Piaceri sconosciuti: ampliamenti del visibile e del desiderio

Piaceri sconosciuti:

ampliamenti del visibile e del desiderio

Prossimo alla fine, questo decennio che giunse col terremoto di Haiti e l’eruzione dell’Eyjafjöll si congeda con le immagini di una Venezia sommersa.

Momenti, che col tempo hanno inglobato un concetto di fine più ampio, che a sua volta ha investito anche il mondo delle immagini – mondo nel quale il corpo ha un’indiscussa centralità – di una funzione escatologica: un dispositivo che nell’alimentare la paura di una possibile sparizione ha rafforzato una fede auto-referenziale nel proprio corpo e nella gestione mediatica del proprio io; persuasione, che ne costituisce il paradosso dell’autoritrarsi odierno, quello di proporre “un’apparizione della sparizione” [J.L. Nancy, L’altro ritratto, Castelvecchi, Roma, 2014, p.89.]

Diventata pratica di massa, oggi nel suo esporsi attraverso le immagini, l’individuo sembra si giochi il senso della dimensione finita dell’esistenza. Del resto, il creare immagini sin dai suoi albori ha sempre aperto a tematiche come il tempo, il corpo e la morte. Si trasmetteva all’immagine il potere di manifestarsi in nome e al posto del corpo. Miquela e Shudu perciò, sono fantasmi di desideri che vengono da molto lontano.

Tradurre e scavare gli ultimi anni sarà possibile compenetrandoli alle nuove tecnologie di comunicazione, quindi all’immagine fotografica e alla Rete.

Questo scavo sarà possibile indagando su due fronti, o due mondi: quello del Web e dell’Arte, due mezzi con il quale si giunge a una comune trasfigurazione: con il Web la trasfigurazione mediatica del reale, e con l’Arte Contemporanea quella dell’oggetto comune, della spettacolarizzazione dell’effimero. Due mondi diversi ma con una medesima origine: la fine del mondo, l’implosione del mondo generata dai mass media; mondo finito una volta raggiunta un’equivalenza tra mondo e informazioni sul mondo. Una fine del mondo da non intendersi come estinzione, ma come una sorta di compimento di ciò che pensiamo e sappiamo del mondo [Cfr., T. Ariemma, Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’Arte contemporanea, la Filosofia, et al./Edizioni, Milano, 2012, p., pp. 6,7.]

Un panorama, quello dei social, che presenta un sé ideale molto luminoso, ma quanto più è luminosa l’immagine di sé – presentata per lo sguardo altrui sempre più filtrata e stirata – tanto più nitida è l’ombra che essa proietta. Ombra che si ritrae quando viene illuminata dalla sua trasmissione mediatica.

Auto-scatti e dirette live del nostro corpo come prodotto del nostro io, nel quale generiamo sogni e percezioni che interagiscono attraverso il Web con il resto del mondo visibile, inserite nel virtuale corrisponderebbero a quel campo immateriale del fantastico e dell’onirico nel quale si generano i desideri stessi.

Tradotto in immagini, il desiderio trova in questa dimensione un luogo d’espressione dove il suo appagamento non rappresenterebbe necessariamente il possesso di un corpo reale, ma la sua riproduzione allucinatoria in quanto, con l’enfasi invasiva della pubblicità, negli anni si è imposto come interprete del desiderio dell’altro, rivelando un’esistenza anatomica del corpo puramente soggettiva e immaginaria, alimentatasi dai propri stati febbrili-sessuali, e da bisogni da soddisfare a base di bellezza, eterna giovinezza, sessualità.

Questo concetto di fine del mondo, che prende forma con il farsi immagine dei desideri e la loro rappresentazione, potrebbe essere illustrato attraverso due videoclip, che ne tracciano anche l’evoluzione dell’interazione tra corpo, sguardo e la rete: Fantasy di Tesla Boy, uscito nel 2012, e Pay off di Karma She del 2019, più recente approdo per sguardi sempre più esigenti.

A sinistra: Tesla Boy, Fantasy, regia di Ryan Patrick. A destra: Karma She, Pay off, regia di KARMA SHE & Catalin Jugravu.

 

Dolci sogni formano un’ombra.

Da quando è comparsa la webcam in molti hanno iniziato a usarla per dei sexy show online o a pagare per accedervi. A differenza del porno offre agli spettatori l’opportunità di interagire “in diretta” con la persona che guardano.

Anche l’Arte ha fatto incursione in tutto ciò in quanto cultura popolare, e ne ha utilizzato i linguaggi.

Lavori come Tediousphilia di Laia Abril, Loneliness on line di Sergey Melnitchenko e Webcam di Jen Davis riflettono su questo tipo di auto-esposizione e sulle illusioni generate dal web, su quel vuoto riempito da un mercato che si riadatta secondo un’economia del desiderio.

Aurore Dalmas, Don’t love me, i’m your toy, 2019.

Don’t love me, i’m your toy di Aurore Dalmas attraverso un’estetica amatoriale esplora il mondo delle relazioni e della fisicità, mettendo in discussione il corpo e le sue rappresentazioni, la bellezza e il desiderio.

Questa ricerca passa da un capovolgimento della figura della donna come stereotipo dei desideri maschili: attraverso Skype, Dalmas ha diretto gli uomini con il quale ha intrecciato delle “chat”, imponendosi come uno sguardo al quale l’uomo non poteva replicare, spogliandoli in questo modo anche dei loro valori soggettivi. Il suo sguardo – lei poteva vedere loro senza essere vista – si impone piegando i corpi a suo piacere, procedimento che richiama quell’aspetto narcisistico della contemporaneità che rivela come i volti e i corpi sono inseriti come intrattenimento. La serie fotografica si completa con dei testi, diventati un libro che apre a nuove prospettive sull’immagine e sui ruoli dell’uomo e della donna.

Il voyeurismo e l’eccitazione che accompagnano lo sguardo odierno passano da un procedimento storico e contestuale che muove da un contrasto sempre più labile – pubblico e privato, represso e non represso – messo in pratica con i social networks e le varie app. Opere come queste raccontano come il corpo oggi si trovi al centro di un commercio libidico attraverso le pratiche mediali.

Se la sua considerazione passa attraverso i media, misurandosi sull’apparire, il valore del sé proiettato confermerebbe quel rapporto contrattuale delle relazioni odierne sulla base di una seduzione di tipo commerciale, che arriva a pubblicizzare e mostrare l’intimità come si mostra una merce.

 

Ampliamenti del visibile.

La centralità del corpo attraverso i nuovi media non è solo quella idilliaca di quelli ultra-curati.

Visto il successo di materiale ultra-violento condiviso – frutto di una più generale escalation della violenza stessa – parallelamente a quello erotico-pornografico, questa ossessione che fa acquistare al corpo la massima rilevanza, da questa prospettiva, porrebbe l’accento su ciò che minaccia la sua integrità.

Al pari della pornografia via internet, l’horror contemporaneo si configurerebbe come la forma che meglio si adatta a quel superamento di un margine del visibile, per una sorta di prossimità generica che li rende due prodotti culturali estremi.

Due dirette instagram: una veglia funebre in streaming e un saluto dell’attrice Kendra Sunderland.

 

Questo genere di materiale che vede confluire il macabro con l’hard, nella produzione video-fotografica troverebbe un approdo comune nella ricerca di sensazioni estreme, di un sentire carnale nella sua interazione con l’odierno virtuale, dove “la voglia di immagini che mostrano corpi sofferenti sembra esser forte quasi quanto il desiderio di immagini che mostrano corpi nudi” [S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003, p.35], voglia mossa da un irresistibile impulso pornografico che fa del dolore degli altri una scena altrettanto eccitante, la ricerca di un godimento che oltrepassa la distinzione tra piacere e dolore.

Nel cinema, questo ampliamento è avvenuto attraverso la fusione di codici visivi di genere necessaria per addentrarsi in nuove narrazioni. Sottogeneri come il body horror e il torture porn (La Passione di Mel Gibson, Hostel, A L’intérieur, A Serbian Movie), il cui registro brutale e il suo accanimento verso il corpo richiama con compiacimento quello pornografico, negli ultimi anni si è attestato in campo estetico sino a diventare un elemento visuale diffuso.

Nel 2018 esce Cam, un film che sintetizza tutte le derive culturali fin ora affrontate: basato sull’ossessiva ricerca di un’illusoria popolarità e sull’ossessiva spettacolarizzazione di sé stessi portati alle estreme conseguenze, narra la vicenda di Alice, in arte Lola, una camgirl che guadagna offrendo spettacoli hard. Pur di salire nella classifica di gradimento della piattaforma, oltre al suo corpo, la protagonista arriva a offrire cruente e verosimili messe in scena dei suoi suicidi o a sottoporsi al micidiale vibraton, un’escalation che fa crescere i tokens offerti dagli utenti. Un esempio che confermerebbe come anche l’industria dell’entertainment rifletta l’analisi di questa transizione dello sguardo, che per riattivarsi si rincorre sul terreno dell’efferato e di un voyeurismo sottocutaneo.

A sinistra, sopra: Videodrome, regia di David Cronenberg. A destra: Cam, regia di Daniel Goldhaber, 2018.
A sinistra, sotto: Tentacle porn. A destra: The Untamed, regia di Amat Escalante.

 

Attraverso l’immagine digitale si riesce a interpretare cambiamenti più complessi, che interessano diversi livelli di cultura connessi a nuove riconfigurazioni di forme e piacere, a base di avatar sexy, bimbofication e tentacle porn, rappresenta la sintesi di una evoluzione estetica che da Videodrome di David Cronenberg vede il suo generarsi dall’unione di sessualità e tecnologia, sempre più protesi di potenziamento ed estensione fisica di noi stessi.

Torino, 14 Dicembre ‘19

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