristallina che mai più potrà eguagliare le vette del suo secondo libro, molto acclamato, “The bridge”, decide di saltarlo, quel ponte, e si getta in mare. Il suo corpo come una macchia scura di stracci affonda tra la schiuma lentamente, ma inesorabilmente.

Hart Crane

 

Davanti a un cadavere – di Manuel Acuña
(traduzione in esclusiva per la nuova carne di Alessandra Caputo)

Bene! Ora sei qui…, su questa lastra

dove il grande orizzonte della scienza

l’estensione dei suoi limiti allarga.

Qui, dove la rigida esperienza

viene a dettare le leggi superiori

alle quali è sottomessa l’esistenza.

Qui, dove sparge i suoi riflessi

quella stella alla cui luce scompare

la distinzione tra signori e schiavi.

Qui, dove la favola muore

e la voce dei fatti si alza

e la superstizione svanisce.

Qui, dove la scienza viene avanti

a legger la soluzione di questo problema

il cui solo annuncio ci spaventa.

Lei, che è giusto come dice il detto,

e che sulle tue labbra brama ascoltare

l’augusta voce della verità suprema.

Ora è qui…dopo l’empia lotta

con la quale sei riuscito infine a rompere

la prigione che ti ha trattenuto nel dolore.

La luce delle tue pupille già non esiste,

la tua macchina vitale riposa inerte

e per adempiere al suo scopo resiste.

Miseria e niente più!, diranno nel vederti

quelli che credono che l’impero della vita

finisce dove inizia quello della morte.

E credendo che la tua missione sia compiuta

si avvicineranno a te, e nel loro sguardo

ti manderanno l’eterno addio.

No!…, la tua missione non è finita,

che non è nulla il momento in cui nasciamo

né il punto in cui moriamo è nulla.

Ľ esistenza è un circolo, e mal facciamo

quando vogliamo misurarla le assegnamo

la culla e il sepolcro come estremi.

La madre è solo lo stampo nel quale prendiamo

la nostra forma, la forma passeggera

con la quale l’ingrata vita attraversiamo.

Però non è questa la prima forma

con la quale il nostro essere è vestito, e neanche

sarà la sua ultima forma quando muore.

Tu ormai senza fiato, a breve

tornerai alla terra e al suo seno

che è il centro della vita universale.

E lì, alla vita, apparentemente straniero,

il potere della pioggia e dell’estate

feconderà di germi il tuo fango.

E all’ascendere dalla radice al grano,

andrai dal frutteto a testimoniare

nel laboratorio sovrano.

Forse tornerai trasformato in grano

nel triste luogo, dove la triste sposa,

senza trovar conforto sogna di te.

Finché le crepe nella tua fossa

vedranno sorgere dal suo fondo aperto

la larva trasformata in farfalla,

che nelle prove del suo incerto volo

andrà al letto infelice dei tuoi amori

per portar loro le tue ossa morte.

E nel mezzo di questi cambi interiori

il tuo cranio, pieno di una nuova vita

invece che pensieri darà fiori,

nel cui calice brillerà nascosta

la lacrima con la quale forse la tua amata

accompagnò l’addio della tua partenza.

La tomba è la fine della giornata,

perché nella tomba è dove giace morta

la fiamma rinchiusa nel nostro spirito.

Però in questo palazzo alla cui porta

si estingue il nostro respiro, c’è un altro respiro

che nuovamente alla vita ci risveglia.

Lì finiscono la forza e il talento,

lì finiscono le gioie e i mali

lì finiscono la fede e il sentimento.

Lì finiscono i legami terreni,

e mescolandosi il saggio con l’idiota

affondano nella regione degli uguali.

Però lì è dove lo spirito è esaurito

e la macchina perisce, proprio lì

l’essere che muore e un altro essere che sorge.

Il potente e fertile abisso

dell’antico organismo si appropria

e forma e fa di lui un altro organismo.

Abbandona alla storia giusta

un nome senza averne cura, indifferente,

al fatto che questo diventi eterno o muoia.

Lui raccoglie unicamente la massa,

e cambiando la forma e l’oggetto

si assicura che viva eternamente.

La tomba conserva solo uno scheletro

e più la vita nella sua camera mortuaria

continua a nutrirsi in segreto.

Alla fine della nostra esistenza transitoria

alla quale così tanto i nostri desideri aderiscono

la materia, immortale come la gloria,

cambia la forma, ma mai muore.

Al fanciullo Elis – di Georg Trakl

Quando il merlo nel nero bosco chiama, Elis
questo è il tuo tramonto.
Le tue labbra trincano la frescura della azzurra sorgente.

Lascia, quando la tua fronte lieve sanguina,
le antiche leggende
e l’oscuro significato del volo degli uccelli.

Ma tu con tenui passi entri nella notte
piena di tralci purpurei
e tu più bello muovi le braccia nell’azzurro.

Un roveto risuona
dove sono i tuoi occhi lunari.
Oh, da quanto tempo, Elis, sei morto!

Il tuo corpo è un giacinto
in cui un monaco immerge le ceree dita.
Una nera caverna è il nostro silenzio.

Ne fuoriesce talvolta un mite animale
lungamente abbassa le pesanti palpebre.
Sulle tue tempie sgocciola nera rugiada,

L’ultimo oro delle tramontate stelle.

Leggenda – di Hart Crane

A Waldo Frank

Silenti come si crede che sia silente uno specchio
le realtà nel silenzio si tuffano, vicino…

Non sono ancora pronto al pentimento;
né a accendere rimpianti. Poiché la falena
altro non curva che la fiamma
immobile implorante. E i baci tremolanti
nei fiocchi bianchi che cadono, — sono
le sole cose, fra tutte,
che abbiano valore.

Si possono imparare —
questa scissione, questo bruciare,
ma solo da chi intenda
di nuovo consumarsi.

Due volte e ancora due volte
(ancora il fumante souvenir,
eidolon sanguinante!) eppure ancora.
Finché la logica splendente sia
vinta senza sussurri, come
si crede sia uno specchio.

Poi goccia a goccia caustica un perfetto pianto
come da uno strumento a corda leverà un’armonia costante, —
un salto inesorabile per tutti quelli che spingono
la leggenda della loro giovinezza nel pieno del meriggio.