Steinbeck e la letteratura della Grande Depressione

Steinbeck e la letteratura della Grande Depressione

Nel 1929 iniziò la più grande crisi economica e sociale che gli USA dovettero mai affrontare e che ebbe il suo infelice debutto con il tristemente noto “Martedì nero”: il crollo simultaneo a Wall Street di numerose grandi imprese, sedicimila azioni che franano, il mercato che piomba nel panico. Inizia così “La Grande Depressione”: il sistema bancario è in macerie, ci sono milioni di disoccupati e il commercio è allo sbando. Il presidente F.D. Roosevelt cerca di rimettere in piedi l’impianto economico capitalistico statunitense attraverso il “New Deal”: un radicale programma di riforme che coinvolge tutto il tessuto produttivo e pubblico del Paese.

Tra le trame di una società sbrindellata dai buchi economici, sommersa dalla paura della povertà e da una recessione devastante, si fa spazio il malumore anche violento delle genti. Un popolo disperato e costantemente oppresso ribolle tra le strade, affamato e sfruttato, inneggia alla rivolta, marcia per le strade, picchetta in tutto il paese, sciopera, occupa le fabbriche. I cosiddetti “rossi”, i comunisti americani, prendono piede tra le masse annichilite dalla crisi, cercando di esportare un modello sovietico di collettivizzazione e imperniando la lotta sul conflitto di classe coi padroni delle industrie e delle grandi imprese agricole. Comunisti che erano invisi tanto alla classe dirigente quanto ai sindacati, ma anche a una buona parte dei lavoratori americani a cui il colore rosso faceva pensare a una politica antiamericana che ogni buon cittadino del Paese del Sogno non poteva in alcun modo accettare.

La particolarità e la drammaticità di questa crisi economica scatenò, a livello letterario, un terremoto: alla “Generazione Perduta” nata dopo la guerra, insediata perlopiù nel salotto di Gertrude Stein, fece seguito una “Generazione della Depressione” di proletarians novels dentro cui si coagularono elementi della prima, ma con diverso approccio estetico e contenutistico, e dalla quale nacquero e crebbero nuove personalità. Perciò con i vari E. Hemingway, F.S. Fitzgerald, T.S. Eliot, E.S. Anderson ed E. Pound, crebbero J. Dos Passos e J. Steinbeck, e quest’ultimi, rispetto ad altri, ebbero una marcia in più nell’affrontare le problematiche civili e politiche del loro tempo. Le masse sbandano, i poteri forti tremano, crumiri al soldo dei padroni e sbirraglia varia si dà da fare, e gli scrittori, quelli veri, sputano capolavori. Steinbeck pubblica La Battaglia nel 1936. Nello stesso anno Charlie Chaplin ci descrive l’alienazione dell’operaio masticato dagli ingranaggi dell’industrializzazione col film Tempi Moderni, G. Orwell con Fiorirà l’aspidistra narra l’esistenza travagliata di un commesso con la passione della scrittura e l’ossessione per i soldi e i piccoli borghesi, J. Dos Passos esce con Un mucchio di quattrini – opera con la quale si chiude la cosiddetta “Trilogia USA”, preceduta da Il 42° parallelo e 1919 – in cui viene disegnato un ritratto della cultura americana con le fitte riflessioni ideologiche e politiche dell’autore, un testo critico e denso che rispecchia le forti contraddizioni sociali dell’epoca e le nuove consapevolezze politiche.

John Steinbeck ha sempre avuto la predisposizione a scoperchiare fatti e misfatti della sua epoca, con una prosa diretta e cruda, e con trame strettamente agganciate alle situazioni drammatiche di un popolo in povertà e in lotta perenne. Non per nulla gli verrà assegnato il Premio Nobel per la letteratura nel 1962 per Furore, pubblicato nel 1939, con la seguente motivazione: «Per le sue scritture realistiche e immaginative, unendo l’umore sensibile e la percezione sociale acuta». La battaglia è il romanzo che più di altri evoca il periodo storico della Depressione, e in particolare la contestazione operaia e della massa che si ribella a uno status quo di sfruttamento. Steinbeck narra il percorso di realizzazione di uno sciopero tra i braccianti raccoglitori di mele in un possedimento agricolo californiano. Mac e Jim, i due principali protagonisti “rossi”, si infiltrano all’interno dei campi dei raccoglitori per innescare la miccia della rivolta, per risvegliare le coscienze di un popolo sfruttato rinchiuso in se stesso e addomesticato al suono dell’unica parola: produrre.

Alla fine Steinbeck crea un libro di chiara propaganda politica. Esalta in modo lirico e strutturato l’azione di sabotaggio e il tumulto. Il protagonista, Mac, dice:

«Io credo che questo sciopero lo perdiamo. Ma abbiamo fatto tanto che forse non si dovrà scioperare nei campi del cotone. I giornali dicono che seminiamo nel torbido. Ma noi abituiamo i nostri a lavorare insieme, a crear gruppi sempre più grandi di gente che lavora insieme, vedete? Non importa se perdiamo. Ci sarà qui sempre un migliaio di uomini che hanno imparato a scioperare. E quando molta gente sarà unita, forse la valle di Torgas non sarà più in mano di tre persone. Forse allora un uomo potrà prendersi una mela per sé senza rischio di finire in galera, no? E i padroni non potranno buttar le mele nel fiume per tenere su i prezzi quando c’è gente come voi e come me che hanno bisogno di una mela per riempirsi la pancia».

Steinbeck svela gli ingranaggi del meccanismo della contestazione, creando un’epica dello sciopero come un campo da battaglia napoleonico, e nello stesso tempo in nuce evidenzia il cinico comportamento manipolatore che un fautore di esagitazioni deve adoperare su una massa che deve essere guidata per dei fini più alti; massa che assume i connotati di un’unica forma multicefalica ma con un unico cuore, un unico istinto arcaico forse guidato dalla sopravvivenza, ispirato dalla fame, dal sangue, dalla lotta:

«Alcuni credono che le masse sperperano le forze, ma io ne ho viste e posso dirvi che quando c’è qualcosa da fare sono efficienti come i soldati più allenati e piene di risorse. Spazzeranno di certo la barricata, e poi? Dovrebbero far altro prima di raffreddarsi. È una grande bestia, diversa dagli uomini che la compongono, e più forte di tutti quegli uomini messi assieme».

Steinbeck rappresenta il comunista che organizza le masse come un cinico calcolatore che così deve agire per educare il proletariato a qualcosa che lo distanzi dal suo soggiogamento al lavoro e alla povertà, in certi casi muovendo le fila in modo che pare inumano:

«Ogni uomo che perdiamo ce ne procura dieci altri che vengono a noi. Le notizie si spargono in tutto il paese e le persone che le sentono s’infuriano. Chi era caldo a mezzo diventa cotto a dovere».

È politica, un ideale futuribile, forse la politica vera, coi suoi chiaroscuri, la sua natura equivoca a tratti, ma comunque giocata sempre in prima persona, solcata da dubbi momentanei, ma regolata da un nobile fine superiore. Non ci sono eroi in questo libro ma un forte ideale incarnato nelle parole, nelle azioni, in una dialettica, quella sì, che trasuda di eroismo etico:

«Voi credete che noi e questo modesto affare siamo troppo importanti. Anche se la cosa sfuma ora, valeva pur la pena di essere tentata. C’era un gruppo di persone che prestavano fede a queste bubbole, il nobile operaio americano e la collaborazione del capitale e del lavoro. Ebbene, molti di questi sono istruiti, ora. Sanno di che cosa pensa di loro il capitale, e che esso può schiacciarli come un nido di formiche. E, per Cristo, abbiamo insegnato due cose a questa gente: chi sono e come devono agire».

Sono passati ottant’anni dall’uscita di questo libro e i cambiamenti politico-sociali sono stati innumerevoli. Tuttavia una domanda sorge spontanea: quanti soprusi subisce tutt’ora il lavoratore in un’epoca, come è la nostra, in cui i mezzi di produzione continuano a essere nelle mani di pochi e i contratti sono frammentari? Quanto è importante una presa di posizione da parte di tutti i lavoratori e dell’intera società civile? Le classi sociali si sono assottigliate, in certo modo amalgamate, ma è forse solo un’apparenza? I diritti di alcune classi, vuoi per scarsa informazione, vuoi per la distanza degli apparati che tutelano i rapporti di lavoro, vengono calpestati in maniera continuativa a favore di altri. I tempi cambiano, certe dinamiche mai. E per essere coscienti di questo, di quanti Steinbeck abbiamo bisogno, oggi? In un passo del libro lo scettico e realista dottore del campo insediato per lo sciopero dice: «Gli uomini odiano qualche cosa dentro di se stessi». Ecco, forse lo scopo è capire cos’è questo odio. Portarlo a galla e trasformarlo.

 

 

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