Un mondo tutto mio – L’Uomo Ragno di Denver

Un mondo tutto mio – L’Uomo Ragno di Denver

 

Nel 1899, a Denver, Colorado, Phillip e Helen Peters si recarono al loro club di mandolino, dove conoscenti e amici amanti della musica aspettavano impazienti il maestro dalle dita lunghe e affusolate, così bravo a inanellare accordi. Il maestro aveva solo 17 anni, e non riusciva a smettere di tossire mentre si avvicinava alla piccola casetta. Il suo nome era Theodore Edward Coneys.

Theodore Edward Coneys

Theodore era sempre stato un bambino cagionevole e la sua condizione andava solo peggiorando: come regalo per il suo diciassettesimo compleanno, i medici gli raccontarono che non avrebbe visto il diciottesimo. Appresa la notizia, Theodore lasciò subito la scuola superiore. A cosa serviva? Solo a vedere tutti i giorni i ragazzi che lo prendevano in giro per la sua condizione. Voleva giocare a baseball e agitare una mazza come tutti gli altri, ma la madre – unico genitore rimastogli  glielo impedì: troppo per il ragazzo provato dalla tubercolosi e da problemi di cuore; così lei stessa lo spinse verso la musica.

Mentre si avvicinava al luogo della lezione col suo mandolino in braccio, Theodore non riusciva a non odiare le persone sorridenti che lo aspettavano all’interno, con la vita tutta davanti. I Peters presero a cuore questo disgraziato malaticcio e cominciarono a invitarlo a cena nella loro casa al 3335 di West Moncrieff Place, dove il giovane Theodore avrebbe raccontato della sua miserabile esistenza.

Dopo un po’ la frequentazione di interruppe, fino a quando Theodore rivide i Peters nel 1912. Li aggiornò su sua madre: era morta, ma non prima di aver dato tutti i suoi soldi a un truffatore. Non raccontò del suo tentativo di entrare nell’esercito e di come gli avevano riso dietro. Questa volta, Coneys rifiutò l’invito a cena. Dopo aver provato alcuni lavori a Denver, Theodore viaggiò negli Stati Uniti in cerca di fortuna, collezionando una serie infinita di fallimenti.

Tornò a Denver nel settembre del 1941, poco più che un barbone.

La casa dei Peters al 3335 West Moncrieff Place, Denver, Colorado, Wedgewood Real Estate, c.1978

Era passato un trentennio: Phillip Peters era un tranquillo pensionato di settantadue anni. La sua routine era turbata solo da un incidente: sua moglie Helen si era rotta l’anca ed era ricoverata; come ogni giorno, Phillip – accompagnato da un vicino – l’andò a trovare. Non vide l’uomo magro e malconcio che lo guardava dall’altro lato della strada.

Cinque settimane dopo, Helen era ancora in ospedale e Phillip viveva da solo. Una vicina aiutava il vecchio invitandolo a mangiare con lei ogni giorno, ma quella sera dell’ottobre 1941 Phillip non si era presentato. La vicina si preoccupò subito – non era da lui, e aveva pur sempre una certa età – e radunò un gruppo di persone che cercò di entrare nella casa, chiamando l’anziano a gran voce. Alla fine una ragazza riuscì ad aprire la porta sul retro, e quelli che erano rimasti fuori sentirono solo le sue urla disperate. Phillip Peters giaceva nel suo sangue, colpito 37 volte con un attizzatoio di ferro. Aveva reagito, spezzando il suo bastone addosso all’aggressore.

Il capitano James E. Childers era confuso. Nessun segno di effrazione, soldi e orologi di valore al loro posto su mensole e credenze. «L’assassino si è preso del tempo per lavarsi le mani e pulire l’arma del delitto, quindi avrebbe potuto prendersi del tempo per rubare», dichiarò Childers. Nessuna rapina, nessuna vendetta. Era un buon quartiere e il caro vecchio Peters non aveva nessuno che lo odiasse a tal punto. I poliziotti setacciarono la casa da cima a fondo senza trovare niente, a parte una specie di minuscola botola in un armadio al piano di sopra. Due agenti diedero un paio di colpi, ma l’apertura era sigillata. In ogni caso un uomo non avrebbe mai potuto attraversarla, e le indagini preliminari avevano determinato che l’assassino doveva essere alto almeno un metro e ottanta.

La casa dei Peters oggi

Helen Peters finì la sua convalescenza e ritornò nella casa che aveva occupato col marito per ormai quarant’anni. Era una signora anziana e sola. Una notte qualcosa la spaventò a tal punto che cadde e si fratturò di nuovo l’anca. Non volendo tornare in ospedale, dovette ricorrere all’aiuto di due vicine per i suoi bisogni quotidiani: la signora Edith Clark per il giorno e la signora Hattie Johnson per la notte.

La signora Peters era dura d’orecchi, quindi fu la Clark a riportare alla polizia le prime stranezze. Sentiva rumori come di ratti nei muri, e a volte avrebbe giurato che soffici suoni di passi nascosti provenivano da stanze che sapeva essere vuote.

Hattie Johnson sentiva gli stessi rumori, e notava che mancava del cibo dai vassoi che preparava, che il giornale veniva rubato e che vari oggetti cambiavano di posto. Un campanello era stato installato nella camera da letto della padrona di casa, per ogni evenienza. Una sera il tintinnio venne dalla stanza al piano di sopra mentre la signora Peters era tranquillamente seduta in cucina. Non fu trovato nessuno nella sua camera.

Una notte Edith Clark chiamò la polizia, terrorizzata: «Solo qualche minuto fa ho sentito dei colpi. Li avevo sentiti prima d’ora, ma pensavo che fosse un picchio, ma stavolta sono entrata in cucina e ho visto la porta che dà sulle scale che portano al piano di sopra che si apriva piano. Ne è venuto fuori un piede e poi ho visto una mano sottile e bianca sulla porta. Ho urlato e l’uomo si è gettato sulle scale e l’ho sentito correre su per i gradini».

Ancora una volta la polizia non trovò nessuno, ma le dimissioni di Edith Clark non si fecero attendere. Due settimane dopo arrivarono anche quelle di Hattie Johnson: aveva incontrato il fantasma e questo aveva fatto schioccare i denti nella sua direzione.

Anche Helen Peters partì: chiuse tutte le utenze e andò a vivere con suo figlio a Grand Junction, in West Colorado. La casa del 3335 di West Moncrieff Place era di nuovo fredda, buia e vuota.

Non per questo le dicerie e le denunce alla polizia si fermarono: tende spostate, piccole luci nella notte e, soprattutto, una faccia bianca che spiava dalle finestre e che, così com’era spuntata, scompariva. La stampa locale cominciava a parlare del fantasma assassino che viveva nella casa di Denver e la polizia, viste le continue segnalazioni, organizzò ronde regolari e appostamenti.

Nel luglio del 1942, i detective Roy Bloxom e William Jackson pattugliavano la zona. Dall’altro lato della strada, il lato della casa, il postino stava facendo il suo giro mentre i due poliziotti lo osservavano. Uno di questi vide una faccia spettrale che faceva lo stesso dal secondo piano della casa. I due scattarono in corsa, chiamando rinforzi coi loro fischietti e irrompendo nella casa. I mobili erano coperti da lenzuola e sopra il pianoforte era esposto un piccolo ritratto dell’ultimo decennio dell’Ottocento: un piccolo ragazzino emaciato sedeva in primo piano, stringendo un mandolino.

Un rumore dal piano di sopra spinse Bloxom e Jackson all’inseguimento, uno strano puzzo animale che li accoglieva. Arrivarono in una stanza-magazzino in cui c’era un armadio: era da lì che arrivavano i rumori. Aperto l’armadio videro un paio di piedi che scalciavano violentemente, e l’orlo dei pantaloni più malandati che avessero mai visto. I due agenti tirarono fuori dalla piccola botola un uomo pallido e magrissimo, disgustosamente sporco.

«Aveva le sopracciglia folte, occhi grandi ed era pallido come un fantasma. Odiava la luce del sole ed era del colore di un fungo, o di un ragno che scappa nell’oscurità quando viene scoperto sotto una pietra».

L’avevano preso: il fantasma della casa di West Moncrieff Place. Era alto un metro e ottanta, ma pesava solo 34 chili. La botola da cui l’avevano tirato fuori misurava  ventotto centimetri per trentotto. I poliziotti mandarono dentro il loro agente più esile, Detective Fred Zarnow. Lo spazio ricordava una bara, novantaquattro centimetri in altezza, all’apice, lungo poco più di due metri e largo un metro e venti; le pareti si restringevano fino a formare la punta del tetto. Appena infilata la testa, l’agente barcollò indietro per vomitare.

«Barattoli di rifiuti umani erano messi in fila lungo i muri. Un uomo dovrebbe essere un ragno per rimanere a lungo lì sopra».

Quando lo ebbero portato in caserma e gli venne dato da mangiare, “l’Uomo Ragno di Denver” raccontò la sua storia. Fu chiamato così dai giornali sia per le dichiarazioni del Detective Zarnow sia per gli occhi grandi e le lunghe dita, ma il suo nome era Theodore Edward Coneys.

Theodore Edward Coneys al momento del suo arresto

Quella mattina del 1941, Coneys aveva pensato di visitare il signor Peters per chiedere del cibo e magari qualche soldo. Non si vedevano da trent’anni, ma in fondo era sempre stato gentile con lui. Lo vide allontanarsi e, invece di aspettarlo, entrò dalla porta sul retro nella casa. Mangiò subito qualcosa e poi cominciò a curiosare per le stanze. In un magazzino al piano di sopra aprì un armadio, e lì vide una piccola botola che portava a uno spazio a forma di bara. Era già settembre, e Coneys aveva vissuto per strada per molti mesi. L’inverno in Colorado è freddo, e Theodore non poteva passarne un altro sotto un ponte. No, proprio non poteva. Così si arrampico nell’apertura e visse cinque settimane nella stessa casa di Phillip Peters.

Il nido di Coneys

Così Coneys rimaneva tutto il giorno nel suo buco, aspettando di sentir russare. Poi usciva e rubava cibo, abbastanza poco da non destare sospetti. Tuttavia la noia prese presto il sopravvento, e Theodore cominciò a giocare con l’anziano ignaro. Prese a seguire Peters per la casa; gli faceva da ombra e si nascondeva dietro le porte.

«Era elettrizzante. Per la prima volta nella mia vita avevo qualcuno alla mia mercé […]», raccontò alla polizia.

Un giorno Peters lo scoprì a rubare cibo, e Coneys agì d’istinto: «Pensavo che avrei perso il mio rifugio […] era me o lui». Così uccise l’unica persona che gli avesse mai offerto aiuto e amicizia.

Dopo la morte di Peters, sua moglie Helen ritornò nella casa. Theodore adesso viveva vicino alla vedova dell’uomo che aveva ucciso, e i suoi giochi ripresero: complice la sordità dell’anziana, Coneys spesso la guardava dormire.

Quando anche la signora lasciò la casa, cominciarono i problemi per l’Uomo Ragno di Denver: il riscaldamento era stato staccato e nessuno comprava più cibo.

Nel lungo racconto alla polizia e alla stampa, Theodore ammise: «Faceva orribilmente caldo d’estate e mi gelavano i piedi d’inverno, ma era parte del prezzo che ero disposto a pagare. Non vi so dire perché ho continuato. Immagino che fosse soprattutto perché era un mondo tutto mio. Andavo giù e guardavo fuori dalla finestra, e vedevo il postino che passava. Nessuno mi ha scritto per venticinque anni. Ogni volta che vedevo delle persone, li odiavo e tornavo su nella mia soffitta».

Spiegò anche che durante la prima indagine aveva usato il suo corpo per tenere chiusa la botola, con gli agenti che spingevano dall’altra parte.

Nonostante tutto quello che aveva raccontato, Theodore fu giudicato sano di mente e poté andare a processo. Era il giorno di Halloween del 1942; la giuria ci mise solo novanta minuti a deliberare. L’uomo fu grato per la sentenza di ergastolo: almeno avrebbe avuto un posto dove stare.

Theodore Edward Coneys, l’Uomo Ragno di Denver, entrò in carcere il 18 novembre 1942, e lì morì il 16 maggio 1967. Erano passati altri sessantasette compleanni dal suo diciottesimo.

Dalla prima pagina del Laredo Times, 1 novembre 1942

 

 

Fonti:

Denver Public Library: https://history.denverlibrary.org/news/tale-denver-spider-man

Petersburg Observer, 7 Agosto 1942 (tramite genealogytrails.com):

http://genealogytrails.com/ill/menard/news/coneys.html

Archivi del Chicago tribune:

https://www.newspapers.com/newspage/372104483/

Archivi del Museum of Colorado Prisons:

https://web.archive.org/web/20040213070643/http://www.prisonmuseum.org/spider.htm

Archivi del Laredo Times:

https://newspaperarchive.com/laredo-times-nov-01-1942-p-1/

Foto della Wedgewood Real Estate tramite Denver Public Library.

Identità e date verificate tramite Social Security Death Index: https://www.ancestry.com/search/collections/ssdi/

 

 

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