Un bambino arcobaleno

Steven sedette al trucco tra un bestione palestrato e una bionda di provincia con gli occhiali colorati. Le truccatrici li avvoltolarono in teli candidi, profumati, e sorrisero agli specchi che scintillavano di fronte a loro. Lampadine, flaconcini e una nube di cotone. Lui fissava stanco per il viaggio in jet privato la propria immagine su quei cristalli, no: la propria icona; la intera sala naturalmente lo riconobbe. La sala intera guardava a
me.
«Lei è mica», chiese il mostro: gli sembrò un accento slavo; «lei è mica», chiese lei. Steven rise, non rispose: e chi altro potrei essere? Le truccatrici gli incatramarono il volto aguzzo di un cerone color Barbie; la parrucchiera gli illuminò la testa argento geniale di un fuoco o di un’aureola d’arguzia e intelligenza. Una stronza con le pinze gli strappò i peli del naso, le orecchie e gli corresse le sopracciglia; la manicure gli scolpì attenta le mani candide e piccoline. Li liberarono dai teli caldi, umidi, macchiati dei loro corpi e li affidarono a un’esattina con iPad e tailleur blu. Il titano e la ragazza lo abbandonarono sul set di un telequiz; Steven vide uscire dallo studio di “Che Tempo Che FaRÀ” la scrittrice Sarah Pazzi, ed entrò fulgido e dritto sotto le fiamme dei riflettori.
Pierfrancesco Diliberto – Pif, per tutti: più ruffiano, che imbolsiva sessantenne sul trono antico di Fabio Fazio – lo invitò sulla poltrona con uno squillo di benvenuto:
«È con noi questa sera Steven Saittan!»
Luci.
Applausi.
Com’è ovvio.
Steven si sedette innanzi il pubblico nello studio; they band of follower they happy few che lo vedevano da vicino, vivo, di persona. Diliberto lesse alle telecamere quattro righe sul suo conto che la Via Lattea sapeva già:
«Steven Saittan è il tiktoker e divulgatore emotivo più seguito nel mondo. Nel mondo», ripeté, «noto per aver scoperto delle vulnerabilità affettive nei siti di Google e Microsoft. I suoi cartoni sono editi da Gallimard, e – lo posso dire? – c’è chi lo candida al premio Nobel. Lei, Steven Saittan, è l’Uomo Che Dice Alle Persone Quello Che Le Persone Si Vogliono Sentire Dire: è questa la sua filosofia?»
Nell’elenco di domande che il mese prima Steven aveva esaminato, corretto, restituito con un “OK” non era scritto “filosofia”: era “segreto del suo successo”; ma a lui sembrò opportuno scegliere un altro termine. Sugli schermi dello studio si alternavano meme e video, post, twittate, storie e documenti delle mille e diecimila o ormai milioni di volte in cui Steven aveva salvato vite.
Steven conosceva le parole della gioia. In un video, una donna diceva a Steven piangendo di aver paura di non piacere alla gente: lui le rispondeva «tu hai paura di non piacere alla gente». Un uomo confessava di non riuscire ad accettare la propria omosessualità; Steven gli diceva «tu non riesci ad accettare la tua omosessualità»: eccetera e nient’altro. Ma quell’uomo, quella donna, quegli eccetera a milioni, dopo, ancora e anche ora ritornavano felici, e tornavano a star bene. Steven assecondava il dolore della gente, e la gente ne era grata. Non si mente alle persone sul loro male.
«Ma io non credo sia solo questo», insistette DiliPif.
«No, certo. Soprattutto, io sono stato un bambino arcobaleno, nato da genitori che sono stati bambini indaco.»
«Ci racconti, ci racconti.»
Il conduttore sfogliò le pagine delle domande e le risposte approvate, e Steven notò in corrispondenza di quell’ultima una nota scritta in rosso: “cosa sono?”. C’era un link. Un indirizzo di Wikipedia su Nancy Tappe, Carroll e Jan Tober.
Non, “chi sono”.
“Cosa sono”.
«Quando ancora ero nel seme di mio padre, quando ancora ero un ovulo di mia madre, percepivo il mondo esterno a me e osservavo la tessitura della mia vita.»
Le telecamere non inquadrarono il sorriso di DiliPif.
Cosa c’è di divertente?
Papà e mamma accoglievano gli amici nel salotto colorato. Su un tappeto di mandala. Su un balcone di dracene. Le finestre erano state oscurate perché i raggi del sole le penetrassero solo il giorno dell’Equinozio, Samhain, del Solstizio; di Candelora, Beltane, Lammas e di quello del Risveglio. E le assi erano incise di preghiere dall’Enchiridion, perché entità negative e nere non infestassero la loro casa:
«Non le vogliamo», scherzava mamma. Gli insegnò qualche esorcismo.
Le pareti della stanza erano tinte di verde acqua, di arancione e di viola, e i pentacoli del Sole ricamati sulle tende. Il ricamo era di Cinzia – ch’era amica della mamma, il disegno era di Tommy – ch’era amico di papà: aveva fatto la scuola d’arte ed era stato anche un po’ negli USA. Era stato a visitare anche le ceneri di Charlie Manson. Quando il sole penetrava nella casa, al Solstizio e l’Equinozio, era come per le dimore filosofali nel libro grosso di Fulcanelli sugli scaffali di papà e mamma:
«Le vetrate», gli insegnarono, «rappresentano l’Immacolata: perché Dio-Sole l’ha penetrata, e Lei ne è gravida, ma Lei è Intatta.»
Era ottobre. Un venerdì. Forse l’ora di Saturno. L’architrave tintinnava di campane di alluminio.
«Ciao, entrate», disse mamma, «ma toglietevi le scarpe»; il papà tornò in balcone per aggiungere due sdraio, posò sul tavolo di canne e vimini quattro bicchieri di porcellana. Lei guardò la tipa nuova che stasera era con Samuel: spigolosa, ma carina; sembra timida. Anche stronza. Ma gli piacciono così. E la vide un po’ interdetta dai colori e dalle rune.
«Ciao», sorrise.
«Lei è Nadia.»
«Nadia. Bello», disse mamma.
«Nadia. Ciao», disse papà. Portò il miele e dei biscotti, «vi preparo un tè di fiori».
Chi non ama il tè di fiori.
La notte estiva pesava afosa su una tenda-giallo arancio, la citronella, gli incensi e i petali si consumavano sul davanzale.
Quelle chiacchiere per forza: cosa fai, cos’hai studiato; sei di fuori; dove vivi? Soffia. Aspetta: ché è bollente. Quanto zucchero? È di canna. Io col miele. Preferisco. Eh, ma adesso c’è la guerra.
«Samuel mi ha detto che conoscete i tarocchi.»
«Sei qui per questo.»
«Mi piacerebbe.»
«Ma tu ci credi?»
«Curiosità.»
«Si paga un obolo.»
«Vi faccio un paypal», disse Nadia, «quanto devo?».
Che sarà?
«Non si parla di soldi. È un’offerta, uno scambio», il papà tirò dal cilum, offrì loro una fumata
«Cosa avrei da scambiare?», la magrolina si irrigidì.
«Vado al bagno», disse Samuel.
Come fosse a casa propria.
«Ma anche un nulla: purché tuo.»
«Io do sempre loro caramelle e sigarette», disse l’altro a porta aperta: si sentì il fiotto d’orina, lo sciacquone, il rubinetto; i fruscii di asciugamani, l’eco piatto del coperchio. Lei frugò nella borsetta:
«Boh? Non so.»
«Ce l’hai del tempo
«Quando.»
«Adesso», disse mamma.
Guardò complice papà.
«Sono qui. Però dipende.»
Tornò Samuel.
Zip aperta:
«Che gli hai dato?»
«Niente, ancora», sudò Nadia. Fissò più cupa papà e la mamma, «mi ha chiesto tempo: sarebbe a dire?»
«Resta ancora un paio d’ore. Fino a Venere.»
«E cioè?»
«Dài, le dieci pressappoco.»
«C’è il coprifuoco.»
«Ma vaˈ.»
«La patta», disse mamma al loro amico: Samuel, «ops», si abbottonò.
«Io da sola?»
«Tutti e due.»
«Potrei sapere perché, però?»
«Devi assistere a qualcosa», disse mamma e anche papà.
«Cosa, scusa?»
«Stai tranquilla», rise Samuel. Si sedette, chiese un tiro, bevve un sorso, si sgranchì; guardò il cielo buio e terso foracchiato dalle stelle: «ˈsti cretini impazziscono perché appare un pianeta, per la luce della luna quando illumina quel vetro»: le indicò lo specchio magico che era appeso ad Occidente. Il papà gli diede un buffo.
«È una cosa del genere, in effetti», disse mamma.
A papà si rizzò il pene nei pantaloni di lino. Colò il miele nella tazza. Si versò dell’altro tè. Prese il mazzo di tarocchi nel cassetto lì in salotto.
«Se è solo questo…», si arrese Nadia. Domandò delle sue cose, di una angoscia di lavoro, della invidia di un’amica; «poi l’amore, se si può»: Samuel, zitto, tornò nel bagno, si immusonì. La magrolina di lui e loro non chiese niente; fece il nome di un altro.
Non funziona così.
Ma la mamma non le disse che i tarocchi non ci parlano di queste cose: li tirò a caso, mentì, ingannò. Fino a che Venere non scorse in cielo.
«E i tarocchi parlarono di me
«Spieghi, spieghi», incalzò Pif, «gli spettatori non la capiscono.»
Steven Saittan restò muto. Con gli occhi azzurri negli occhi-belva. Le telecamere, le genti in studio, negli occhi vuoti degli abbonati. Guardò il regista, gli autori e Pif che impallidivano del suo silenzio, sentì il serpente del loro panico che fischiava fuori campo.
Nadia disse che era figo. Nadia disse che era forte; che ci aveva indovinato, che ci hai preso in molte cose. Ma anche in altre: sì, in effetti, ché a pensarci era così. Qualunque cosa le avesse detto sarebbe stata altrettanto figa, sarebbe stata altrettanto forte, sarebbe stata altrettanto vera. Così per ridere papà e la mamma le predissero anche un viaggio:
«Dove?»
«In Grecia.»
«Maddài! Ma quando?!»
Non c’era un quando:
«Decidi tu.»
Tanto lei, come la gente, non ricordava che è inabissata nel duemilaventinove; pane, pietre, spiagge & olive in liquefatte profondità.
«Signor Saittan, non sta bene?»
«Ma adesso paga», le disse mamma, «ché ci serve un testimone.»
Dio, se è gretta!, pensò Nadia: pensò a qualcosa di questo genere; Steven Saittan poté udirla fin dai testicoli del suo papà.
«Solo un’ora. Un’ora sola. Finché il Dio-Sole sarà su Venere.»
La magrolina scrollò le spalle, sospirò che era d’accordo. E il papà tracciò col gesso il cerchio magico sul balcone, portò i ceri rossi, neri e gli incensi planetari. Tracciò il triangolo, calò i calzoni, varcò il triangolo, si masturbò.
«Ehi, ma dì: che cazzo fate?!», strillo Nadia.
«Guarda e basta.»
«L’hai promesso.»
«Sono innocui», disse Samuel.
Mamma, nuda, dentro il cerchio, si distese a gambe aperte. Senza gonna si vedevano le escoriazioni rituali che da mesi praticava nei giorni adatti e nell’ore giuste, e le sue gambe e le sue ferite assomigliavano a corna tortili. La sua vulva era la stella che è sulla fronte di Bafometto, la sua testa era la bocca e la parola di Bafometto, e belava che il papà la ingravidasse di me. La luce nera dei ceri neri penetrava la sua pelle, la luce rossa dei ceri rossi le titillava la pineale. Il papà versò il suo sperma nel triangolo, e ancora duro schizzando ancora spezzò il sigillo di Bafometto. Il suo sudore colò sui corni carnicini e attorcigliati e sputò i settanta nomi lingua a lingua con Bafometto. Steven Saittan era il liquido sia di mamma che papà.
«Siete matti! State male! Vaffanculo!», gridò Nadia; spintonò l’altro coglione, corse fuori dalla casa.
«Sei venuto», disse mamma.
«Sì, venuto», uscì papà.
Il Bafometto restò accucciato in posizione fetale, perché Julianne in quella scena di Big Lebowski dice che è più facile, così, restare incinta. Io, però – secondo il rito – sono nato dallo sperma nel triangolo e il tappetto.
«Signor Saittan», disse Pif.
Con la camicia gualcita e madida.
«Io sono stato un bambino arcobaleno. Nato da genitori che sono stati bambini indaco. Ho dei poteri», lui sbadigliò: era stanco, era annoiato, e gli toccava affermare l’ovvio, «anche loro li hanno avuti, ma quando avevo sei anni, sette, si è trattato di accrescerli. Per il mio bene, per loro amore e la salvezza di questo mondo.»
«Non stiamo esagerando?»
Lui scorse irritato il foglio lucido con le domande, e “non stiamo esagerando” non figurava tra le approvate:
«Per il mio bene, per loro amore e la salvezza di questo mondo», scandì più lento, più chiaro, forte e ammiccando al conduttore: perché è evidente che si è sbagliato, che ha scordato la battuta. La scaletta prevedeva che “ciò è bellissimo, signor Saittan”.
Tocca a lui di recitare.
«Ma ciò è bellissimo, signor Saittan», tornò serio Diliberto.
Ora, il pubblico applaudì.
«Ero un leader già all’asilo. Capeggiavo la mia banda.»
La telecamera di fronte a lui lo inquadrava in primo piano. In primissimo. In dettaglio. Gli entrò dentro, guardò dentro. Guardò il fondo di fanghiglia, guardò il corpo di Alessandro. Marco, Luca. Quei tre stronzi. Che quando andavano a far le cose da Elisabetta – nel suo garage – lo allontanavano. Lo spernacchiavano: «sei troppo piccolo, ancora, tu». Lo lasciavano con Franco. Che giocava col suo aereo. Quali cose facevano, lei & loro là dentro? Papà e mamma a quattro anni lo iniziarono al Kamasutra, e praticarono magia sexualis sul suo culetto. Sul pisellino. La lapis exilis tra le sue gambe. La cera calda sul suo sedere, e il cero nero didietro dentro. Papà e la mamma la praticavano lentamente e con pazienza: perché il rituale riuscisse bene doveva essere obbediente e zitto. I rituali d’ore e notti.
Lui piangeva:
«Ché fa male!»
«Perché è magico, il dolore.»
E il papà si era rasato come Aleister suo magister, e la mamma si infilzava certe campane di vetro tra le dita dei piedi. Come anche Elisabetta. Come la madre di Elisabetta finché era giovane, famosa e ricca. Nelle orge al suo palazzo. Tra colline marchigiane. Quindi lui sapeva bene, cosa facevano nel suo garage. Finché un giorno volle entrare, e li sorprese su un materasso. Marco, Luca ed Alessandro con le mutande calate giù. E Elisabetta li accarezzava.
No: il rituale era sbagliato.
«ˈcazzo vuoi?! Vaˈ via!»
Lui rise.
Lo spintonarono.
«Sbagliate tutto.»
«Sai un cazzo, te, fiolino!»
«M’ha insegnato il mio papà.»
Luca, Marco ed Alessandro non capirono che cosa. Ma Elisabetta si impallidì:
«Che cos’è che ti ha insegnato?»
Tutto il Libro di Cleopatra. Tutto Magik. Magia Rossa. Tutti i chiodi e le parole perché una vergine danzi nuda, ti si conceda, la bruci il seme.
Perché bruci il mio culetto.
E anche Steven restò nudo: mostrò loro le ferite. Le bruciature, sferzate, i tagli e «dove mamma mi morde e lecca. Lo so io, come si fa».
Disse «Lamma!», ed «Adonai!»
Diede addosso a Elisabetta.
Che strillò, gli diede un calcio.
Scacciò di casa sia lui che gli altri:
«Non vi voglio più vedere! Tu, Saittan, mi fai paura!»
Alessandro, Marco e Luca – coi pantaloni calati giù – si rivestirono tra i cassonetti e insistettero tre volte:
«Che cos’è che ti fanno, tuo padre e tua madre?! Ne sei sicuro?!»
Sicuro. Sì.
«Ti inventi tutto!»
Giurava:
«È vero.»
«Non ti inventi certe cose», sbiancò Alessandro.
Non le inventava.
Succedevano ogni sera. Quasi, insomma. Dopocena.
Seduti a tavola a TV accesa parlò al padre di quel fatto:
«Papà…»
«Che c’è?»
Steven Saittan disse a Pif, «con franchezza», lì, in diretta, che Alessandro, Marco e Luca celebravano i rituali con la Betta nel garage.
Suo papà rise nervoso.
«Sono asini!», lui disse, «ché non sanno l’eko eko. E ho loro detto che lei, piuttosto, mi infila il cero nel sederino. Che mi lega il pisellino con le bende consacrate, che mi ha taglia con l’arthame. E che mamma e la signora», salutò lassù, in regia, «mi pisciate il pentacolo di Salomone sulla schiena e sulla faccia. Che mi avete battezzato con il mestruo e la diarrea.»
«Che cos’è che hai raccontato?!», schiumò il babbo.
Pif tremò.
Lasciò cadere sul pavimento la cartellina con le domande.
La telecamera si avvicinò. Più inesorabile. Più affamata. Suo papà gli chiese ancora se davvero, se davvero, avesse detto dei loro riti ai tre ragazzi con cui giocava:
«Tre imbecilli.»
«Quando è stato?»
«Poco fa», scrollò le spalle. Li avrebbe ancora trovati in giro: «sai chi sono, no papà?»
E il papà prese in salotto, nel cassetto dei tarocchi, la cosa nera pesante e fredda sempre avvolta in una stoffa.
«Dove vai?», gli chiese mamma.
Lui però non le rispose. E la mamma tornò stanca a trascinarsi nella sua stanza con le preghiere dell’Enchiridion sulle pareti arancioni -gialle. Dove il sole penetrava solo il giorno di Beltane. Le campane di alluminio tintinnarono alla porta.
«Li sparò. Li fece a pezzi.»
Diliberto era impietrito.
«Li buttò in pozzo nero. Non li hanno mai trovati.»
Pensò ai corpi che nel buio diventavano catrame.
Quando il babbo tornò a casa singhiozzava «ˈcazzo ho fatto, cosa faccio, ˈcazzo ho fatto»; Steven Saittan era il bimbo che diceva a suo papà le brutte cose che suo papà voleva tanto sentirsi dire. Che da anni la sua mente era persa nella notte, che la mamma era drogata, che era persa nella notte. Che lo abusava, gli disse Steven.
Il conduttore implorò in diretta che interrompessero la trasmissione: ma la regista gli ordinò no!; batté coi pugni sul vetro grigio del cabinotto che pencolava con cavi enormi dal soffitto dello studio.
«… e fu allora», disse Steven, «che divenni ciò che sono.»
Ma ciò è bellissimo, signor Saittan.
E il coglione non lo dice.
Ora, il pubblico applaudì.
Il papà ritorno nero di terra molle, di sangue e viscere; la pistola – come il cazzo – che gli pendeva dai pantaloni. Lasciò sul mandala la vanga sporca e una roncola incrostata. Andò in camera, pianse, tirò mamma per il collo; prese lui per la maglietta di Godzilla che fa a botte con King Kong e lo stese a pancia sopra sul tappeto colorato. Gli premette la faccia sfatta, semicosciente di mamma, sul suo viso cherubino. Contro gli occhi arcobaleno.
«Ti voglio bene», gli soffiò lei.
Se capì cosa diceva.
Poi papà tirò il grilletto.
La mia mamma è un fuoco rosso.
Mise in bocca la pistola.
Sparò ancora.
Crollò al suolo.
Il color indaco, dal loro cranio, si sparse putrido sul pavimento.
E bruciava iridescente.
Steven Saittan riaprì gli occhi sui grandi monitor tutto attorno che esplodevano di notiziari in EDIZIONE STRAORDINARIA: la trasmissione finiva lì, DiliPif cadde svenuto. La regista era paonazza, bestemmiava nella gabbia:
«Cosa cazzo è successo, di più grosso di questo?! Steven Saittan che esce matto da “Che Tempo che FaRÀ”!»
Sugli schermi un fumo nero si levava da una torre.
Steven Saittan si alzò in piedi.
Ebbe voglia di cadere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.