Merda nel tabernacolo

Prima di diventare un Lolito a Teheran, una ballerina col pisello a Madrid, un taglialegna nel Sahara, un mulo porta-preservativi di cocaina a Bangkok e infine uno scrittore fallito di pornografie metafisiche, Fulvo era stato un bambino dalle gambette corte ma dalla lingua lunga, in perenne fuga dalle bastonate dei compaesani cattopapisti.
Nato in un paesello che puzzava di sterco e incenso, in prima media, su spinta manesca del parentume, era stato adottato intellettualmente da un sacerdote benigno, che curava l’ignorantismo del popolo spacciando copie del Vangelo, il celebre fantasy mattonesco.
«La bellezza è interiore» si ripeteva ogni mattina il prete, nudo di fronte allo specchio. Obeso in ascissa, nano in ordinata e malpelo di pelo, se c’era un dio allora gliel’aveva fatta proprio sporca.
Nonostante l’orrore estetico, nel corso della vita l’omino era comunque riuscito a trarre qualche vantaggio dalla sua bruttezza. All’inizio aveva usato i libri come fossero un burqa, per mettere tra sé e l’altro un muro di carta, o almeno un muretto, ma stando a contatto coi testi, si era reso conto che quella rete d’inchiostro aveva anche un senso e conferiva poteri: la parlantina e soprattutto l’immoralismo.
La vecchiaia smussò il suo ascetismo, il suo masturbatorio bastare a se stesso, e quando, vecchio e presuntuosamente saggio, s’insediò nella parrocchia di Fulvo, il sacerdote scoprì un nuovo sport: la pesca di anime, soprattutto di piccola taglia.
Nelle sere d’agosto don Galileo organizzava il campeggio estivo. Per risparmiare sui costi e incassare comunque le iscrizioni, tirava su delle pseudotende nel parchetto dei drogati di fronte alla chiesa, servendosi di cellophane, cianfrusaglie, bestemmie e sputo. Trascorreva le notti coi bambini, cantava a vuoto, festeggiava a vanvera e soprattutto leggeva loro il libro più venduto e meno aperto di sempre: la Bibbia.
Mangiava nel piatto curiale, ma a pasto concluso ci sputava dentro, faceva l’alternativo, l’eretico. Durante quelle lezioni di catechismo don Galileo insegnava ai bambini lo spirito critico, il polemismo. Diceva che la fede senza intelletto è l’amore incondizionato e scemo del cane. Diceva che se Gesù fosse tornato sulla terra per un secondo Erasmus, vedendo i papaboys, non avrebbe più smesso di vomitare.
Anche se don Galileo criticava la chiesa da dentro, e quindi da ipocrita mantenuto, quelle erano comunque riflessioni valide, in un certo senso coraggiose, e visto che il Vaticano era ormai di bocca buona e premiava chiunque, da Padre Manibucate Pio a Teresa Eticadeldolore Calcutta, don Galileo avrebbe senza dubbio meritato la medaglia di pongo della santità, se non fosse stato per un minuscolo dettaglio.
Prima di andare a dormire, con la luna alta nel cielo e il pube imbizzarrito, il sacerdote preparava ai suoi angioletti uno scodellone di camomilla aromatizzata con gocce narcotiche. Una volta addormentati, completava la cura con una fazzolettata sul muso di cloroformio o con un bel siringone di Propofol.
Quando l’oppiaceo entrava in circolo, i bambini s’imbalsamavano subito, come le teste di cervo nei salotti dei campagnoli cafoni. Alcuni s’irrigidivano in posizione fetale. Altri mantenevano la schiena dritta, mentre braccia e testa penzolavano dolcemente nel vuoto onirico. Don Galileo passeggiava nel suo reame di belle addormentate. Succhiava un capezzolo, frugava nelle bocche con la lingua arrapata. Cercava posto sotto le ascelle, si acciambellava sui pancini, piangeva sugli sterni sognando di essere amato, pomiciava coi prepuzi.
Don Galileo era una bestia, ma aveva stile e metodo, e se qualcosa nel suo marchingegno non fosse andato storto, la sua orgia civile sarebbe andata avanti per anni.
Lui però era umanista, mentre il mondo, come insegnava il suo omonimo pisano, era scritto a caratteri matematici, e una sera, rincoglionito dal piacere, Galileo toppò il dosaggio delle droghe, e fu la fine.
Fulvo si risvegliò con il cranio del suo maestro in moto pneumatico spompinante attorno al suo pene dodicenne. Guardandosi attorno, sopra, sotto, vedeva culetti, cosce, gomiti, sacchetti scrotali, un carnaio di nudi sconci ma innocenti.
In meno di un secondo il bambino era già fuori, sopravvissuto e quindi testimone oculare, mentre il pretino, immobile, respirava asmaticamente, terminalmente, come le vacche prima del macello.
Cosa fare adesso? Tirarsi una pallottola in mezzo alla fronte battezzata? Scrivere una lettera d’amor scortese al papa Parkinson? Oppure negare, negare e negare, trinitariamente? Entrambi però avevano sopravvalutato il potere della verità, che nel paese fecale valeva quanto la moltiplicazione dei pesci davanti a un pubblico vegano.
Fulvo viveva assieme alla madre, mongolfiera lardosa, tenuta in vita dal respiratore dell’invalidità. Stuprata per scommessa, durante un ritiro spirituale in montagna, nove mesi dopo aveva defecato il figlio in mezzo a un lago di merda, sangue e luce.
Nel tempo il tessuto adiposo l’aveva travolta, come un’autoinvasione barbarica, aveva fratturato le ossa, ghigliottinato le sinapsi, triturato gli organi. Ora aveva quarantacinque anni, portati a casaccio, su un gommone lipidico che era lei stessa. Aveva tutto il corpo paralizzato, ceppato dal lardo, a eccezione della palpebra sinistra, che sbatteva piano: due volte per dire no, una volta per dire sì e tre volte per dire: voto fascismo.
Quando il giorno dopo Fulvo, in lacrime, le confidò l’accaduto, l’ameba chiuse la palpebra una volta e non la riaprì più: s’era addormentata nella speranza della resurrezione, purtroppo non per sempre, ma solo fino all’ora di cena.
Dato che i tempi erano ancora predigitali e non ci si poteva certo autoreclamizzare sul web come vittima criticona, il sommerso e salvato andava di casa in casa, come un rappresentante di padelle, a raccontare la vita erotica di don Galileo.
Mostrava le stigmate del martirio sessuale: ustioni da contatto fallico. Ma ovunque bussasse, riscuoteva solamente incredulità, porte chiuse, sacchi di umido dalla finestra e minacce di chiamare subito il vigile, l’accalappiacani, l’accalappiamatti.
Anche se praticavano poco e bestemmiavano tanto, i cittadini del paesello erano comunque dalla parte del cristianesimo, anzi del democristianesimo, e tra la verità e la croce, avrebbero sempre messo la croce sulla croce, quantomeno per coerenza geometrica.
La comunità si stringeva attorno al sacerdote, bersaglio dei deliri di un povero ritardato. Il morale di don Galileo cresceva, si montava, grazie all’affetto dei paesani. Ben presto l’esistenza del ragazzo divenne un inferno. A scuola gli insegnanti lo bocciavano categoricamente a priori, al parco era bandito come un cane rognoso, al mercato lo ricoprivano di frutta marcia. Gironzolava per strada e le automobili s’impegnavano a investirlo, simulavano gincane, invadevano i marciapiedi.
In primavera fu radiato dal calendario delle cresime per manifesta possessione demoniaca. Lo accusarono in disordine sparso di tossicodipendenza, omosessualismo, lesbite, ateismo, paganesimo, stregoneria, gioco d’azzardo, spaccio di organi umani, licantropia, dendrofilia, podofagia, zoorastia, zoroastrismo.
Pur avendo all’attivo solo un paio di temi sconci, Fulvo ereditava il destino di tutti gli scrittori scassazebedei: in regime di omertà, colpevole non è chi compie il crimine, ma chi lo denuncia. La democrazia, a duemila anni dal musical evangelico del Gesù Cristo superstar, aveva nuovamente salvato Barabba il farabutto e impalato un giusto, una capra espiatoria.
Ma mentre considerava due soluzioni entrambe suicide, ovvero la morte per maciullamento cranico sotto le lamiere di un treno e l’espatrio esotico senza soldi, gli venne in mente una terza via, un cammino gioioso e cretinocentrico per cui sarebbe valsa la pena di vivere, o almeno di sopravvivere.
Avrebbe risposto con l’arte, con la più sottovalutata, anonima ma eternizzante forma d’arte in assoluto: l’atto vandalico.
La vigilia di Pasqua c’era l’adorazione psicosessuale del corpo di Gesù e le porte della chiesa erano sempre aperte, anche la notte. Fulvo fece quindi facilmente irruzione nella dimora pignorata di dio, rimase all’ultimo banco, camuffato nel buio, e dopo essersi assicurato che non ci fosse più nessuno, manco una vecchia salmodiante, andò in sacrestia a cercare le chiavi del tabernacolo. Le trovò appese a un gancio, proprio accanto ai travestimenti preteschi.
Salì sull’altare, e col sederino proiettato verso La Mecca, evacuò la sua opera d’arte, sedimentata in giorni d’astinenza, dopata e montata da una dieta di latte invecchiato e fagiolame.
Il giorno successivo Fulvo non vide il miracolo, perché in chiesa lui non poteva entrare, come i cani o i divorziati, ma lo sentì, sentì il miracolo, attraverso le grida telluriche del gregge del Signore. Non appena Galileo aprì il tabernacolo, un turbine d’acqua marrone lo travolse.
Era una merda alluvionale, che veniva giù a pepite, era una merda incandescente, da ustione di quarto grado con liquefazione delle ossa, era una merda radioattiva, che manometteva la concatenazione nucleica, era una merda atomica, che sbuffava nell’atmosfera una nuvola di morte, era una merda d’artista, perché, nonostante la sporcizia, aveva un sorriso astruso, come la Mona Lisa, era una merda pasticcera, ornata di mousse alla diarrea e scaglie di cioccolato bianco, era una merda pandemica, che secerneva febbre quartana, malaria e colera.
Don Galileo ululava, col volto tappezzato di gonfiori e cancrene, mentre il puzzo si spargeva dal tabernacolo alle navate. Quel sudiciume dimostrava empiricamente l’essenza nera del sacerdote, il suo cuore d’escremento.
Fulvo non poté mai essere incriminato, visto che l’oratorio non disponeva di tecnologie per risalire, tramite l’impasto intestinale, al codice genetico del suo evacuatore.
Presto don Galileo sarebbe morto e pochi anni dopo la Chiesa lo avrebbe seguito. Prostituita al presente, orfana del sacro, la Chiesa sarebbe sparita senza far rumore né notizia, come i termometri al mercurio, i negozi di dischi, le lucciole, nel senso sia di insetti autocinetici che di mignotte stradali.
I bambini sarebbero diventati sempre più rari, figli unici e quindi intoccabili, mentre i preti, come le badanti, sarebbero stati tutti filippini, portoricani, fino a quando ci sarebbero state, sacrosantamente, più chiese che preti, più chiese che fedeli.
Dopo essere stato un bambino dalle gambe corte, dalla lingua lunga e dall’escremento vendicatore, Fulvo sarebbe diventato un burattinaio a Napoli, un ladro di polli in Israele, un gimnosofista a Nuova Delhi, un modello di nudo in Lapponia e infine uno scrittore fallito di pornografie metafisiche.
Ma ovunque fosse andato a finire per poi ricominciare, non avrebbe mai dimenticato la sua infanzia cattolica, e per ricordarsela sempre si sarebbe tatuato una croce, una croce sotto il piede per calpestarla a ogni passo.

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