Mindlag [Episodio 6]

Mindlag [Episodio 6]

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Bog aveva avuto un mindlag, da cui Haß lo aveva risvegliato quando gli aveva impedito di scontrarsi con il Turborisciò. Le parole pronunciate qualche secondo prima dall’Alfa gli riecheggiarono in mente.

“Eh, io invece lo avevo visto, sa? Per sua fortuna.”

“Haß mi ha beffato con un haiku.” concluse la voce interiore di Bog, anche se di nuovo non seppe dire se fosse quella razionale o quella alterata dal vizio.

l’Alfa doveva essersi accorto della sua assenza mentale, quel mezzo ghigno che aveva accompagnato lo haiku era inequivocabile: lo stava mettendo alla prova, stava indagando l’efficienza di B411 per procedere al ban una volta arrivato all’hotel. Magari tutta la storia del passaggio era un test.

“Lo sa? Lei ha i capelli un po’ troppo lunghi” il vecchio lo rimirò di sbieco, l’aria infastidita di chi vede qualcosa fuori posto. Bog trasalì, non poté fare altro che fissare la strada di fronte a sé.

Con la diminuzione della luce le auto erano diventate aloni scuri, riconoscibili solo dalla forma delle luci di posizione, o dalle rifiniture fluo dei parafanghi ancora non convertiti al Me-nimal dei modelli vecchi. L’Alfa si era accorto del bozzo per via di una una perdita di pus o sangue sul colletto della camicia? No, era quasi buio, non poteva averlo notato… o forse era solo un sospetto? Aveva intuito che nascondeva uno smarthole? Prima dell’infezione, i capelli lo avevano coperto a meraviglia, anche se corti…

“Già, B411…” Haß emise un lungo, fetido sospiro: “almeno un centimetro fuori dalla norma di quanto è consentito ai Beta, direi.”

“Al-me-no-un-cen-ti-me-tro-fuo-ri-dal-la-nor-ma-di-quan-to-è-con-sen-ti-to-ai-be-ta-di-rei,” pensò Bog: “sono ventisette sillabe!

Non era stato dunque un haiku beffardo, ma di sicuro per lui era un’accusa, a cui sarebbe seguita una meticolosa indagine. Il Beta cercò un diversivo voltandosi verso il superiore ed esibendo il suo classico sorriso falso.

“Provvederò domani, signore.” fu l’unica scusa che gli venne in mente, e Haß annuì sistemandosi il riporto grigio dei suoi capelli in disordine, una folta matassa sfoggiata nonostante la calvizie, sicuramente per aumentare la distanza tra Alfa e Beta.

Il vecchio non sorrideva, non c’era nemmeno l’ombra di un ghigno sulla faccia grinzosa. Era fin troppo serio e il suo sguardo era sempre più inquisitorio, gli occhi rilucevano maligni nella penombra. Un lampo, per un istante, illuminò quel volto che pareva intagliato e negli occhi del Beta rimasero impressi solo i ghirigori delle rughe attorno al ghigno e sulla fronte aggrottata.

“Lei mi sembra trascurato” sentenziò Haß riattivando il rolltab.

Bog trovò appena il fiato per rispondere un confuso “Io veramente…” che venne stroncato dal crepitio di un tuono e poi inghiottito dal silenzio gelido di chi le scuse le ha finite tutte. Si limitò a fissare la piramide verde di dati che fluttuava sullo schermo del congegno mentre l’Alfa la studiava, con gesti eleganti ma decisi dell’indice la rivoltava e la faceva girare, finché non si fermò. L’abitacolo della Triruote si illuminò di una fioca ma stabile luce verdastra, gli intagli delle rughe sul volto di Haß erano minuscoli serpenti neri in attesa di attaccare.

“Dunque… lei ha fatto solo tre straordinari questa settimana” sentenziò il vecchio, indicando una stringa di dati inoppugnabili: “I suoi colleghi ne hanno fatti di più. Molti di più, con un record di sette turni prolungati di G585. Gran lavoratrice!”

“Grande leccaculo che si fa di Anfex per reggere ai turni extra!” come un animale in trappola, Bog divenne aggressivo, anche se solo nella sua mente: “Ma lei non viene mai sorteggiata per gli esami delle urine!”

“Guardi la strada, per favore.” Haß fece un cenno al sottoposto e quando Bog ebbe ubbidito, l’Alfa riprese: “Come giustifica questa fiacchezza? Perché lei è fiacco. L’ho notato nei riflessi, come nell’attenzione e la cura della persona. Quella ne è un’ulteriore spia.”

Le labbra di Bog si schiusero senza produrre alcun suono, era strano come avesse lavorato duramente per tacere nel Pervernet e ora, nel mondo reale, dove avrebbe dovuto difendersi con una risposta a quell’ informale terzo grado, non sapesse spiccicare parola.

Haß sollevò l’indice dal rolltab e lo agitò nella piramide olografica: “Chi è fiacco non rende, B411. Posso programmarle un check up al reparto medico, la rimetteranno in sesto con una cura ricostituente, vedrà.”

Le stringhe di dati sfarfallarono, solleticate dal dito nodoso e Bog si sentì frugare dentro, perché quella piramide era lui. Era come se l’Alfa gli stesse rovistando nelle viscere per poi trarle fuori dal suo corpo, provò perfino la sensazione dall’unghia da manicure del superiore penetrargli nello smarthole fino a estrarre il suo sporco segreto.

“Da quanto non ne fa uno di check up?” Haß questa volta glielo chiese senza consultare alcun dato, in un modo informale e mellifluo.

“Non ne ho bisogno signore, mi farebbe solo ritardare la chiusura delle pratiche.” rispose Bog, la sua parte razionale, quella dell’istinto di conservazione, aveva tirato fuori una scusa decente. Si meravigliò perfino di essere riuscito a esprimersi senza far tremare la voce, almeno quanto bastava perché la risposta non apparisse per quel che era: una supplica. Un check up avrebbe rilevato l’infezione e l’infezione avrebbe guidato i medici verso lo smarthole illegale, che a sua volta avrebbe guidato Bog verso il ban.

Haß sbuffò un po’ del suo fiato pestilenziale tanto per ammorbare di più l’aria e il Beta, trattenendo il fiato, attese la reazione del dirigente. Due o tre auto più avanti, il semaforo che sovrastava la processione di auto sulle sue esili gambe a Pi Greco divenne un gong rosso. L’abitacolo parve infuocarsi e il fioco bagliore della piramide lottò per continuare a farsi notare. Haß lo annichilì spegnendo il congegno e, contemporaneamente, Bog arrestò la Triruote.

“Già, le pratiche… credo che abbia ragione.” mugugnò l’Alfa arrotolando con fare lento il rolltab.

Bog inspirò aria viziata, l’addome gli si rilassò per lo scampato pericolo, anche se non si era fatto illusioni: il ban era solo questione di tempo.

Il vecchio aprì la zip della tasca esterna sulla borsa adagiata sulle ginocchia con una delicatezza quasi religiosa e infilò il rolltab dentro, meditabondo: ci mise un bel po’ a farlo entrare nella bocca inespressiva di quel guscio rigonfio in sintopelle troppo pieno, magari di decreti bollati per il ban, compreso il suo. Bog considerò l’ineluttabile, il disastro imminente, ma l’ombra del pericolo schivato poco prima stava diventando un fattore secondario, rispetto a ciò che gli diceva l’orario sospeso sul cruscotto. Quelle cifre parlavano di ritardi, di mindlag e di Skinavatar in scadenza, proprio come lui.

Il lucore color rubino del semaforo venne insidiato da una luce viola, flebile, ma era un riflesso ben visibile sul finestrino del passeggero. Si materializzò in una figura, Bog ne distinse i petali: era una rosa di luce che galleggiava nell’aria. Era elaborata, le gocce di rugiada rigavano la corolla come piccole lacrime di un bambino. Il Beta trasalì, ma tacque neanche si trovasse nel Pervernet e si scoprì a desiderare che il fiore si schiudesse, come la vagina di Domina Strix, così umida e viola.

“Apriti, fiore! Della mia dannazione sei il veleno”

Lo haiku mentale sembrava portato da un vento inesistente, lo stesso che faceva fremere i petali olografici con delicatezza: da essi, tra il ronzio dei motori, oltre il soffuso mitragliare delle demolizioni, pareva farsi largo una melodia. Quei suoni antiquati, quella malinconia nelle note sintetiche appena percettibili, avevano il sapore di un’epoca morente, di un ricordo dissolto, di un’esistenza irripetibile.

Haß fissò Bog, ma lui continuò a guardare quello spettacolo pregno di un’innocenza ormai estinta, che si avvicinava facendosi largo tra le file delle auto. L’Alfa si voltò verso la luce e la matassa di capelli sulla nuca fu scossa, quando si gonfiò per gridare: “Lurido paria!”

Illustrazione di Giorgio Borroni.

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