Immersi

Immersi

 

A Cormac avevano detto che fumare aiutava a sopportare la noia, lo stress e a passare il tempo.

Così si era preso una sigaretta elettronica, perché aveva paura del cancro, e passava le notti a fingere di fumare.

Masticava anche un chewing gum, un altro affare utile a smorzare lo stress, gli avevano detto.

Cormac era un tipo che dava retta a quello che gli veniva detto. Lo faceva sentire più tranquillo, in linea col pensiero comune. Così, era tutto fumo e gomma secca in bocca.

Lavorare era una palla.

Non doveva fare altro che controllare gli Immersi, dare una lucidata alle teche quando serviva, tenere pulito il cimitero, controllare che tutto funzionasse, camminare avanti e indietro.

Nulla di complicato, un lavoro da guardiano notturno come tanti altri.

Ma il dover osservare ogni notte il contenuto di quelle teche di plexiglass lo innervosiva.

Immersi lì dentro i cadaveri liofilizzati si muovevano in perenne slow motion. Erano manovrati dall’energia che filtrava attraverso i tubicini agganciati agli arti come fossero marionette subacquee.

E sorridevano.

Quando la dottoressa svedese Brita Svenberg, anatomopatologa, biochimica e altri titoli di studio il cui elenco sfuggiva all’attenzione – specie se la dottoressa li bofonchiava durante un accorato pompino – si era inventata i cimiteri degli Immersi, le polemiche erano montate come l’acqua merdosa di un water intasato, ma alla luce dei primi risultati erano arrivate le richieste dei facoltosi che volevano far immergere i propri cari, e farsi immergere a loro volta.

D’altronde, se l’imbalsamazione Hi-Tech aveva funzionato con gli animali domestici…

«Le tradizioni funerarie sono difficili da cambiare» aveva detto la dottoressa a Cormac, mentre gli illustrava le fila di teche.

Era alta e grossa, di un biondo slavato, la pelle così bianca che Cormac aveva avuto per tutto il tempo la tentazione di passarci sopra un’unghia per vedere quale cromatura di rosso avrebbe lasciato il segno.

«Le persone trovano difficile staccarsi dal corpo dei propri cari, e impossibile staccarsi dal loro ricordo. Saperli dentro una cassa di legno, sottoterra, dà loro un senso di vicinanza, capisci? Lo stesso succede nel conservarne le ceneri in un’urna. Ma con il mio sistema la morte non trasforma più le persone amate in ricordo, le fa restare parte attiva della vita.»

Aveva assunto Cormac perché ogni cimitero ha il suo guardiano notturno. E Cormac passeggiava tra le teche avvolto in un’aura bluastra che sembrava fluttuare contro il buio come la luce di un proiettore.

Fissava spesso John Spiros, o meglio, il cadavere di John Spiros. Era un uomo alto, dai bei capelli canuti in contrasto con l’abbronzatura, con il largo sorriso tipico dell’uomo d’affari cui le donne concedevano tutto. L’avevano immerso con indosso un abito blu lucido ed elegante, ma che a Cormac ricordava la divisa di un gelataio, e si muoveva in slow motion, simulando una camminata che non lo portava da nessuna parte. Teneva il cellulare all’orecchio, sempre con quel sorriso smagliante e gli occhi fissi verso un punto lontano. La folta capigliatura si agitava lenta nell’acqua come una strana alga albina.

Moglie e figli andavano ogni domenica a far visita al loro John. Toccavano il vetro con le mani, ci poggiavano contro la fronte, lasciavano un po’ di lacrime a scivolare verso il basso, quasi si dovessero mescolare all’acqua.
“Vedi il mio amore come sorride? Oh, è sempre uguale, non ha perso il suo fascino.”

«Alla gente sembra piacere questa roba, caro John» mormorò Cormac al cadavere.

Niente più fredde lastre di pietra con inutili epitaffi e lumicini. Niente più bauli impolverati pieni di cornici con le foto dei cari estinti. I fiori, invece, continuavano a essere portati.

Era la tradizione più dura a morire.

Più dura a morire.

Cormac si concesse un sorriso ironico.

Salutò John Spiros battendo le nocche sul vetro e passò in rassegna gli altri, tra cui Big Bad Chambers, lottatore di wrestling schiattato con onore sul ring. Colpa degli steroidi. Era alto un cazzo e mezzo ma aveva i muscoli grossi come i cannoni di Navarone.

Eccolo immerso nella teca a sfoggiare le sue pose da culturista, il ringhio ben impresso nel volto.

La famiglia Tucker invece era riunita a cena anche quella sera, la tovaglia imbandita, la luce soffusa per ricreare l’atmosfera del focolare. Sollevavano e abbassavano le posate, e si sorridevano con amore. Cormac sapeva che mancava solo uno dei tre figli, e che quello aveva già predisposto tutto per farsi immergere con il resto della famiglia. C’era un posto vuoto a tavola pronto per lui.

L’aspetto positivo di quel lavoro, a parte lo stipendio fisso, Cormac lo aveva trovato nel portarsi a letto la dottoressa Svenberg.

Il cazzo che le teneva impegnata la bocca mentre elencava i suoi titoli di studio era quello di Cormac.

In fondo lei era una zitella di cinquantanni tutta dedita al lavoro, e il metro e settanta scarso di Cormac, condito dai colori mediterranei e da una minima dose di faccia da culo, erano stati sufficienti per sedurla.

«È stressante passare la notte nel tuo cimitero» le aveva detto dopo una sudata sotto le lenzuola. «Come cazzo ti è saltata in mente una roba del genere?»

«Un giorno ero al mare con i miei, nuotavo cinque metri sott’acqua e ho visto morire una donna.»

Lo aveva detto con freddezza scandinava, una Mosè vichinga che aveva ricevuto la rivelazione grazie a un rendez vous con la morte.

«Era immersa faccia in giù, galleggiava sopra di me e ho visto la vita sfumarle via dagli occhi.»

Cormac invece aveva visto la dottoressa mettersi una maschera di plastica attaccata a un tubo e spararsi in faccia i vapori dei corpi liofilizzati. Diceva che così poteva assorbirne l’anima e allungarsi la vita.

Non aveva più provato a farsela. L’idea di toccare e leccare una pelle che sudava cadaveri vaporizzati non gli piaceva.

Mentre ci ripensava, Cormac venne sorpreso dal suono insistente dell’allarme. Sussultò e incrociò il volto paffuto e allegro del piccolo Tim, immerso nella sua morte prematura che raccontava di un bimbo che si muoveva carponi inseguendo il rotolio di una palla colorata.

«Quanto ti odio» mormorò Cormac.

Poi attraversò il blu ondoso delle teche e andò in cabina a controllare le telecamere.
Profanatori!

Cormac agitò le mani sopra il tavolino, fece cadere le chiavi mentre cercava la pistola, e una volta impugnata non sapeva come reggere la torcia. Optò per tenerla sotto l’ascella destra.

Erano in tre, davanti alla teca di Ursula Logan, modella ventenne immersa con indosso il bikini della sua ultima sfilata. Teneva la mano destra sul fianco e le gambe leggermente aperte in una posa da Miss.

Neanche a dirlo, sorrideva.

C’era chi si intrufolava di notte per spararsi una sega davanti a Ursula, Cormac ne trovava di sperma incrostato sul vetro. Ma questi tre volevano portarsi via il souvenir. Martellavano la teca con degli sludgehammer.

Cormac li raggiunse, e l’acqua già schizzava dalle crepe aperte dai teppisti incappucciati.

«Fermi!» urlò con la Glock puntata.

Ma su quale dei tre?

Uno scappò subito, Cormac lo inseguì con lo sguardo e basta. Se ne vide arrivare addosso un altro, il martello sollevato, pronto a colpire.

Sparare fu una reazione istintiva e necessaria.

Mentre il proiettile della sua Glock intersecava muscoli, ossa e arteria del teppista, il proiettile del terzo profanatore beccò Cormac dalle parti del cuore. Un colpo che lo fece afflosciare senza nemmeno il tempo di dire “cazzo”.

Il giorno dopo, la dottoressa si soffiò sul volto il vapore di Cormac senza versare una lacrima, ma le parve giusto ripagarne il sacrificio immergendolo accanto alla modella salvata.

Cormac avrebbe avuto di che ridere in eterno.

Questo era stato il pensiero della dottoressa. Non si aspettava certo di avere di nuovo Cormac dentro di lei.

Nemmeno Cormac, a dirla tutta.

Si era sentito sgusciare fuori dal corpo come un guanto sfilato con violenza, e se n’era rimasto lì a gironzolare nel limbo, indeciso se raggiungere la luce.

In realtà era parecchio incazzato con quella luce, se gli fosse andato incontro le avrebbe spaccato la faccia. Se mai avesse trovato una faccia, lì.

Si era sentito stressato, con il bisogno di un chewing gum, di una sigaretta elettronica.

Poi, mentre vedeva il suo corpo infilato dentro l’oblò della macchina liofilizzante, con la dottoressa che indossava la mascherina pronta a vaporizzarsi, era finito risucchiato dentro le particelle d’acqua e schizzato insieme al vapore all’interno della bionda.

Gli bastò accedere alle sue sinapsi e fu come fare zapping alla TV, o smanettare su Internet.

La dottoressa dormiva beata, senza scrupoli nell’essere sola. Aveva rimosso Cormac come fosse la crosta di una sbucciatura.

Dentro di lei, Cormac si mise al proiettore, le procurò un po’ di smanie sessuali e le stimolò la vescica per svegliarla, poi le organizzò un party nella stanza.

Il signor Stiros era al cellulare, le sorrideva nel suo elegante abito blu, con la faccia mezza snudata, i muscoli rossi che affioravano finalmente liberi di decomporsi. La famiglia Tucker, Big Bad Chambers, e quel pezzo di fica di Ursula erano lì. Gocciolavano, appena riemersi dalle teche. Tutti mostravano la santa fierezza della decomposizione, lo schifo interiore che marcisce abbandonato nel silenzio. Gli occhi scivolavano fuori dalle orbite, le ossa prendevano il posto della carne.

Ma c’era ancora qualcosa da fare.

Brita scattò seduta sul letto, mutata nel cuore, pieno di folle paura. Era Cormac che glielo pompava oltre misura, e le mostrava gli abitanti del cimitero lì intorno a lei.

La presero per le braccia e per le gambe, mentre con tonfi sordi perdevano pezzi sul pavimento.

La costrinsero a stare giù, lei urlava e loro ridevano.

Big Bad e il signor Spiros le aprirono le gambe a forza.

Mancava qualcuno, stava arrivando piano perché gattonava.

La testa del piccolo Tim sbucò ai piedi del letto. Sorrideva. Poi si arrampicò e gattonò rapido tra le cosce spalancate della dottoressa, lasciando sul lenzuolo una scia di carne bagnata.

Si aprì il varco e andò a sbirciare, dentro.

Illustrazione in esclusiva a cura di Pelin Santilli.

 

2 risposte a “Immersi”

  1. C’è una vita dopo la morte? Sembrerebbe di sì. Un racconto che mi ha fatto schifo per quanto mi è piaciuto. Descrizioni vere, perché frutto di una mente che vede. Un racconto che si racconta: non si fa in tempo a godere di un’immagine che già l’autore né ha in serbo un’altra. Un finale che ti dà la scossa. Mi è piaciuto molto.

  2. Molto bello.
    Ci trovo un riferimento iniziale a Philip Dick (“Ubik”) riguardo alla semi-vita ed un altro finale a Stephen King (“Alta Marea”, episodio del film “Creepshow”) sulla vendetta degli morti.
    Ci sono molti temi che andrebbero approfonditi in un testo più lungo, ma l’immagine è vivida, potente.

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