Οἶδα o delle implicazioni del vuoto

Come curarti dallo stillicidio di Dio dal fondo dell’anima tua? Dove un tempo albergava l’esperienza dell’altamente significativo ora s’apre un crepaccio vacuo che ti sprofonda nel petto per poi ramificarsi metastatico lungo il tronco e giungere a scioglierti le ginocchia. Gli accessi di nulla assumono la forma di lacune semantiche interiori in preda alle quai crolli a terra. È successo mentre celebri messa, mentre visiti col Prefetto gli alloggi dei migranti, mentre porti la comunione ai carcerati.

Il Vescovo ascolta come la fede e il senso scolino fuori da te e ti manda dallo psichiatra che diagnosticando una depressione con somatizzazione dell’ansia ti prescrive Limbytril. Passano mesi e illuminazioni oscure e pensieri eterocliti t’opprimono asfissiandoti: potresti credere all’inferno solo se non avesse il soffitto, Jahvè ha distrutto Sodoma non per questioni omosessuali ma perché i suoi abitanti avevano covato il desiderio irrefrenabile di violare il sacro congiungendosi carnalmente agli angeli la cui aura numinosa li aveva mandati in frenesia erotica, il paradiso indicato dal Cristo non è che una condizione psicologica.

Hai un divorante bisogno d’evocare una ierofania che ti salvi. Tenti il digiuno e la veglia. Ottieni parestesie della mano destra. Allora – prima del suicidio verso cui pericoli – ripensi alle tue radici messicane e ti convinci che a propiziarla sarà la vecchia Ska Maria Pastora. La inali nel tuo studio in canonica e la poltrona su cui siedi diventa una foglia di tiglio accartocciata che è il prolungamento delle tue mani palmate. La foglia che dunque tu sei si libra nel deserto dalle dune d’ametista che s’è spalancato ai tuoi piedi, poi dalla sabbia inizia ed emergere – prima una mano, poi due crani, poi legione – l’orda dei morti il cui tanfo mefitico color lapislazzuli t’avvolge cantando stridulo e fosco in coro un inno ctonio che dice: «Oggi è il primo giorno del resto della tua vita, risveglia il tempo alla vita». Ora hai visto, quindi sai.

Il nuovo sesso: transumanesimo e kink nel mondo infetto di “Crimes of the future”

Mutazioni organiche, transumanesimo, sessualità alternative e somatizzazione corporea di un mondo sintetico e infetto.

Questi i primi appunti che ho buttato giù per descrivere in poche parole le folgorazioni che vengono messe in scena nell’ultimo film di David Cronenberg, “Crimes of the future”.
Strutturato come una summa radicale di tutti i principali filoni di sperimentazione del maestro del body horror, il film sembra infatti voler rimarcare i concetti-chiave, le epifanie e le mutazioni legate alla “nuova carne”, optando per uno stile molto cerebrale e forse poco “a favore dello spettatore”. La scelta di intersecare citazioni delle pellicole cult della carriera del regista, a numerosi riferimenti culturali e filosofici sottotraccia, probabilmente ha reso “Crimes of the future” un gioiellino più per feticisti della “materia” (nel senso letterale del termine), che un prodotto mainstream. In quest’ottica, il film è molto denso di suggestioni visive, stratificazioni e rimandi concettuali e politici che si rivelano estremamente contemporanei, ma non sempre facili da cogliere. Questa impalcatura sofisticata penalizza un approfondimento di trama che lo avrebbe, invece, reso più appannaggio del grande pubblico, tant’è che la maggior parte delle critiche si sono concentrate sulla sensazione di essere stati davanti a un pilot, piuttosto che a un film autoconclusivo e appagante.

Tuttavia, la peculiarità di prodotto non-finito (rafforzata anche da un finale aperto all’interpretazione), non inficia lo spessore di una prova in cui Cronenberg scava a fondo (questa volta sul serio) al futuro della nostra specie, al di là del mero esercizio stilistico e con un’incisività disarmante.
E sono proprio le incisioni ad essere il piatto forte di “Crimes of the future”, ambientato in un futuro imprecisato dove le conseguenze dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici hanno portato il corpo degli esseri umani a innescare continue mutazioni. In questo contesto, l’ex-chirurga Caprice (Léa Seydoux) e il suo partner/artista Saul Tenser (Viggo Mortensen) realizzano delle performance artistiche di rimozione chirurgica dei nuovi organi sviluppati da Saul, affetto dalla Sindrome da Evoluzione Accelerata. Ciò avviene attraverso il modulo autoptico Sark, che altro non è che un dispositivo biomeccanico in origine deputato alle autopsie e, successivamente, hackerato per consentire questo tipo di performance della carne.

In un approccio del tutto simile a quello della Body Art, Caprice costruisce una messa in scena brutale dell’osceno, volta a mostrare le metamorfosi interiori di Tenser e arricchita dal suo tocco artistico, che prevede il controllo a distanza dei bisturi con un pod biomorfo, per utilizzarli come se fossero dei pennelli e tatuare i nuovi organi prima di rimuoverli.
Se a un primo momento sembrerebbe di assistere a un semplice intervento operatorio in salsa artistica, man mano che il film scorre, ci rendiamo conto che in realtà all’atto dell’incisione e della manipolazione corporea corrisponde anche un profondo godimento erotico del praticante e del ricevente, che è visibile anche quando l’oscenità delle interiora di Tenser viene data in pasto allo sguardo eccitato del pubblico presente in sala durante le performance.
Cronenberg, infatti, propone uno scenario dove le operazioni chirurgiche sono il nuovo modo di fare sesso dell’umanità del futuro, che travalica ogni confine morale per godere.

Se come è vero, la sessualità in quanto costrutto sociale andrebbe sempre interpretata situandola nel contesto in cui viene pensata, performata, fruita e discussa, non meraviglia che nel mondo infetto proposto da Cronenberg, i desideri e le relazioni tra gli esseri umani somatizzino le trame malate di una società che, oramai anestetizzata davanti al dolore, non segue più i tradizionali impulsi biologici, ma vede l’eccitamento erotico coincidere con lo smantellamento (piuttosto che con l’unione) dei corpi.
In opposizione alla repulsione, la nuova bellezza sta, infatti, proprio nelle interiora: la chirurgia in futuro non è più impiegata per assecondare un desiderio di abbellimento e di scolpirsi in senso canonico. Piuttosto, vìola il corpo per rompere il dogma della sua immutabilità, cancellando ogni stereotipo di bellezza per oscillare tra “defigurazione e rifigurazione”, proprio come avveniva nell’Arte Carnale della celebre performance artist francese ORLAN.
Il rimando alla corrente della Body Art è palese in tutto il film, anche attraverso l’apparizione di Klinek, un artista che viene ritratto mentre danza su note industriali e conturbanti (siglate dal compositore canadese Howard Shore) e che si agita in maniera plastica con un corpo innestato da diverse orecchie, parossistico rimando alle sperimentazioni dell’australiano Stelarc (si veda, a tal proposito, la sua performance Ear on arm).

Soprattutto, colpisce il contrasto che il film genera con un mondo presente, proponendo un completo ribaltamento dell’iperconnessione tecnologica e dislocata che attualmente viviamo e che è stata amplificata anche a seguito della pandemia: in “Crimes of the future”, infatti, la ricostruzione di un’unità erotica tecnologicamente mediata in cui i corpi non si toccano, non ha nulla a che vedere con il cybersesso. L’atto non è disperso nel cyberspazio, ma è incarnato, situato e localizzato in un luogo fisico in cui il bisturi diventa il sex toy con cui stimolare e stimolarsi per raggiungere il piacere, anche con un tocco voyeuristico.
Tuttavia, per quanto ci siano rimandi al tema delle autopsie, quanto vediamo mostra una carne che pulsa e che ci investe di una sensualità mista al trauma violento, al compiacimento del terrifico, e che somiglia quasi a un rito apotropaico.
In questa maniera, non più legato agli organi riproduttivi, il desiderio può trovare illimitato potenziale di esprimersi in qualsiasi parte del corpo, deputando a zone erogene anche quelle parti non comunemente caricate di connotazioni erotiche, così come accade nelle fantasie feticiste e come Caprice ci mostra nello stimolare oralmente la zip installata sull’addome di Tenser.

Il corpo diventa, infatti, un ready-made che produce nuove categorie estetiche innescando un principio dialettico di defamiliarizzazione e spaesamento, desiderio morboso ed eccitazione. Assecondando modi alternativi di “essere dentro”, così i corpi si prestano ad essere penetrati in pratiche dove la frontiera tra interno ed esterno, contenitore e contenuto, primitivo e civilizzato, è messa in tensione, quando non rovesciata.
Questa perturbante dualità fa sì che la bellezza del corpo nudo di Caprice, quando si concede alla manipolazione di Tenser nell’unico episodio in cui assistiamo ad un’inversione dei ruoli, non può esser più comparata a quella di una Venere botticelliana da ammirare a distanza, quasi fosse un’entità divina e astratta.
La bellezza di Caprice, al contrario, è carnale e terrena proprio perché non reprime l’orrore, ma lo fa esplodere nella tensione pulsionale e desiderante del corpo trafitto. È la bellezza di una Venere anatomica come quelle che produceva Clemente Susini a fine Settecento: un’effige che si desidera toccare e con la quale si instaura un gioco lugubre e perverso, che pone al centro la verità anatomica, piuttosto che il canone ideale.
Nel mondo infetto di Cronenberg, per venerare Venere non ha più alcun senso ammirarla da lontano: adesso bisogna aprirla, letteralmente.

Citando ORLAN, in un passaggio intenso del suo Manifesto dell’Arte Carnale:
«Posso vedere il mio proprio corpo aperto senza soffrire! Posso guardarmi fin dentro le mie interiora, un nuovo stato del guardare. Posso vedere il cuore del mio amante e il suo splendido disegno non ha niente a che vedere con sdolcinatezze simboliche. Cara, amo la tua milza, amo il tuo fegato, adoro il tuo pancreas e la linea del tuo femore mi eccita». ORLAN – Percezione in “L’Arte carnale – Un Manifesto”, 1989.

L’estremismo grottesco degli spettacoli di Body Art di Caprice e Tenser attira l’attenzione di due investigatori del Registro Nazionale degli Organi (Wippet e Timlin, quest’ultima interpretata da Kristen Stewart) e di un gruppo sovversivo guidato da Lang Dotrice.
La trama politica in questo caso è molto elaborata, seppur non spiegata in maniera estesa, perché con questo incrocio di personaggi attorno al duo di artisti, il regista punta a sottolineare come la mutazione della carne e della specie umana siano anche – e soprattutto – una questione biopolitica. Infatti, le organizzazioni di potere (come la New Vice Unit), le istituzioni (il Registro Nazionale degli Organi) e le multinazionali mirano a controllare le popolazioni proprio attraverso il monitoraggio e la disciplina dei loro corpi. Basti pensare alla company LifeFormWare, che produce letti e sedie biomeccaniche che, come uteri artificiali, si innestano su chi sviluppa nuovi organi come Tenser e sono provvisti di software che consentono di anticipare e regolare ogni esigenza corporea.

Dalla parte diametralmente opposta, si collocano Lang Dotrice e i suoi supporters che, dichiarandosi contro questa forma di dominio governativo sulla carne, mirano a portare l’umanità al prossimo stadio evolutivo, assecondando queste mutazioni genetiche come qualcosa di “naturale”, per quanto questa nozione sia oramai decostruita.
Sta proprio qui il vero salto concettuale che vuole incorporare Cronenberg nel suo immaginario: allontanandosi dal potenziamento tecnofilo del transumanesimo più puro, che mira a trascendere i limiti umani con innesti biotecnologici, la trama strizza l’occhio a una prospettiva postumana, dove, anziché associare alla tecnologia una condizione super-umana che amplifica il bias cognitivo nei confronti delle altre specie, si spinge verso una evoluzione “naturale nella sua innaturalità” del corpo postorganico. Nello sviluppare organi che gli consentono di ricevere nutrimento sintetico a base di plastica e scarti tecnologici, il corpo, infatti, manifesta uno spirito di adattamento radicale alle severe condizioni di inquinamento ambientale, diventando emblema di un “accoppiamento strutturale” con l’ambiente circostante (Matura & Varela 2001) e accorciando le distanze con quel mondo non-umano da cui antropocentricamente sembrava essersi emancipato.

Del resto, «Il corpo è la realtà», come ci ricorda Cronenberg, è il luogo per eccellenza in cui convergono sia l’essenza della nostra presenza corporea, sia la dimensione sociale e culturale delle mutazioni generate dal contesto ambientale.
Tuttavia, l’essere umano non vuole decentrarsi dalla sua posizione di superiorità, per cui la possibilità di sviluppare un apparato digerente in grado di assimilare gli scarti viene vista come un paradosso che genera deformità e difformità dalla norma. Abbracciare questo punto di vista, infatti, significherebbe far saltare non solo l’umano come ideale, ma anche l’ideale di umano, che diventano simboli di un passato superato, a favore di un’ecologia più “dark” che pone in un rapporto di coesistenza e contaminazione con l’essere umano anche le sostanze tossiche che l’umanità stessa ha prodotto.

Viene da sé comprendere come questo rappresenterebbe un’alternativa troppo anarchica al desiderio biopolitico di soggiogare i corpi e costringerli ad un’evoluzione controllata. Ed ecco perché investigatori, politici e multinazionali si alleano per contrastare questa tendenza sovversiva, arrivando a sabotare l’ultima performance pubblica di Caprice e Tenser, che sarebbe stata rivelatrice della validità della causa di Dotrice.
Lo stesso Tenser, che all’inizio si pone in linea con l’agenda “ufficiale” asportando e donando i nuovi organi che produce, verso il termine del film comprende l’inganno in cui è stato intrappolato: le performance di cui si rende protagonista sono, infatti, solo un modo per negare la spinta vitale della propria interiorità corporea, relegando allo stadio di “rimosso” tutto ciò che lo porterebbe, invece, ad abbracciare un cambiamento viscerale.
In questa chiave, pur nella loro visionarietà scenografica, le performance di Caprice e Tenser non hanno nulla di sovversivo in uno spettacolo artistico che vorrebbe farsi portavoce di una provocazione anti-estetica.
Ma ecco che, finalmente, arriva la tanto attesa epifania che ci porta al finale di “Crimes of the future”. Mentre Tenser è sempre più agonizzante nei confronti del suo stato di sviluppo di masse cancerogene, tanto da essere impossibilitato e disgustato nel deglutire cibo biologico, Caprice, in un ultimo atto di complicità, gli propone di assaggiare un cibo nuovo: una barretta sintetica a base di plastica che era stata loro donata da Dotrice.
È proprio questo il momento in cui la vera rivoluzione artistica della coppia di body artist si concretizza, ossia quando ci regalano un’ultima performance molto intima, in cui Tenser addenta la barretta sintetica e, ripreso da Caprice, finalmente si affranca dal dolore e si abbandona, commosso, a quella Sindrome da Evoluzione Accelerata che tanto aveva rifiutato e combattuto.

Ancora una volta, quindi, la soluzione sembrerebbe risiedere nell’assecondare ed abbracciare il nuovo stadio evoluzionistico dell’essere umano, come occasione di rigerazione e coesistenza con le nuove “creature mostre” (Haraway, 2019).

Ancora una volta, non ci resta che urlare “Gloria e vita alla nuova carne!”.

Buona, perversa, evoluzione della carne a tutti noi.

Bibliografia minima e sitografia

Donna Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriate, DeriveApprodi, 2019

Donna Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli Editore, 2018

Georges Bataille, L’erotismo, SE, 2020

Georges Didi-Huberman, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Abscondita, 2014

Gilles Deleuze & Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Giulio Einaudi Editore, 2002

Gilles Deleuze & Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, 2017

Humberto R. Maturana & Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, Marsilio, 2001

Leonardo Caffo, Fragile umanità. Il postumano contemporaneo, Einaudi, 2017

Rosi Braidotti, The Posthuman, Polity Press, 2013

Selenia Marinelli, “Ibridi dalla fine del mondo”, in Alessandro Melis (a cura di). ZombieCity. Strategie urbane di sopravvivenza agli zombie e alla crisi climatica, D Editore, 2020

Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016

 

http://stelarc.org/?catID=20242

https://www.orlan.eu/bibliography/carnal-art/

https://www.ilpost.it/2017/09/08/venere-anatomica-libro/

Intervista a Drone San

Drone San. Credit: shooting di Alessandro Tuveri e post-produzione di Francesco Liori

I Drone San sono un progetto costituito da Andrea Sanna (piano, tastiere, synth) e il Nicola Pedroni (batteria, percussioni, synth), entrambi autori di formazione jazzistica. Il 14 Gennaio di quest’anno (2022) pubblicano il loro esordio omonimo per la Horribly Loud Records, lavoro dal tratto jazz e futuristico allo stesso tempo, sia a livello di trame sonore progressive, complesse e sintetiche, che per l’immaginario sci-fi che vuole evocare attraverso la grafica del supporto fisico; inoltre dietro all’ascolto del lavoro si cela la narrazione senza parole di un racconto, rintracciabile nel silent book dell’artista grafica Yoshi Mari, autrice anche dell’artwork del disco.

Focalizzandoci sulla trama attraverso la quale si susseguono le immagini della graphic novel, parla Yoshi stessa, dandoci maggiori delucidazioni sulle sue tavole:

“Il tema fantascientifico è stato sviluppato insieme al duo già nelle prime fasi di creazione musicale. Le 14 illustrazioni  – realizzate a tempera e in digitale – sono ispirate alle atmosfere sospese e aliene dell’album. Queste raccontano di una missione spaziale che parte da un pianeta in decadenza alla ricerca di una nuova speranza o fonte di rinascita, a bordo di un’astronave-città-tentacolare. Questa approda su un pianeta in cui la natura prospera in perfetta armonia con i suoi abitanti. I visitatori vengono condotti presso il “tempio” di questa saggia civiltà aliena, tempio che risulta essere una foresta, e ricevono in dono dei semi…

già durante il viaggio di ritorno, l’astronave-città si popola di nuova vita e torna sul pianeta portando un messaggio di speranza.”

Disegno di Yoshi Mari per l’artwork e la graphic novel di Drone San

Per quanto detto riguardo la scrittura del disco, esso risulta molto complesso anche per i suoi frequenti cambi di tempo; un attitudine musicalmente massimalista resa possibile dal notevole background dei due artisti di ricerca sonora – Nicola ha studiato in parte all’estero (Cuba, Milano, Torino, Bologna, Roma) e Andrea ha una formazione come pianista jazz al Conservatorio di Cagliari. Detroit’s Son ha leggeri cambi di tempo in una prima parte, dove un semplice 4/4 si alterna con un 3/4; di seguito in una parte successiva, in cui si raggiunge un climax sonoro il tempo si complica con ripetizioni asimmetriche e qualche aggiunta di una nuova metrica: 

4/4 + ¾ + 4/4 + ¾ + ¾ + ¾ + 4/4 + 5/4 + ¾.

In più battuta per battuta pattern ritmici complicano lo schema del pezzo in maniera più lateralmente barocca a livello cromatico.

Osservando la variazione delle metriche nel tempo di Waltzer Matthau, che è la seguente:

3/4 + ¾ + 2/4 + 4/4 + 5/4,

si ha quasi la sensazione di un fluire della musica dilatato nel suo corso, in cui in più punti rarefatti o meno la musica si sospende, e i beat spesso glitchati e dal suono acido assumono una forma ulteriormente aliena, richiamando per l’appunto forme di vita oscure e remote contemplate dall’estetica che il duo vuole richiamare.

Ornamentalities segue un’altra struttura non-eucldea, dominata dalla seguente serie di metriche che si ripete in più parti:

 4/4 + 5/4 + 4/4 + 2/4.

Qui il tempo si allunga e si spezza, compensandosi a più riprese, anche se qualche valore viene disperso; in questo modo viene incentivata l’asimmetria del pezzo, associata ad una voluminosità fisica. Inoltre il tutto viene incentivato dal suono lisergico e maestoso che non a caso si avvia ad una quasi definitiva conclusione dell’album.

Drone San, album massimalista per la sua dinamicità compositiva fatta di forme fluide e sempre diverse, vuole essere un’offerta nuova, innovativa anche in senso progressista, attingendo dall’universo H.P. Lovecraft attraverso strutture matematiche come asimmetrie nel tempo – come abbiamo osservato – o superfici non orientabili come il nastro di Möbius, filo narrante ciclico della storia che il duo ha voluto raccontare attraverso la loro musica e i disegni dal tratto onirico e etereo di Yoshi Meri. 

Per maggiori curiosità e approfondimenti sui Drone San e il loro esordio riportiamo la nostra conversazione con il duo.


Raccontateci come nasce e si sviluppa il percorso Drone San fino alla pubblicazione dell’album omonimo. Come nasce il vostro sound ben strutturato, fatto di vibrazioni complesse che attinge al progressive, alla library music e al futurismo krautrock?

Drone San: “Nel 2022 ci siamo trovati a suonare insieme in un jazz club e abbiamo subito avuto la sensazione di una forte direzione comune.  Abbiamo quindi  iniziato a scambiarci frammenti di brani o suggestioni sonore, giusto per farci un’idea di chi fossimo musicalmente. I materiali prodotti in questa prima fase – molto, molto diversi da quelli definitivi – ci hanno fatto capire che il progetto meritava di essere sviluppato e di diventare, prima di tutto, un disco. Il nostro sound è frutto di un processo molto naturale e spontaneo: dai primi ascolti reciproci alle stesure dei brani siamo stati facilitati da un’estetica abbastanza omogenea, pur arrivando da percorsi musicali differenti. Ci siamo trovati, insomma.”

Drone San. Credit: Alessandro Tuveri

Parlando del lavoro, il suono insegue una poetica urbana e cosmica allo stesso tempo, insieme ad armonie acide legate più propriamente all’elettronica. Se Drone è un preludio sospeso, oscuro e più periodico, Snob Pineapple ha una tonalità vellutata e ritmicamente irregolare, facendo emergere un immaginario distopico e popular allo stesso tempo; per quanto concerne Detroit’s Son, il suono è più minimale e armonicamente notturno ma con la dovuta energia, mentre in Baking Bread l’atmosfera è più astratta e permeata da una luce aliena per via della musica obliqua e dal ritmo ancora una volta artefatto. Volevo chiedervi, come nasce l’idea di combinare un suono terrestre più lucente accostato ad una cosmicità recondita?

Drone San: “Siamo entrambi appassionati sia di cinema che di letteratura fantascientifica e sicuramente questo ha influenzato molto i brani del disco. Allo stesso tempo, benché a volte vorremmo essere delle entità “aliene”, siamo dei normali terrestri che ogni giorno si scontrano con le inevitabili contraddizioni della nostra società, quindi probabilmente le composizioni hanno fatto trapelare questa nostra condizione.”

Si incontra nella seconda parte del disco un suono più caldo e meno familiare. Waltzer Matthau, strutturata in diverse istanze, è il pezzo più vivo del disco, adrenalinico e dal suono più propriamente progressivo, fatto di diverse consistenze sonore e pattern ritmici elastici. In Ornamentalities diventa protagonista un’astrazione questa volta più rarefatta nel ritmo e nella melodia, arrivando fino a San, conclusione enigmatica del disco e outlier che apre a nuovi scenari immaginifici. Come avviene in voi questa creatività nel creare suoni ed evocare idee poco conformi con la vostra stessa poetica più caratteristica in queste ultime tracce?

Drone San: “Probabilmente ciò deriva dal fatto che, nei nostri ascolti possiamo passare, senza soluzione di continuità, da Aphex Twin a Coltrane, virando subito dopo sui Carcass. Questa nostra eterogeneità negli ascolti sicuramente porta a diversificare le composizioni che poi vengono pur sempre filtrate dalle nostre personalità e fa scaturire, inevitabilmente, una nostra poetica.”

Il sound di Drone San naviga tra più mondi, ma è anche un’occasione di manifestare un suono non solo internazionale, con un retaggio nel prog italiano, nella library e nella soundtrack. Un immaginario sonoro che potrebbe fare da sfondo ad un film di genere (in particolar modo fantascientifici) degli anni ’70/’80, e che è nel segno di un binomio umano/non-umano, in cui il primo guarda ad una parte di un fervido passato, e la seconda è rivolta al futuro. Vi chiedo quali sono state le effettive influenze o punti di riferimento tra suoni, film o altro.

Andrea Sanna: “Sono cresciuto ascoltando i vinili della collezione di mio padre: Pink Floyd, Gentle Giant, Area, ma anche molto blues e hard rock e successivamente mi sono appassionato al Jazz e alla musica elettronica. Tra i miei film preferiti ci sono Alien, 2001 Odissea nello Spazio ma anche Ritorno al Futuro. Questi artisti e titoli sono sicuramente parte della mia formazione e quindi, di conseguenza e inevitabilmente, anche delle composizioni del disco.”

Nicola Pedroni: “Sono certo che film che ho visto superino di gran lunga i (parecchi) dischi che ho ascoltato dall’inizio alla fine. Sono sempre stato appassionato di cinema, ma non per forza d’autore, guardo tutto ma non mi piace tutto. Lavorando, soprattutto in teatro ma anche con illustratori, videomaker, danzatori, performer e artisti visivi in generale, come compositore/performer di colonne sonore direi che sì, una parte importante della mia vita ha tutt’ora a che fare con il rapporto tra suono e immagine/gesto/segno e ciò, dato che anche Andrea è un cinefilo abbastanza spinto, era inevitabile che queste influenze venissero fuori.”

Parliamo del progetto relativo al silent book realizzato dall’artista grafica Yoshi Mari. Il racconto, tra il tema cosmico e in parte quello ecologico, gioca con il dualismo utopico/distopico, evocato in un’unica istanza attraverso la sua struttura a nastro di Moebius, quasi in stile “viciano”. Come nasce il progetto del libro e i temi che lo accompagnano?

Nicola Pedroni: “Questa è semplice: un giorno, mentre buttavamo giù le basi di Drone San, ho visto questa illustrazione di Yoshi: 

Tavola di Yoshi Mari per la graphic novel di Drone San

e immediatamente ho telefonato ad Andrea – sì, ancora usiamo il telefono – dicendogli – guarda un po’ l’illustrazione che ti ho mandato via mail e dimmi se quella cosa non è Drone San! -. Il fatto che siamo qui a parlarne ti farà intuire com’è proseguita la telefonata.”

In conclusione, quali saranno le prossime novità da parte dei Drone San, a livello di scrittura, pubblicazione e attività dal vivo, oltre l’uscita fisica del vostro disco omonimo e per l’appunto quella del silent book?

Drone San: “Abbiamo un hard disk pieno di nuove idee e brani ma non stiamo ancora lavorando seriamente al secondo disco: è stato bellissimo realizzare Drone San, ma dopo i due anni passati la priorità numero uno è suonare. Abbiamo introdotto un terzo musicista nel progetto – Davide è il suo nome e la chitarra il suo strumento – e stiamo organizzando un tour che partirà dopo l’estate. Per quanto riguarda il silent book stiamo lavorando a una formula dal basso che ci consenta di reggere la botta – è molto complesso far uscire un vinile con un libro dentro – e avrete nostre notizie ben presto.”

Video:

Re Corpulento – Necronautica V

“Circolano un sacco di storie su di me… alcune sono divertenti, altre meno, ma chi sono io per giudicare? Quella che preferisco l’ho sentita da un mio fan, un decarabiano che si era fatto amputare la mano per superare le guardie del corpo e chiedermi l’autografo… Insomma, viene questo tizio, firmo una mia xilografia su legno del Cocito, gli regalo un laccio emostatico per fermare quel sangue che gli esce a fiotti in attesa che si faccia vedere da un Aberrazionista e faccio per liquidarlo. Lui tentenna un istante e credo che sia prossimo a svenire ma in realtà sta solo prendendo coraggio… quindi mi chiede: «Ma è vero che il tuo cazzo è così grosso che hai dovuto smettere di indossare le mutande perché ogni volta che ti viene duro le rompi e ne devi buttare almeno quattro ogni giro di luna abissale? ». Scoppio a ridergli in faccia mentre i ragazzi della sicurezza lo portano fuori per mozzargli l’altra mano.”

Tratto da “Intervista al dannato John Curtis Holmes”, dell’inviato Gamiacco da Messalinopoli, Luciferovisione, Anno non pervenuto.

L’ultimo bel ricordo che ho di lei è quello di un mattino di metà settembre. La luce del sole entrava dalla finestra della camera da letto e io, avendo il viso rivolto verso di essa, mi svegliai. Erano le sei perché controllai anche l’ora e poi mi girai verso la mia donna. Quando ci eravamo addormentati ci eravamo avvinghiati, come a volerci sostenere, poi però si era spostata durante il sonno e in quel momento si trovava raggomitolata come in un’approssimativa posizione fetale. Le toccai il braccio scoperto e mi accorsi che era freddo, allora la strinsi tra le braccia e lei, con gli occhi socchiusi, borbottò qualcosa di sincero nel dormiveglia e si addormentò posando il viso sul mio petto. Ci saremmo svegliati un’ora più tardi. L’ultimo bel ricordo che ho di lei, dicevo.

Adesso non c’è nulla di più bello di una visita alla Cittadella di Lilith, la Las Vegas di Pandemonium, così come la definiscono i dannati arrivati qui dalla metà del Novecento. Coacervo di case chiuse, di grattacieli dalla disperata forma fallica, di negozi di oggettistica pseudo-sessuale, di case di produzione teratopornografiche e di set demonovisivi gestiti da attori morti di AIDS o di overdose, di bordelli dove schiavi di qualsiasi sesso e forma sono obbligati a vendere il proprio corpo agli esemplari più poveri e disgustosi della Capitale, di campi di sterminio governati dalla Divisione della Totalizzazione Onanistica, di cabine della castrazione, di cliniche di bruttezza e chi più ne ha più ne metta.

Il quartiere fu concepito dalla Stella del Mattino in persona per fare un regalo a quella puttana ingestibile di Lilith quando, non molto tempo dopo la Caduta, espresse il desiderio di una zona tutta sua dove poter fornicare, fare soldi e spartirsi una fetta di potere. Nella Cittadella è la pornocrazia a governare, non la solita e annoiata demonocrazia fatta di titoli nobiliari, di casate, questioni etniche e sangue nero più o meno puro misti a tante altre diavolerie che potete benissimo trovare un po’ dappertutto. Qui più si è troia e più si comanda, ovviamente con il benestare della padrona di casa e non sono infatti pochi gli arrampicatori sociali che si sono ritrovati a trascorrere lunghi periodi di prigionia in un’arena delle Succubi o in una cella dell’impotenza nelle profondità del Penitenziario di Priapo in via degli Acri di Pelle.

Personalmente non me la passo male e mi trovo ormai spesso a bazzicare da queste parti anche se non sono riuscito a trovare casa come desidererei. I prezzi non sono più abbordabili come una volta da quando hanno sospeso la Festa della Decimazione per incentivare le nascite degli ibridi e sovrappopolare certe aree di Pandemonium. Per questo motivo è piuttosto complicato per un dannato della media borghesia come me trovare un monolocale o perfino un infimo loculo in stile Cavalcanti; case libere quasi non se ne trovano e case vuote costano più di un intero set di organi messo in vendita sull’Infernet. Già, sono solo uno dei tanti alla fine ma, come ho detto, non me la passo male. Quando ero in vita facevo il chirurgo e allora sì che ero ricco. Ora non ha più senso, lo so, ma noi comuni dannati abbiamo ereditato questa pessima abilità nel ricordare tutto delle nostre vite precedenti.

Qualche tempo fa questo perfetto signor nessuno che sono diventato si è innamorato. L’amore tra i dannati  è raro ma ancora più raramente è duraturo, non tanto a causa del normale virtuosismo sentimentale che anche la nostra non vita ti fa prendere, quanto piuttosto per i capricci del caso infernale. Mi chiamo, cioè mi chiamavo, Aleksandr Ushakov. Vivevo e lavoravo a Brjansk e c’era Stalin al potere. Lo stesso pupazzo baffuto che adesso mostrano in demonovisione a occuparsi dell’Holodomor per conto dei diavoli del Dipartimento delle Carestie Pubbliche. Le mie giornate da vivente trascorrevano monotone tra le riunioni dei medici del partito, le battute di pesca sul fiume Desna, gli interventi nell’ospedale locale e una ragazza che non mi ero ancora vigliaccamente deciso di sposare. Quella sospensione nella quale vivevo si interruppe quando i nazisti invasero il paese nel 1941 e occuparono la mia città. Gli hitleriti mi catturarono e trascorsi anni in un campo di prigionia dove me la cavai essendo medico. Alla fine l’Unione Sovietica vinse e il compagno Stalin ci fece liberare ma dopo qualche tempo fui arrestato e interrogato. Me la cavai ma decisi che era il caso di cambiare aria quindi, grazie all’aiuto di certi amici, raggiunsi prima la Turchia, poi il Portogallo e infine andai a vivere negli Stati Uniti d’America dove ero conosciuto come Alex Doyle. Nome falso, curriculum semiserio, cittadinanza falsissima.

In cambio di questi favori fui preso a lavorare presso certi figuri della malavita ucraina di New York. Questi sapevano che ero russo ma mi presero in simpatia perché mi davo da fare come medico. Li ricucivo senza fare troppe domande ogni volta che restavano coinvolti in qualche sparatoria o in qualche rissa. Ero il medico personale di alcuni boss e venivo pagato bene. La mia identità fittizia mi permise di superare indenne l’ondata di maccartismo degli anni ’50 ma poi… ecco, si arriva sempre a quel fottuto “ma poi”.

C’era questa donna che mi ricordava terribilmente la mia ex fidanzata di Brjansk. Era la moglie di un tale Leonid che si occupava di riciclaggio e soffriva di ipocondria. Mi piaceva da morire quel paio succoso di seni che strabordava dal vestitino da casalinga con cui si presentava quando andavo a trovare il marito. All’inizio provavo per lei una forte attrazione sessuale che era perfino ricambiata dagli sguardi che mi lanciava ogni volta che capitava che rimanessi in casa da solo con lei mentre quell’imbecille di Leonid si faceva misurare la pressione; poi capii che mi stavo innamorando. Ci scrivevamo lettere d’amore di nascosto, bellissime e forse un po’ innocenti. Ero ricambiato anche in questo. Decidemmo di fuggire insieme e lasciarci alle spalle gli ucraini e i loro traffici. Lei, inoltre, voleva a tutti i costi affrancarsi dal marito che la malattia psicosomatica aveva anche reso impotente. Si chiamava Daryna.

In quel giorno di settembre di cui parlavo all’inizio ci incontrammo in un motel nel New Jersey. Facemmo l’amore fino all’alba e poi ci addormentammo come due sposi in luna di miele. A mezzogiorno due scagnozzi di Leonid fecero irruzione nella stanza e ci portarono via. Non seppi più nulla di lei fino a, diciamo, poco fa. Quanto a me, invece, fui legato mani e piedi e caricato in una Buick con destinazione ignota. Mi strangolarono dalle parti di Trenton, lasciandomi credere che mi avrebbero riportato a casa dove avrei dovuto chiedere perdono a Leonid. Dopo la morte mi tagliarono i genitali e mi li spinsero a forza nella gola. Curioso come faccia a saperlo.

Mi svegliai in una gigantesca latrina dove una specie di stronzo parlante, che seppi poi essere un Escrementale, mi annunciò candidamente di essere finito all’Inferno. Dovete sapere, ma solo per cronaca, che sono qui non perché ho desiderato banalmente la donna d’altri, cioè, probabilmente anche per quello, ma principalmente perché mi occupavo anche di mercato nero degli organi lì a New York. Ma sono solo dettagli. Alla fine macellavo personaggi di poco conto per i loro reni. All’epoca quelli andavano per la maggiore ed erano i primi organi che sulla Terra si potevano trapiantare. Dettagli, come dicevo.

Inutile dilungarsi sulle mie peregrinazioni in questo altromondo fatto di gioia sanguinosa e caos; importante è sapere che sono sopravvissuto ma tutti qui sono costretti a sopravvivere, almeno noi dannati. Diversamente da tanti derelitti che dividono con me questa esperienza infinita, mi sono fatto strada anche se conto di essere stato ammazzato e poi riconfigurato almeno una dozzina di volte. Sono stato schiavizzato prima nelle piantagioni di Latte del Tartaro e poi nella costruzione di Demonomati meccanici presso la Premiata Fabbrica Demonomatica #68924 del Quartiere Albert Fish dove, mentre azzardavo una chirurgia per fermare l’emorragia di un mio sfortunato collega che si era beccato lo schizzo di uno Spermageist in calore, uno dei guardiani mi notò e mi fece trasferire come aiutante in una delle scuole di apprendistato degli Aberrazionisti dove trascorsi anni interminabili a ripulire interiora e insegnare tecniche di sutura alle matricole. Avevo uno stipendio miserabile ma arrivai a potermi permettere di salire un po’ nel sistema delle caste che regolano la vita di Pandemonium.

Iniziai così a trascorrere il tempo libero nella Cittadella di Lilith. Iniziai a farmi conoscere nei locali e la mia lussuria nel cercare piacere carnale che mi permettesse di dimenticare la negazione della mia non-esistenza anche solo per un istante, mi permise di intavolare qualche interessante relazione anche se solo sessuale con altre donne, dannate come me; poi, però, ho visto finalmente qualcosa che non mi sarei mai aspettato.

Mi trovavo allo Spitfire Club, un locale per scambisti dove demoni minori possono provare il brivido di vivere un po’ di tempo come dannati scambiando cioè il loro ruolo di dominatori in quello di dominati. Il locale è aperto anche a quelli come noi, pagando il giusto prezzo, e chi non è costretto a rinunciare a un paio di occhi per una scopata o a qualche chilo di cartilagine, può tranquillamente pagare una quota di iscrizione senza ritrovarsi disteso su un tavolo da dissezione.  Lì ho rivisto Daryna e possa io sprofondare nel più profondo degli Inferi se non sostengo il vero. Ah già. Diciamo che lo giuro allora sulla testa ormai putrefatta della mia buona babushka.

Era lì, sul palco. Un Corpulento le palpava il culo tatuato mentre, vestita da dominatrice in un costoso completo in vera pelle del marchio Ed Gein, frustava con un cerbero a tre teste di cazzo e nove paia di palle il fallo flaccido di un Fragilificatore in libera uscita. Il disgraziato emetteva zolfo dalle narici mentre la versione dannata di Daryna iniziava a strizzargli il doppio paio di capezzoli che aveva sul petto. In tutto ciò mi ero avvicinato parecchio al palco e il suo magnaccia, quello che la palpava con quegli arti cascanti tutto grasso e niente muscolo, se ne accorse e rivolto a me cominciò a sibilare.
“Rimani al tuo posto inutile testa di cazzo!” disse.
Daryna si voltò un attimo e parve riconoscermi ma non si scompose e continuò il suo turpe lavoro procedendo a inzaccherare la faccia scomposta del Fragilificatore con interiora di Pesce Mucoide che prendeva a grandi mani da un secchio lì vicino. Il demone sorrideva tirando fuori la lingua biforcuta che prontamente Daryna stuzzicava con le sue lunghe unghie ricostruite.
“Ti ho detto di stare indietro verme!” urlò ancora il Corpulento sputando una massa di colesterolo dalle labbra e agitando maniacalmente un manganello.
Un buttafuori, un Centauro a Sei Zampe con il simbolo dell’occhio della provvidenza tatuato sul collo muscoloso, iniziò ad avvicinarsi minaccioso. Alla fine mi fece in disparte pronto a cogliere il momento opportuno.  Fu il momento a trovare me.
Mentre ero al bancone a trangugiare l’ennesimo cocktail di Locusta Fermentata nel Midollo di Dannato, il barista iniziò a puntare una figura alle mie spalle sghignazzando qualcosa che non recepii a proposito di profilattici ritardanti con l’Amanita nigra. Mi voltai e la vidi.
“Alex”
“Daryna”
Non dicemmo nulla per un po’ mentre il barista continuava a sganasciarsi e si metteva gli artigli sulla patta dei pantaloni simulando una sega.
“Da quanto tempo?”
“Troppo, Daryna, troppo… quasi un’eternità” risposi io poggiando il drink consumato a metà sul banco con il barista che adesso, non trovando di meglio oltre allo sfottermi, aveva infilato il cazzo macilento in uno shaker e se lo scopava non resistendo alla tentazione di segarsi.
“Vieni con me. Parliamo in un posto più tranquillo”
Mi portò in quello che doveva essere il suo camerino e mi pregò di parlare piano perché il suo pappone, quella massa di lardo e di negazione di Dio che la accompagnava sul palco, era nei paraggi. Mi raccontò la sua storia e io le raccontai la mia. Dopo essere stata ricondotta con la forza da Leonid era stata stuprata dai suoi sottoposti, ripudiata come moglie e allontanata con venti dollari che l’ex marito le aveva infilato in bocca come gesto umiliante. Aveva vissuto ai margini della società per qualche tempo, non potendo chiedere aiuto a nessuno e dandosi alla prostituzione. Alla fine si era procurata una pistola in un banco dei pegni e l’aveva usata prima su Leonid e le sue guardie del corpo e, infine, su se stessa. Di me non aveva saputo più nulla ma immaginava che mi avessero ucciso.
“Ti ricordi quando abbiamo fatto l’amore lì nel motel? Ti ricordi quando ci siamo addormentati abbracciati e all’alba ti ho svegliata per caso e mi avevi detto qualcosa per poi riaddormentarti?” le chiesi senza bisogno di sapere altro da lei.
“Ti dissi ti amo”
“Già. Ti amo pure io. Quella volta non ti risposi, te lo dico adesso” scoppiammo a piangere entrambi e ci baciammo. Bussarono alla porta.
“Che cazzo stai facendo?” urlò il bastardo che avevo iniziato a pensare di uccidere.
“Nulla mio padrone, mi sto preparando per il prossimo incontro” rispose Daryna con voce tremante mentre si asciugava le lacrime. Il Corpulento entrò lo stesso nella stanza.
“Tu adesso mi spieghi che cazzo ci fai qui dentro con lei, altrimenti ti mando a leccare le vagine delle Puttane della Congrega di Babilonia per l’eternità” e senza che potessi rispondergli allungò uno dei suoi arti molli e mi scaraventò fuori.

Sentivo Daryna urlare mentre il Centauro a Sei Zampe di prima mi lanciava nel vicolo tra l’ilarità dei presenti e quella del barista che era uscito per fumarsi una Cancerogena Filtro Zero.
“Non farti più vedere” nitrì il buttafuori cercando con gli occhi equini l’approvazione degli astanti che se la ridevano di brutto nel guardarmi crollato in mezzo alla spazzatura. Rimasi fermo in quella posizione per un po’, con gli occhi alla porta che nel frattempo era stata richiusa. Visto che non c’era altro da fare, i presenti mi ignorarono e il barista rientrò nello Spitfire gettandomi addosso la cicca ormai spenta. Una figura di bassa statura mi si avvicinò. Era un anziano dannato vestito con un abito da pagliaccio del circo.
“Stai bene fratello?” mi disse con la bocca sdentata di chi è stato pestato più volte.
“Sto bene, grazie” risposi rialzandomi.
“Serve qualcosa fratello? Qualcosa per rimetterti in piedi? Qualcosa per il cazzo? Ho tutto quello che ti serve nel mio negozio dietro l’angolo” continuava a dire quello. Era un indù.
“Ho bisogno di qualcosa che possa uccidere un Corpulento”.

Risultò che il demone che aveva comprato Daryna non era un magnaccia qualsiasi ma un personaggio noto nell’ambiente della Cittadella di Lilith come Re Corpulento. Si trattava di una massa adiposa e disossata nata dalla fantasia degli Aberrazionisti per dotare la categoria dei Corpulenti con una quantità maggiore di colesterolo e trigliceridi onde poterne utilizzare il grasso in eccesso come fonte energetica e materiale di consumo. Re Corpulento era il primo di questi prototipi ma il Dipartimento del Dispendio Energetico di Pandemonium aveva decretato che la loro produzione era troppo onerosa, quindi il progetto fu abbandonato e i prototipi esistenti messi in libertà. Il Re era diventato famoso come il più lascivo e narcisista degli esemplari della sua specie e diventò anche famoso per aver divorato e defecato tutte le sue amanti. Coinvolto, come spesso accade, in un giro di teratopornografia, aveva avuto successo ed era diventato il direttore dello Spitfire Club dopo aver letteralmente ingoiato il precedente titolare.

Tecnicamente non è possibile uccidere un demone ma dovete sapere che all’Inferno, quando ci si trova a che fare con demoni minori, quindi con individui che non hanno né origini angeliche né origini che potremmo definire “naturalmente” infernali, la cosa è fattibile utilizzando una qualsiasi arma. Possono morire, insomma, come le persone sulla Terra. Il problema è che ai dannati è negato il possesso di qualsivoglia oggetto in grado di danneggiare un demone, maggiore o minore che sia, tranne che per motivi di lavoro o in caso di ordine diretto da parte di un’autorità; così recita l’articolo di legge vattelapesca. La pena, in caso di violazione, prevede di diventare materiale da costruzione per l’eternità.

L’indù non si rivelò utile in alcun modo. Aveva conoscenze ma di sicuro inferiori rispetto alle mie e, temendo potesse denunciarmi, lo mandai a quel paese facendogli credere che i miei erano deliri da buon dannato russo ubriaco. Mi rivolsi a un dannato piuttosto famoso e al tempo stesso affidabile di cui non farò mai il nome ma che mi aiutò in passato e che avevo avuto la fortuna di conoscere mentre era ricoverato in ospedale a Brjansk durante la seconda guerra mondiale quando ero ancora in vita, prima che mi imprigionassero i tedeschi. Diciamo che certi fucili d’assalto che si usano ancora sulla Terra portano il suo nome.

Eccomi qui, insomma. All’uscita dello Spitfire Club con un improbabile cappotto di lana di Fecaloma che mi serve per nascondere il preziosissimo AK-74 artigianale con cui sfracellerò Re Corpulento. Il piano è semplice e si giocherà tutto sull’effetto sorpresa in quanto nemmeno la mia cara Daryna conosce le mie intenzioni ma mi è bastato scambiare quelle poche parole con lei per capire che, a costo di finire trasformato in un mattone di carne, il mio scopo è quello di liberarla e prenderla con me. Magari poi ce ne andremo a vivere fuori dalla Capitale visto che a Pandemonium tirerà una brutta aria e ci cercheranno. Potremmo raggiungere qualche piantagione di schiavi nella Regione Meridionale oppure andare a nasconderci nei territori selvaggi della Grande Desolazione. Il nostro avvenire è segnato dal successo.

La mia idea è quella di aspettare l’uscita della coppia dal locale. Ho scoperto la vettura del grassone che non poteva non avere un modello di demonobile fuori misura in grado di trasportare il suo culo. Daryna è tenuta nella villa di Re Corpulento ed è sempre costretta a seguirlo, almeno fino a quando il demone non si stancherà di lei e sceglierà un nuovo giocattolo per i suoi clienti, ma non posso attendere. La mia missione è chiara. Io sono determinato. Sono pur sempre un uomo e sono deciso a mantenere la mia superiorità su queste creature del cazzo che Dio ha creato nei suoi momenti di noia. Nemmeno l’Altissimo potrà punirmi perché sono già all’Inferno e nemmeno il Bassissimo potrà farlo perché ci renderemo irreperibili e il suo Terzo Occhio non si poserà mai su di noi. Lo giuro su tutto ciò che mi è più chiaro. Lo giuro su Daryna, la donna della mia vita e della mia non-vita.

Sono nascosto nel buio del parcheggio senza attirare l’attenzione di una coppia di Asimmetrali che vomitano all’unisono in preda ai fumi di chissà qualche bevanda del cazzo. I due finalmente si allontanano barcollando e rimango da solo. Passa un giro di luna abissale e non arriva nessuno tranne un macilento dannato che trascina la propria carcassa a bordo di un carretto di legno. Mi passa accanto senza guardarmi e mi accorgo che non può farlo perché non ha più i bulbi oculari per vedermi. Chiede a gran voce elemosina ma scompare dietro l’angolo proprio mentre la porta posteriore del Club si apre e adesso vedo Daryna che procede, al guinzaglio, alle spalle di un corpo più o meno informe che ciondolando raggiunge la macchina. Non posso sbagliare.
“Tu” dico avvicinandomi con passo svelto e tirando fuori l’arma.
“Tu, grandissimo…” sta per dire Re Corpulento.
Lo mitraglio con una scarica di colpi che in buona misura finiscono attutiti dalla sua massa grassa ma che, dopo una seconda scarica, fanno il loro lavoro.
L’amorfo cade a terra sfrigolando ma tenendo ancora la mano serrata sul guinzaglio che tiene legata Daryna. Una terza e ultima scarica di proiettili artigianali la tagliano in due all’altezza di quello che dovrebbe essere il polso.
La mia donna è confusa ma realizza subito chi sono.
“Amore, Alex… Aleksandr… sei venuto a prendermi…” e singhiozza dalla contentezza avvinghiandosi a me come quella volta in cui andava tutto bene.

Mi godo l’epifania di quel momento. Vorrei che il suo abbraccio non finisca mai. Vorrei che tutto si congeli in quell’istante, che dimenticassimo la nostra condizione di dannati e che sia l’intero Inferno a congelarsi intorno a noi.
“Sono qui. Sono qui per te. Adesso andremo via” le sussurro.
“Moya lyubov…” mi dice in ucraino.
E mentre raggiungiamo la macchina del suo padrone di cui ormai saranno i Vermi Latrinosi a occuparsi, mentre entro nell’auto sorridendo perché il nostro futuro insieme finalmente è un’eterna realtà dalla quale non sarà un Leonid a svegliarmi, mentre tutto sembra scomparire, succede qualcosa di improvviso e brutale.

“Alekxandr!” urla Daryna che non è ancora entrata in macchina con me. Esco.
La vedo. Non è sola. Re Corpulento, viscido e inaspettato come l’antagonista in un film dell’orrore da drive-in americano, è sempre abbattuto, ma non è morto del tutto. Le sue fauci sono serrate sulle gambe di Daryna che giace a terra immobilizzata. Sta cercando di ingoiarla come farebbe un serpente. La sua mandibola si è perfino lussata nello sforzo di fagocitarla e dai suoi piccoli occhi neri, sepolti dalle palpebre colme di xantelasmi, sgorgano lacrime acide.
“Quand’è che muori?” gli grido lanciandomi sulla sua testa calva con il calcio del fucile.
Lo colpisco più volte fino a farne una massa ancora più informe di quella che era in origine. Alla fine sento uno strappo. Un rumore come di grosse forbici quando tagliano una risma di carta con un solo colpo. La presa è allentata e Daryna riesce a trascinarsi via. Senza gambe.
Dal ginocchio in giù non c’è nulla. Sono immobilizzato dal terrore e dalla rabbia.
Maledico il nome di Dio nella mia lingua.
Daryna mi guarda e sembra sorridere ma la sua è solo una smorfia di dolore mentre con le mani cerca di allontanarsi dalle fauci ormai spente di Re Corpulento.
Maledico il nome di Lucifero nella mia lingua. Lo sento ridere nella mia testa.
Daryna mi guarda e sembra sorridere ma è quella smorfia di dolore che le è rimasta impressa sul volto pietrificato dalla nuova morte.
I dannati non possono mai morire per davvero all’Inferno. Una regola che non può essere modificabile nemmeno dagli artifici più audaci dell’Occultomanzia. Ma Daryna non sarà più la stessa.
La raccolgo come si raccoglie la spiga di grano più preziosa della messe. Così leggera e così diversa adesso che la porto in macchina in una scia di sangue che chissà quanto dovrò lavorare per arrestare. La amo. La amo ancora. La amerò sempre.

La bambola

Aprì la porta di casa e fu sommerso dall’arancione torbido del sole al tramonto, incandescente oltre le vetrate del salotto mentre allentava la presa sulla città riarsa. Buttò la giacca del vestito sul divano e raggiunse in fretta il bagno, slacciandosi la cintura ancor prima di mettervi piede. Erano tre ore che resisteva.
Una volta liberatosi, con i gomiti appoggiati sugli adduttori grassi e la testa in bilico sugli avambracci, attese fino a che alla rilassatezza del corpo non seguì quella della mente.
Casa. Riposo. Svago. Si fece il bidè con le scarpe ancora ai piedi, canticchiando un motivetto che aveva sentito alla radio, poi si asciugò e si diresse in camera.
Digitò il codice sul tastierino numerico dell’enorme cabina armadio, che si dischiuse con un sibilo. In mezzo all’intrico di membra e indumenti, la scorse e sorrise.
«Eccola qui, la mia favorita».
Premette il bottone di scorrimento del nastro del guardaroba fino a che non se la ritrovò davanti. Con un braccio la cinse sotto le spalle e con l’altro le tenne alte le ginocchia, sfilandola dal sostegno. La adagiò sopra le lenzuola e la fissò rapito, disorientato dal moto di tenerezza che sentiva propagarsi nel petto.
«Non vedi che sorrido come un ebete solo per te, bambolina mia?»
Lo scomparto dell’interruttore alla base del collo era soltanto socchiuso e con delicatezza lo premette per ricreare l’illusione di una pelle omogenea. Oh, se era bella in lingerie… La sistemò sopra al letto sul fianco e le spostò una delle braccia sotto alla testa, accarezzandone la cascata di riccioli neri. Le piegò leggermente l’altro braccio e ne appoggiò la mano – piccola farfalla di velluto – sopra all’anca, per poi proseguire a tracciare con il dito tozzo e carnoso la traiettoria della gamba fino alla caviglia. Si sdraiò di fronte a lei e le sfiorò le labbra semiaperte e il margine degli occhi spenti. («E questo nasetto quanto è carino?») Poi di nuovo giù fino alla gola e al seno minuto. Il nero le donava, rifletté, il pizzo non molto. La bambola perse l’equilibrio precario nel quale l’aveva posta e gli cadde quasi addosso, sprofondando con il viso tra i cuscini.
«Quanta fretta» ridacchiò lui. «Un po’ però ti capisco, birichina che sei».
Pigiò il portellino dello scomparto all’altezza della clavicola, che si aprì rivelando una minuscola leva. L’uomo la abbassò e richiuse in fretta. Il volto femminile si animò.
«Ciao» proferì la bocca in un sorriso deliziato. «Era da un po’ che non venivi a trovarmi».
Non era vero, ma lui stette al gioco. «Lo so. Al lavoro sono settimane di inferno. Ma oggi ho insistito per staccare prima. Solo per te».
Lei rise e iniziò a strofinargli il cavallo dei pantaloni con la mano. «Mi sei mancato, fagottino».
Lui non poté fare a meno di chiedersi che cosa vedessero quegli occhi dalla pupilla lattiginosa. Espirando emise un gemito e si rese conto che la sua erezione era già tenace. Lei scese in basso e si mise ad armeggiare con la cintura. Non appena riuscì a sbottonargli i pantaloni gli afferrò il membro e iniziò a massaggiarlo con una mano, mentre con l’altra toccava se stessa.
«Vieni qui» disse allargando le gambe e scostando di lato le mutandine, e guidò il pene ingrossato dell’uomo dentro di sé.
Che cosa vedeva mentre lui la penetrava? Vedeva davvero qualche cosa? Scopandola se lo chiese diverse volte, anche quando lei si mise a pecorina e lo supplicò di prenderle il culo, fino a che non si chiese più niente e le rovinò addosso ansimando, sfocato nell’esplosione umida dell’orgasmo.
La lasciò giocare con i suoi capelli per qualche minuto, poi la spense e le abbassò le palpebre.
Si raddrizzò e gettò uno sguardo fuori dalla finestra, dove il sole era scomparso dietro le gibbose alture del margine occidentale della città. Un lento imbrunire stava offuscando la verità dei corpi e della materia tutta, ma la luce artificiale dei lampioni avrebbe presto impedito loro di sciogliersi nel buio.
Recuperò sigarette e accendino dalla giacca in salotto e se ne accese una.
Si sedette sul letto con la schiena appoggiata alla testiera e rimase per un po’ a fissare la figura bronzea che giaceva inerte al suo fianco.
Sentì il telefono squillare e lo recuperò dal comodino, ma rifiutò la chiamata: chiunque lo stesse cercando non era nella sua rubrica. Il numero però chiamò subito una seconda volta, così si rassegnò a rispondere.
«Pronto?»
«Pronto, il signor Oliviero?»
A conoscerlo con quel nome erano soltanto i fittavoli delle palazzine e la voce non gli era nuova.
«Chi parla?»
«El Amein. Sono la moglie di El Amein Khaleb».
Il nome portò con sé una faccia, poi un’altra. Lui alto, barbuto e macilento, spezzato già prima dell’ingresso in Italia e della vita di espedienti che conduceva. Lei bassa, naso schiacciato, all’inizio corpacciuta, ma prosciugata dalle chemio per il cancro al seno.
«Signora El Amein, qual buon vento! Come vanno le terapie? Presumo che chiami perché ha qualcosa di nuovo da dirmi sugli arretrati. Sbaglio?»
«Sì, signor Oliviero, per gli arretrati».
Figuriamoci. Dove sarebbe mai andato a prenderli quel buono a nulla del marito? Tra pigione e cure mediche erano un mucchio di soldi.
«Può versarli entro la fine della settimana?»
«Tutti gli arretrati no. Entro fine settimana no, ma mio marito ha trovato lavoro. Fra due settimane gli danno lo stipendio. Possiamo…».
«… e allora» la interruppe quasi con sollievo «direi che è il caso di parlarne tra due settimane, non crede?»
«Ma lo stipendio arriva. Ma…» l’uomo udì un rantolo e poi nulla per una decina di secondi. Aspirò una boccata di fumo e spostò il posacenere dal comodino alla schiena della bambola.
«Mi dica per favore, signor Oliviero… Yasmin sta bene? La mia Yasmin sta bene?»
Lui passò le dita della mano libera tra le natiche del corpo immobile. Vai a sapere…
«Mai stata meglio» rispose nel suo tono più rassicurante.
Poi riattaccò.

Opera di Iya Consorio – Barrioquinto

Mezzanotte a Marrakech – Seconda parte

” QUESTI SONO GLI ULTIMI NAZISTI”

«Si sono radunati a Marrakech?»  chiede Pedrita, a bassa voce, quasi senza voce. Lei muove le dita dei piedi e gli dà sempre ragione.
I manuali di regime la chiamano “folie à deux” e pare sia una rara sindrome psichiatrica nella quale un sintomo di psicosi (spesso una convinzione delirante, di tipo paranoica) viene trasmessa da un individuo all’altro.
Tom ode come un colpo di pistola al silenziatore.
Si guarda intorno, come per cercare conforto, e vede Pedrita seduta immobile con gli occhi vitrei e tanti ragazzi scalzi, ignari di essere capitati nella rete di un’organizzazione mondiale di nazisti.
E Bachir, laggiù in fondo, un cane, anche lui fa parte del complotto di questa maledetta setta.
Torna a guardare Pedrita e bisbiglia: «Ssst…tenteremo di metterci in salvo. Johnny, quel Giuda, ci ha traditi. Porteremo Bachir con noi come ostaggio e testimone. È  l’unica via d’uscita.»
Lui è un campione nell’organizzare strategie di fughe, non a caso ha preso Spartacus, Alessandro il Grande e Napoleone Bonaparte come suoi modelli di vita e di azione.
Intanto un ragazzo con gli occhi a mandorla, un giapponese seduto accanto a lui, gli passa una zolletta di zucchero.
Tom la considera con gravità un minuto buono come se non riuscisse a capire che roba sia, poi deciso dice: «Thanks», e la prende con due dita.
«It eats!» gli fa il giapponese, e lui la butta giù.
Quella roba che gli scivolava in bocca dolce dolce era LSD.
Mentre succhia la zolletta di zucchero si mette a osservare un capellone che, salito sulle spalle di due compagni, avvita una lampadina per illuminare il patio. La lampadina si accende e Tom sente una scarica elettrica nel cervello. Poi una girandola di colori incandescenti e lampi. Afflitto dai lampi stringe i denti. Infine una colata di fuoco nel cervello. “Sarò forte”. E stringe ancora i denti.
È fatto così, è il suo temperamento: stringendo il capo di una corda con un altro tizio all’altro capo che tira, preferirebbe rompersi il muso piuttosto che lasciare la presa e c’era per esempio quella storia di braccio di ferro in cui faceva piegare i più forzuti, benché a ben guardare la taglia delle sue braccia non fosse particolarmente muscolosa, ma a curarsi e a irrobustirsi ci avrebbe pensato dopo essere sfuggito al delirio.
Spiccato il volo, ha visioni di facce facce facce, tante facce che s’accumulano sotto le palpebre, facce mai viste prima, con zigomi spettrali, occhi scintillanti che, aperti, gli sembrano chiusi e, chiusi, gli sembrano aperti… Tom comincia ad avere così visioni palpebrali di facce venute da fuori, dal nulla. Quando ecco all’improvviso un volto conosciuto: lo spettro di suo padre morto e stramorto, con la faccia di diavolo che fa: “Ti ricordi di me?”, e gli dà uno schiaffo.
Poi arriva una specie di vescovo o di papa con chele di granchio che gli dà una puncicata ai coglioni e gli mostra il suo certificato di battesimo e anche un foglio di via.
Intanto, in un grande sssssssss, come il ronzio che si sente tra molte api, una voce gli ricorda che i veri uomini non si lasciano mai andare ma pisciano contro i muri a gambe larghe e pensano a tenere alto lo stendardo della Resistenza.
A tale proposito ricorda che una volta, quando era al Liceo di Trapani, ha scritto anche una poesia, che faceva così:

O Venere Afrodite,
levo a te, o Dea, e libo,
e pervaso da Priapo
tendo la nerchia tremula
ricurva
al tuo ovario,
perché compiaciuta di me
e di quanti
così intensamente ti adoriamo,
tu conceda l’Eroe
che ci conduca
per aspera ad astra.

“Idiota” aveva pensato Johnny, quando la lesse.
E ora Tom fa tutta una storia per non lasciarsi andare e non mollare, perché questo non è un acid party nel mellah, ma una notte che non somiglia alle altre notti ma sa di fuga e d’imboscata.
Una voce sonnacchiosa, che proviene da un grande sipario trapunto di stelle che brillano chiare, quasi frenetiche, ha appena finito di dire: “Al diavolo dio. Viva il diavolo e viva la minchia”.
E lui cavalca, e impugna la scimitarra, facendo appello all’antica tradizione dei masculi di Saracenia.
Perché questa è una notte elettrica, che, nei suoi pensieri, è La Notte in cui Lee vuole metterlo alla Prova.
Gli farà vedere chi è Tom Gambino: un osso duro che alla fine pianterà sulla vetta la propria bandierina.
Quando si è braccati da una banda di nazisti che vogliono usarti come cavia per i loro mostruosi esperimenti occorre resistere resistere resistere.
Resistere a cosa? Non lo sa bene ma continua a stringere i pugni ed ecco il freak out.
E troppo concentrato su sé stesso. E più cerca di resistere all’acido più entra in una  appuntita foresta di difese.
Come se stesse in una classe alza due dita in aria e chiede il permesso di andare sul terrazzo.
Nessuno ci fa caso, e lui si alza barcollando; scorge una scala stretta e unta, e sale su, di slancio, come una capra.
Sbuca così sul tetto della casa, una terrazza bianca di calce illuminata dal chiarore della luna di traverso al cielo.
Nel panico si affaccia su Marrakech e vede palazzi da Mille e una notte, sfolgoranti di marmi, di cristalli e di luci sotto un cielo di panni stesi ad asciugare.
Com’è possibile, fra tanta bellezza, che i vescovi e i nazisti si stiano preparando a fargli la festa? È veramente una follia, ma c’è anche qualcosa di dolce, una musica, come la voce di Pedrita che lo sta abbandonando. Come mai? “Semplice: l’anagramma di PEDRITA non è forse PERDITA?”.
Lo sente che l’avrebbe persa e a dirglielo è la stessa voce di sua madre che già lo aveva abbandonato, per quell’altro.
Tutti siamo stati abbandonati, ma abbiamo voluto dimenticarlo. Lui invece deve ricordarsene e procurare piacere a tutte le donne e riparare a tante ingiustizie. E questo il suo karma perché lui ha questa missione dongiovannesca e ce l’ha pure duro grosso, perché da piccolo lo hanno nutrito con testicoli di toro e rognoni, per cui resiste e deve resistere, con “nerchia tremula”, a quel lavaggio del cervello.
Mai avute sensazioni così. Da convincerlo che qui c’è una vera presenza a capo di quei bodhisattva nazisti e mostruosi androgini laggiù. Il pensamento di Tom? “Certamente mi stanno sottoponendo a una prova di tipo sciamanico”.

RONDINI ELETTRICHE SULLA TERRAZZA

Sta per albeggiare, una sensazione di fresco e quasi di gelo. Si vede Tom, sciamannato, disteso supino su un materasso in un angolo, accanto a una tettoia sotto la quale è legata a un palo una capra con oggi gialli, da pazzo.
Ogni tanto da degli strattoni alla corda, e raschia il suolo con le unghie: forse sa che tra poco verrà sgozzata, la testa rivolta verso la Mecca, per la festa dell’Aid el Kebir.Non c’è festa senza sangue?, sembra chiedergli la povera capra.
Tom alza gli occhi al cielo e vede due rondini elettriche volare in un cielo fosforescente e blu.
All’improvviso una delle rondini ha le ali in fiamme, non si sa come sia potuto accadere una cosa del genere: lo scoppio di una malattia veramente mortale e contagiosa.
La rondine zirlisce e sbatte follemente le ali: una vera tortura gratuita, astratta e caduta dal cielo, e l’altra rondine, una specie di gemello con la faccia di Johnny si posa su un cornicione della terrazza e la guarda fare.
La compagna brucia, si contorce, si vive da sola quel melodramma e la sua fine imminente… batte le ali e tende il becco e batte le ali alla velocità di un aeroplano, proprio quel che non bisogna fare per via delle fiamme… che aumentano, crepitano, tuonano e l’avvolgono fino al becco. La rondine lancia crepando un tenero e quasi inaudibile zi-zi.
C’è un po’ di fumo e un leggero mucchio di ceneri che cade sul terrazzo in finissima polvere roteante.
Tom rovista quella polvere con la punta della babbuccia e vede che non c’è che il becco di solido e l’altra rondine vola via e poi Tom ha di nuovo un’apparizione del Diavolo aureolato da un suo caratteristico sex appeal spettrale.
In un silenzio di morte Tom sente la Voce di Lucifero tuonare nel cielo di Marrakech diventato una cupola di fuoco scarlatto-ardente.
E sorge una specie di meraviglia, di verità ultima che il discorso non può contenere, forse perché il discorso di Lucifero è incompatibile con le menzogne rassicuranti e le illusioni che ci permettono di vivere.
Solo vuota cornice di spavento.
Anche perché Tom non ha più la testa né i bronchi o i polmoni, e tuttavia sente voglia di fumare.
E Lucifero gli parla in dialetto siciliano, nella lingua dolce di sua madre vestita di nero, ma non raggiunge la testa: gli parla nel petto. E quando le tristissime parole fatali arrivano alla testa rimbalzano indietro, perché al posto della testa c’è una placca metallica.
Tom si distende supino in un angolo detta terrazza, su un materasso pataccato, lacerato, impidocchiato e incimiciato.
Ci sono lampi dappertutto.
Questa violenza che gli fa la Voce di Lucifero dura non più di due ore, che a lui sembrano però un’eternità.
Intanto, da una terrazza contigua un gruppo di ragazzi di strada avvinazzati lo sta osservando.
Tre o quattro di loro si danno di gomito: «Guardate chi c’è laggiù. La mamma mi ha detto che gli hippià mangiano i gatti”.
Scavalcano un muretto bianco di calce; gli abbassano il seroual, e messolo sottosopra se lo scopano a turno.
Si chiama “faire touiza”, una pratica di solidarietà tradizionale nel mondo rurale maghrebino caratterizzata dal principio di aiuto reciproco nel lavoro dei campi.
Poi se ne andranno vantandosene per tutti i vicoli della medina come se avessero compiuto chissà quale virile performance ai danni di uno sciumunito di kafirun, un infedele che ha osato penetrare nel loro territorio.
Sono cose che accadono quando dalle crepe di una compagine civile riaffiora la forma più arcaica di assembramento umano: la “muta di caccia” appresa dai branchi di lupi e pronta a sbranare un grosso animale, specialmente se debole e ferito.

IL DEMONE DEL RAMADAN

Il mattino, quando Bachir accompagna Tom all’hotel Huriyyat al Ganna, Pensione Paradiso delle Urì, non è bello a vedersi. Desolato e abbattuto da quei turpi eventi, si lascia condurre per le vie di una città dove aleggia il grande silenzio che segue le battaglie.
Dopo quelle ore frenetiche in cui i muezzin hanno lanciato le loro lunghe e gracchianti invocazioni nell’etere della notte, seguite dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere, e dopo le musiche, le feste, i pasti, le visite da una casa all’altra, si è installato il Ramadan.
Molti magazzini sono chiusi. Sarà difficile trovare un caffè aperto. A piazza Jamaa el Fna solo l’Ere Nouvelle serve gli occidentali venuti a prendere la loro prima colazione. I maghrebini siedono davanti a tavolini vuoti e attendono, gli occhi persi nel vuoto perché questi sono giorni in cui non si deve mangiare niente, bere niente, non fumare, non avere relazioni sessuali dall’alba al tramonto. E i muezzin si fanno sentire più del solito.
Molti sono malati e alquanto nervosi. Tutti hanno la nausea prima di abituarsi al nuovo regime fatto di digiuno durante il giorno e di festini a base di datteri di Zagora, di harira bollente e di dolci al miele durante le agapi notturne.
Stanchezza, fame, sete, calore, niente da fare tutto il giorno, non musica, una distanza ancora più grande tra i sessi durante il giorno, impressione di un tempo sospeso, arrestato e pesante come uno straccio bagnato, impressione di vuoto e di inutilità.
Questo è il clima della città nordafricana quando Tom viene accompagnato da Bachir fuori dal mellah. Bachir lo regge da un lato e Lee dall’altro.
Ha sempre quei larghi pantaloni bianchi da harem, il seroual, ma con le gambe che gli arrivavano una alla caviglia, l’altra al ginocchio, e la barba arruffata, gli occhi da maniaco e la bocca impastata.
Avanza barcollando come dopo un terremoto, uno tsunami o un luna park, e prova una sensazione di grasso gelido. Non può far nulla contro quell’allucinazione collettiva che gli pare il Ramadan.
Il sangue dei caproni sgozzati dai padri di ogni famiglia del quartiere musulmano scorre a rivoli lungo i marciapiedi e sbiadisce mescolandosi all’acqua che scivola nei tombini formando qua e là pozzanghere iridescenti fra la brina e la rugiada della notte.
Nessuna parola comune si adatta al ritmo della città, nessuna scala darà mai un senso al diavolo del Ramadan che gli è apparso quella notte.
Non sa se stava sulla scala che portava al Paradiso o se stava per andare diritto all’inferno.
Ma ecco che una piccola onda batte contro di lui, come contro uno scoglio scivoloso. Ecco Pedrita. Completamente succube, con i capelli scarmigliati, cerca di parlargli. Una bella coppia di zombi.
I due mabùl vengono portati in processione attraverso il mellah, l’Attarine e piazza Jamaa el Fna, fino a derb Sidi Bouloukate dove sorge l’hotel Huriyyat al Ganna.
Muhammad, il padrone dell’hotel che ai tempi del Protettorato aveva ospitato con più decoro ufficiali francesi, li accoglie dicendo: «Io ve l’avevo detto.»
Tom Gambino e Pedrita sembrano due cavie sopravvissute a qualche mostruoso esperimento, appena uscite dal laboratorio del dottor Test, il primario del manicomio di Berrechid, quello sulla via di Casablanca dove all’inizio della stagione turistica la polizia di re Hassan II porta tutti i mendicanti, gli storpi e i vagabondi che riesce ad acchiappare qua e là, per ripulire un po’ la piazza dei Trapassati.
E il mattino presto e nel cortile dell’hotel della città rossa si odono voci concitate e rauche.
«È il mio turno, eh, mi vogliono fare.»
«Non so, penso di sì, cioè… »
«Tu sei Pedrita ? »
«S-sì. »
«Allora sei Pedrita perduta? »
«Hmm, hmmm, ma che cazzo stai dicendo? »
«Sicuro! Tu sei Pedrita e loro ci hanno raggiunti fin qui a Marrakech.»
«Chi, gli emissari dei vescovi del Vaticano?» chiede Johnny intromettendosi con finta aria innocente.
Appena sente la parola “Vaticano”, Tom si agita furiosamente.
Un indemoniato. La testa piena di Ginn. Gli affrits! I Parassiti! Parassiti astrali.
Il trambusto sveglia tutto l’hotel e fa uscire i capelloni e le loro donne e i loro gitoni dalle camere.
«Serve il Mom per le piattole?» chiede dottor Dick affacciandosi al ballatoio con uno sbadiglio, grattandosi l’inguine attraverso uno slip nero.  «Niente Annika, dormi; l’italiano è in freak out, eppure abbiamo organizzato tutto seguendo il manuale per la riduzione del danno.»
«Gli passerà» sentenzia Otis Cook detto Lee.
«Zitto, tu!» intima Tom. E ricomincia a parlare di nazisti e di complotti.
Diventa noioso, e Lee esclama: «You took a bad trip in your own head, and now what?»
Dottor Dick scruta Tom con occhi da vero intenditore. «Mmmm, se non ha un ritorno di acido dopo, gli passerà presto.»
«Beh! – annuncia Johnny – Io vado al cafè l’Ere Nouvelle qui all’angolo a fare colazione. C’è qualcuno che vuole un bel caffè caldo? Magari Tom ne vuole un po’, con la cannella.»
«Con la cannella?»  obbietta giudiziosamente dottor Dick – «Adesso pure la cannella gli vuoi dare. Ma non dategli più niente, neanche una fanta, non lo vedete com’è conciato?»
Tra i ragazzi dell’hotel Huriyyat al Ganna, distesi sui sacchi a pelo, inizia un dibattito sulle virtù delle spezie.

ABITATO DAI GINN

E non finisce qui. Perché Tom se ne sta chissà da quanto tempo addossato con aria stremata a un muro del cortile bianco di calce.
Una macchia di sole impercettibilmente si sposta sempre più verso l’alto di quella parete troppo bianca e Tom non la smette più di delirare per tutta la mattinata di rondini elettriche e di vescovi.
Mentre i freaks discutono sull’opportunità di bere o meno caffè con la cannella, e qualcuno magnifica le virtù psicoattive della noce moscata, raccomandando peraltro di bere solo acqua in bottiglia sigillata perché quella del pozzo dell’hotel deve certamente pullulare di amebe, ebbene mentre il collettivo organizza il dibattitto, sorge il problema di Tom che, balzato improvvisamente su come un misirizzi, ora cerca di arrampicarsi sul banano che sorge al centro del cortile dell’hotel con le sue larghe foglie color verde cupo.
Non esistono solo dibattiti, esistono anche i problemi.
Annika, che da poco ha preso alloggio all’hotel Huriyyat al Ganna passa dal cortile per salire su in terrazza a spandere un paio di lenzuola tenebrose appena lavate in un secchio igienico di età indefinibile. Quando vede Tom penzolare dal banano strabuzza gli occhi e affretta il passo verso la scaletta stretta e unta, con i gradini cosparsi di polvere rossa, di mozziconi di candele, teste di pesce e bucce d’arancia.
Dal terrazzo la si sente chiacchierare con Aisha, la donna delle pulizie, e con le altre donne delle terrazze confinanti.
«Sì, oggi all’hotel abbiamo un maskun, un italiano “abitato” dai ginn»  racconta Aisha. «Probabilmente è un ginn ebreo, se l’è beccato nel mellah vi dico.»
«Ma non è che per caso qualcuna di voi gli ha fatto lo tseur» chiede Lalla Mimouna, una vicina sempre velata della quale i ragazzi dei vicoli dicono che ha i denti tutti d’oro e che non porta niente sotto, solo potenti amuleti antimalocchio nella giarrettiera.
«Non è che gli avete fatto la fattura che solo noi donne di Marrakech sappiamo fare così bene?»
La macchia di sole sul muro troppo bianco è ormai scomparsa, si sente già il gracchiare del muezzin dall’altoparlante, seguito dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere, quando verso sera Tom Gambino sembra calmarsi.

«Adesso, Pedrita, mi… mi sento già meglio.»
Da un altoparlante del minareto si leva il canto del muezzin.
«Che cosa hai detto?» domanda Pedrita, mettendosi una mano a coppa dietro l’orecchio. E Lui: «Me-meglio… adesso mi p-pare di stare un p-po’ me-meglio.»
In cortile si diffonde un odore di cannella, di kif e di peperoni farciti. E la colonna sonora è offerta dalla chitarra di Johnny.

Papà, la nostra bambina se n’è andaaata,
come ha potuto farci una cosa simile?

«Non ditemi che adesso quei na-nazisti si sono me-messi a preparare il cuscus… »  bofonchia Tom dando inquieti sguardi in giro.
Chissà se si è davvero calmato, non per via delle smorfie che ancora fa con la faccia, ma perché potrebbe facilmente subire qualche altra crisi. Un temibilissimo “ritorno di acido”, come ha paventato Dottor Dick.

TOM FA UNA PORCATA

Tutti sorvegliano Tom con la coda dell’occhio, ma egli è più scaltro dei freaks.
Aspetta che Muhammad esca per andare alla moschea, e poi scappa via.
Dove va? Va a denunciare il complotto degli ultimi nazisti a Marrakech al commissariato di Polizia di piazza Jemaa el Fna.
Racconterà di essere stato sottoposto al-lavaggio-del-cervello-da-una-banda-di-nazisti. Dirà anche che Johnny, il suo amico con in testa un berrettino da paggio, è un agente-dei-servizi-perché-sa-troppe-cose.
E aggiunge anche di sospettarlo di essere andato a letto con Pedrita.
Il commissario Driss ben Ali, conosciuto sulla piazza con il soprannome di Rambo, sbraita qualcosa in un linguaggio gutturale tipo “Kurghss! Karrà! Karra! Andate, andate” ai poliziotti anch’essi strafatti o stoned per il digiuno, il kif e tutto quel ramadan.
Gli sbirri partono di malavoglia verso il mellah con le camionette bianche e un manipolo di merdah. Dal francese “merde“, i merdah sono guardie ausiliarie armate di grossi bastoni in caucciù chiamati zarouatà. Sono l’incubo del popolo minuto, specialmente dei venditori abusivi.
Giunti nel mellah, a casa di Lee, gli sbirri sequestrano tutte le pipe da kif: è inutile cercare di nasconderle nei calzini, ti frugano dappertutto.
Hanno circondato l’intero quartiere del mellah tra il fuggi fuggi generale, tra hippies tedeschi urlanti che cercano di nascondere lo shit, piccoli olandesi in mutande, americani disertori del Viet Nam che saltano dalle finestre perché non hanno il permesso di soggiorno in regola.
Le donne del quartiere salgono sui tetti a modulare iulii e zagharid come nel film La battaglia di Algeri.
«Documentacìon, bandes de cons, merde, quoi!»
E sulla porta di casa appare Lee, l’americano barbuto grande e grosso, che tuona: «O.K. man, le passeport… C’est ça que vous voulez?… le passeport!»
In Nepal, pochi mesi prima, quel colosso ha già resistito una settimana a un generale nepalese e a un’intera armata gurkha che, come già detto, lo volevano sloggiare e buttar giù dall’Annapurna.
Si diffonde la voce che Bachir, il nero con gli occhi di leopardo, è stato arrestato e condotto dai mastini al commissariato della piazza dei Trapassati. Dicono che dopo averlo spogliato nudo e appeso a una trave con la testa in giù e il culo sollevato, gli hanno dato tanti colpi di zerouatà sotto la pianta dei piedi, affinché provasse molto dolore ma non restassero segni.
Si sa che i colpi dati alle piante dei piedi si ripercuotono come scariche elettriche direttamente al cervello e ti lasciano con un gran mal di testa.
Uno sbirro burlone propone anche d’infilargli nel culo il collo di una bottiglia di Coca Cola.
«No-o-o-o» fa il commissario Driss ben Ali, e scuote il capo come a sottolineare il diniego.
«No! Balèk! Attenzione, lascia stare… in questa vicenda sono coinvolti degli occidentali, che potrebbero riferirlo ai giornali.»
Sono i tempi della Morte, della Droga e della Tricontinental con il progetto guevarista di creare dieci, cento, mille Viet Nam. E tra gli studenti comunisti della città rossa, non ancora convertiti all’islamismo, si mormora di giovani ribelli mai più rivisti tra i banchi dei licei, prelevati nottetempo e fatti scomparire nell’Oceano Atlantico, o forse nella polvere del deserto.
Alcuni abitanti d’Hiroshima hanno lasciato la loro ombra atomica sui muri della loro città al momento dell’esplosione. Resta più del loro passaggio che di quello di Bachir con gli occhi di leopardo. Non resta nessun segno, neanche uno straccio nell’aria, né l’odore acre e un po’ ambrato dei calumet di kif che facevano sognare intere Baghdad e Andalusie e Sheerazade.
Intere vite di energia fluiscono in pochi istanti. E il resto è silenzio.

MA LA GENTE CHIACCHIERA

Naturalmente la voce di quanto accaduto nel mellah si diffuse in un lampo in tutti i quartieri, anche i più lontani, della città rossa. Il tam tam arabo. Si diede corso alle chiacchiere. Cos’è veramente accaduto? E soprattutto, cosa mai aveva spinto un uomo di così belle speranze come Tom in un così infimo stato e a un gesto così infame come quello di denunciare agli sbirri i propri compagni? Be’, la risposta per il commissario Driss ben Ali, amici, è in una corta e tremenda parolina, in due sole sillabe, usate e abusate: “Droga!”
Per Muhammad, invece, se le cose erano andate storte non poteva che essere colpa dei sionisti.
Convocato anche lui in Commissariato, di cui era confidente, come lo erano tutti i gestori degli alberghi della città rossa, continuava a raccontare la storia di Tom ai poliziotti, arricchita di particolari inesistenti o francamente inventati.
Lo stesso faceva con i vicini e con chiunque volesse sentirlo nelle caffetterie di piazza Jamaa el Fana: ogni volta raccontava una versione diversa.
Dottor Dick gli diceva: «Ma esisterà pure una verità obiettiva!»
«Nà», diceva testardo Muhammad «la verità è come uno sente, e io ti dico che tutto questo è successo perché i sionisti gli hanno fatto lo tseur, una fattura.»
«Ma no, si è trovato l’acido nel bicchiere, forse non era pronto.»
«Sì, ti dico: le donne dei sionisti hanno preso dei pezzetti d’unghia, dei capelli, dei semi di quella pianta che si chiama sdak jmil, mandibola di cammello, la datura con quei fiori bianchi, oblunghi, a forma di labbra di cammello, non so se hai presente… »
«I semi di datura, quei piccoli semi neri? »
Muhamad rotea le pupille, in finto atto di resa.
«E che ne so io di quello che certe donne usano per preparare i loro intrugli, solo Allah lo sa.»
Be’, la conclusione era che al pover Tom qualcuno, o più probabilmente qualcuna, aveva fatto lo tseur e glielo aveva messo nella fanta.
Muhamad ammicca, tra il dire e il non dire, e non dice altro.
Difficile, quasi impossibile farlo parlare altrimenti che a mezze parole. Fa capire di sapere molte cose sulla pratica dello tseur e della magia nera, ma resta irremovibile, non vorrà mai dire altro che frasi allusive, informazioni che non si possono verificare.

Così si viveva a Marrakech, come fantasmi! Chi conosce il Marocco (gli stranieri che vi hanno vissuto molti anni, con una punta d’ironia vengono detti “Anciens combattants“, ed è tutta gente un po’ speciale) sa che laggiù niente è mai certezza, e che ogni verità si carica di vuoti, di sussurri, sottintesi, leggende e  affabulazioni.
Qui non bisogna mai discendere al fondo delle cose, perché il reale non prova mai niente di definitivo, sicché tutto sembra evolvere unicamente nello spazio del verbo e del pensiero.
Non predominano le linee rette e squadrate come nelle nostre piazze e i nostri grattacieli a forma di ascia rovesciata: ma le linee curve, i ghirigori, gli arabeschi, che a guardarli più che idee suggeriscono l’incastro di sogni in infiniti altri sogni.
È forse quando ci si accorge di sognare che ci si sveglia veramente. Ma quel che voglio dire è che in Marocco urtare di fronte a fatti, cifre, dati apparirà ben presto una impertinenza, un vezzo da “khafir” occidentale.
La vera storia di quanto accadde a Tom, forse si trova nei verbali degli interrogatori, negli archivi della polizia di re Hassan II. Fatto sta che dopo aver passato un paio di giorni nelle prigioni della città rossa, con l’idea di avere una lampadina nel cervello e la convinzione che nelle sue disgrazie ci fosse lo zampino dei vescovi, se non della magia nera di Marrakech, Tom raccolse il cervello, il borsello con il dentifricio e Pedrita, e partì da Marrakech, quella tetra palude, con il pesante passo di un indiano ebbro di danza.
E, che io sappia, non è mai più tornato all’hotel Huriyyat al Ganna, dove ci lasciò Johnny in eredità, raccomandando a Lee e agli altri di prendersi cura di lui, e soprattutto di non combinare anche al suo amico qualche brutto scherzo.

LA CARTOLINA

All’hotel Huriyyat al Ganna, a pensione da Muhammad e dalle Urì, tutto sembra essersi rinchiuso sull’assenza di Tom come l’acqua scivolata sulle piume di una papera. Al punto che quando, due mesi dopo, ci arrivò una sua cartolina, ci fu un momento di attesa, di sorpresa e quasi di fastidio.

«Una cartolina? E di chi è?»
«È di Tom che ci scrive da… da Sidney» squittisce Johnny.
Si era fatto vivo da tanto lontano! Ora si trovava in Australia dove faceva molti bagni, così scriveva, pesca subacquea.
Annunciava che stava per aprirsi l’era spaziale, e che avremmo tutti trovato fortuna emigrando sulla Luna.
E ci dava notizie di sé: “Mi sono convertito all’Islam perché permette la poligamia”.
Di sbieco, a un lato della cartolina raffigurante una riproduzione del “Giudizio universale” di Hieronymus Bosch, aveva aggiunto un P.S.: “Paranoia quasi completamente scomparsa”.
Fu quel “quasi” che ci fece rabbrividire.
Le ultime sue parole, scritte a lettere maiuscole, contenevano i saluti e una raccomandazione rivolta a tutti noi: “CIAO COCCHI, METTETE LA TESTA A POSTO”.
«Ecco finalmente delle parole chiare» esclamò Johnny.

Opera di Anna Allworthy

Mezzanotte a Marrakech – Prima parte

Tom Gambino era un leader dei refrattari, un capellone sempre pronto a menar le mani, la faccia congelata in una smorfia perenne contro il “Sistema”. Oggi è sbarcato nella città rossa e si fa chiamare mister August Strindbnerg per depistare i servizi segreti. Gli sbirri, così crede lui, lo seguono da Milano – dov’è conosciuto come il Profeta bianco per aver guidato le manifestazioni contro la Bomba atomica, vestito con pantaloni bianchi in fibra di juta a zampa d’elefante, regalatogli dal commesso froscio di un negozio di abiti beat.
Il Profeta, nato durante la guerra, era di qualche anno più anziano dei suoi giovanissimi seguaci, e aveva anche cercato di costruire una tendopoli beat alla periferia della metropoli lombarda, elegantemente battezzata dai giornali di regime Nuova Barbonia, poi rasa al suolo con i lanciafiamme del S.I.D., Servizio Immondizie Domestiche del Comune di Milano.
Fuggito in Nordafrica con la compagna, la bionda Pedrita con una toppa su un occhio, e l’amico Johnny con in testa un cappellino da paggio, lo vediamo sedere solo in un caffè arabo proibito alle donne e ai bambini. Pur non capendo una parola sta studiando i gesti delle persone.
Le notti africane sono calde, febbrili. E ci sono tutti questi adolescenti refrattari che rollano spinelli e indossano pantaloni troppo stretti e magliette regalate loro dagli stranieri come se fossero trofei, scalpi. C’è qualcosa d’inaudito nell’aria e troppe cose nuove da ordinare nella mente.
A inquietarlo sono soprattutto gli uomini incappucciati seduti ai tavoli, chini come monaci in un refettorio, con in mano un cucchiaio di legno e il coltello nascosto nei calzini.
Gli emissari della CIA e del Mossad inviati a Marrakech per sorvegliarlo fanno finta di mangiare l’harira: una zuppa calda di lenticchie e vermicelli, una purea liquida, resa acidula dal pomodoro, profumata di coriandolo, bollente e molto piccante. Si puliscono il grugno con il rovescio della mano e lo fissano volgendo uno sguardo verso di lui, poi le pupille glissano come palline di mercurio e fingono di soffermarsi ad osservare il grande ritratto del re Hassan II che troneggia a una parete, sull’alto della cassa. Schizzi di zuppa e sguardi obliqui come coltellate.
Ma come cazzo hanno fatto a raggiungerlo fin qui nella città rossa? Dal giorno in cui Tom Gambino ha inventato la Contestazione Globale, invitando i giovani a lasciare la famiglia, la scuola, il partito e l’oratorio, e costretto De Gaulle a dare le dimissioni, i servizi lo seguono ovunque. E ciò che in un primo momento gli era apparsa calma e apatia orientale, ben presto gli sembra una maschera, dietro la quale avverte un’irrequietezza, un’eccitazione anzi, che egli riesce a spiegarsi molto bene. “Vogliono farmi fuori, per ordine del Vaticano e dei poteri occulti, ecco tutto”.
Tom esce precipitosamente dal caffè arabo. E per la strada tutto è cosi differente, diverso da prima, ci deve essere qualche cosa. Un passante ha uno sguardo cosi penetrante, forse è un detective. Poi passa un cammello che pare ipnotizzato, è come un cammello di gomma, come se fosse mosso da un meccanismo.
C’è tanta gente per la strada, ma non si vedono donne: solo uomini e cammelli, forse c’è qualche macchinazione, una realtà parallela di cui solo lui ha scoperto l’inganno. Tutta la gente fa rumore con gli zoccoli e lui camminando controcorrente di questo fiume umano ha la sensazione (niente di erotico, o forse sì) che ognuno abbia uno zob e che tutti questi zob, mentre li supera, siano allineati come un oggetto prodotto in serie ritmicamente impresso da uno stampo.
Deve esserci dietro qualcosa di non naturale. Gli uomini sono “mischiati”, essi sono “comparse”, hanno tutti un aspetto non naturale. E le insegne sulle case sono storte, le strade della medina hanno un aspetto così poco rassicurante.
Il minareto della Kutubia, tozzo e quadrangolare, sempre visibile da ogni punto della piazza Djemaa el Fna, l’Assemblea dei Trapassati, si erge nella notte sotto la mezzaluna come un grande indice ammonitore. Una volta qui il Sultano faceva esporre sui ganci alle porte della medina le teste mozzate ai ribelli, messe sotto sale e avvolte in carta stagnola luccicante.
Ovunque lo sguardo di Tom si posi, sorgono gli inevitabili riflessi della colpa o dell’innocenza. C’è tanta violenza invisibile, nell’aria. E ogni minimo fruscio al passaggio di una gellaba o di un paio di pantaloni produce nello straniero come un attrito, un fremito che pare comunicarsi a tutta la piazza dei Trapassati. Ginn, caproni, satiri e tori. Non si vede una donna in giro. Solo ginn, caproni, satiri e tori. La cintura della Bestia! Cose da uccidere l’infanzia e l’innocenza in un attimo.
Nella piazza sale da sotto i tavoli e i piedi caprini di quelle “comparse” una polvere rossastra che odora di sangue coagulato, di sterco d’asino e di paglia sminuzzata. La polvere e i vapori diventano così spessi al crepuscolo, nell’ora della grande frenesia, che le cose assumono un’aria fantasmagorica da incubo.
Improvvisamente cala il buio e in piazza si vedono solo forme bianche circolare silenziosamente, non collegate alla realtà che dal rumore dei tamburini lontani, sempre più isolati e fiochi. E quando la luna sorge sulle sagome nere frastagliate delle palme sbilenche dei giardini della Kutubia, le muraglie della città rossa si bagnano di un etereo chiarore.
Tom non può camminare per le strade della medina senza occhieggiare ogni singolo pedone. Ecco che un uomo in gellaba gli passa accanto in un risucchio d’aria e lo fissa con sguardo penetrante: ha un volto bianco incorniciato da una barba a mezzaluna e senza baffi, ma forse non è altro che il pulviscolo, l’efflorescenza di un minareto enorme, tozzo, radicale.
Chissà cos’era quello sfavillìo negli occhi, quel voltaggio nelle tempie. Certamente era il capo di quei monaci che soli, di notte, quando in strada più non si vedono né le donne né i bambini, schiumano i vicoli e la piazza deserta, scomparendo come fantasmi alla svolta di un derb. Dove, nell’Islam, non esistono veli e vicoli tortuosi?

Finalmente arriva all’hotel Huriyyat al Ganna, Pensione Paradiso delle Urì.
Sotto l’arcata buia di un vicolo, accanto alle tenebre bollicanti di un orinatoio pubblico, vede come in una nebbia Johnny e Pedrita. Li sente dire: «Ma dove sei stato, ti cercano tutti.»
Quando si apprestano ad entrare nel loro albergo, la più lurida tana del Nordafrica, un uomo nero, il giovane Bachir, esce dall’orinatoio adiacente l’hotel Huriyyat al Ganna e, stringendo al petto una rosa sporca di polvere, chiede: «Vous etes spagnol? frances? Taliani? Ah, taliani spaghetti caffè ristretto cazzo duro tu qui trovato posto bueno per fottere.»
Gisela lo fissa stralunata, a Johnny si rizza il pelo sul collo; e Tom, agitando le mani come per scacciare un insetto fastidioso, Belzebù, o un satiro peloso, l’essere più lubrico che abbia mai visto, scuote la testa: «Nà! nà! io qui in missione speciale mica sono venuto per gustare il primitivo.»
Un discorso davvero presuntuoso e duro. Tra acri odori.
Poi, si rivolge a Pedrita che lo segue incespicando in una lunga tunica stampata a fiori enormi, tremendi: «E cammina, pirla!» Lui è fatto così, è molto geloso, anche perché è di origini siciliane.
Bachir si tocca l’inguine con gesto volgare, plebeo. E Johnny sorride.

UN FRATELLO DELL’AMORE ETERNO

Lo spettro di quello scocciatore di Bachir con in mano una rosa sporca di polvere non si è ancora dileguato, quando Tom incontra Otis Cook detto Lee, un hippie barbuto ex Hell Angel’s, anche lui appena sbarcato nella città rossa, che lo invita a un acid party.
«É un’occasione meravigliosa!» esclama Johnny.
E spiega che Lee, che somiglia a Rasputin, ha gettato alle ortiche il suo giubbotto con sopra il teschio con l’elmetto e le ali, e si è convertito alla cosa psichedelica. Ora proviene dal Nepal da dove lo hanno espulso; c’è voluta una unità della Brigata Gurkha per sbatterlo giù dall’Annapurna perché voleva edificare con un gruppo di fuggitivi un tempio al Sole proprio dove il governo preparava alberghi per i turisti.
Ora, battuto, sbattuto e beato, si proclama King of hippies; ed è passato a far visita ai freaks dell’hotel Huriyyat al Ganna, dove fa girare aggratis un ottimo acido. Ha affittato una grande casa, un riad nel mellah, il quartiere ebraico della città rossa, ed è sempre pieno di dollari, che va a ritirare all’Americ Express, seguito da una torma di adepti.
Tom ne è un po’ geloso, e i ragazzi dicono che Otis Cook detto Lee è un membro di The Brotherhood of Eternal Love: la “mafia hippie” dice l’ FBI, a caccia di un’organizzazione di consumatori e distributori di hashish e LSD che opera in tutto l’universo mondo e organizza baccanali a partire da Orange County, in California.
L’LSD è una nuova droga così euforica, espansiva e visionaria, ma anche un’impietosa pietra di paragone per diagnosticare i divorzi culturali tra chi è out e chi è in, come un arrosto di porco tra un cristiano e un musulmano, o un antenato cotto a puntino tra un cannibale e una suora missionaria.
Lee deve essere certamente un amico di Johnny; e anche di dottor Dick, un ragazzo olandese che va in giro in un caftano color albicocca suonata, agitando un lungo bastone stravagante comprato al moussem o fiera di Sidi Moulay Brahim, il re dei ginn.
Non è un vero dottore e vuole diventare un sufi. Prima di convertirsi all’Amore Universale, alla Pace Perpetua e ai Fiori Sempre Freschi è stato infermiere diplomato e porta con sé bende, tintura di iodio per le sbucciature e tanto tanto Mom per le piattole.
«C’è n’è per tutti, ragazzi, offre la nostra associazione Brotherhood of Eternal Love.»
Volendo può trapanarti il cranio per attivare la ghiandola pineale e far salire su la Kundalini, ma Tom è un po’ scettico: dice che, nelle sue condizioni di Wahnstimmung, cioè umore delirante, l’ultima cosa di cui ha bisogno è un buco in testa.
Ad ogni modo, dottor Dick è anche capace di cavarti un dente cariato o inciderti un bubbone per pochi dhiram.
A Marrakech la vita non è cara. E tutti sono invitati all’acid party.
Così una sera di Ramadan Tom si avvia con Pedrita verso la casa in cui Lee abita con la sua corte di freaks nel mellah, il quartiere ebraico. Per l’occasione ha comprato al suk un paio di babbucce gialle, un gilettino arabescato e un seroual, quei larghi pantaloni arabi da harem legati con un laccio alle caviglie. Ecco Tartarino in Africa.
«Nà, io non vengo » annuncia Johnny quando lo vede conciato a quel modo. «Nà, nà, sul serio…»
Muhammad, il padrone dell’hotel, disteso su una stuoia di rafia sul ciglio della strada a prendere il fresco sulla porta, accanto a un mucchio di passaporti di tutte le nazioni, o forse di nessuna, li osserva con curiosità.
«Asciumà! che vergogna» borbotta tra i denti, sgranando il suo rosario venuto dalla Mecca. «Europei tutte puttane, tutte finocchie, tutte sioniste! »
Dottor Dick insorge, facendo roteare il suo lungo bastone stravagante.
«Ehi, fratello! Qui ti paghiamo 4 dhiram a cranio e tu cosa ci servi, solo insulti e cazzate! Ma che razza di albergo è?»
Ci deve essere qualche cosa. Tom sbuffa, e seguito da Gisela avvolta in una specie di camicia da notte wagneriana, si avvia tutto penzolante all’appuntamento nel mellah.
Nella casa di Lee si svolgerà un acid party, un rinfresco piuttosto elettrico a base di kif, LSD e funghi sacri messicani portati da dottor Dick.

VERSO IL MELLAH

C’è da attraversare, ancora una volta, la piazza dei Trapassati; poi imboccare l’Attarine e addentrarsi in un dedalo inestricabile di stradine, di venuzze umide serpeggianti tra un muro e l’altro: corridoi coperti da tettoie di paglia da cui pendono miriadi di lampadine policrome: lunghi corridoi simili a sogni ramificati all’infinito e che vanno a perdersi nella massa confusa di case senza finestre e mura cieche oltre le quali non sai mai se si trovano giardini, scuderie, topaie o la tomba di qualche santo marabutto.
A poco a poco, Tom e Pedrita si trovano in uno spiazzo erboso con in fondo una fontana arabescata, dove gli artigiani hanno messo ad asciugare su tralicci di canne di bambù le lane colorate, appena tinte, fumanti di tinozza.
Tom ferma un ragazzo blu, una specie di Lucignolo in gellaba a righe metà gialle e metà fuksia e con in testa una casquette d’importazione con la scritta Hong Kong. Temendo di essere finito in uno dei soliti vicoli ciechi dell’Universo, chiede informazioni sul vicolo da imboccare a quel punto per arrivare nel mellah.
Il ragazzo gli risponde: «Moumtà, più in là.» Li scruta con attenzione e si offre di vendere loro del fumo o shit. In realtà si tratta di henné trattato con il caldo ferro da stiro della mamma per appiattirlo in bastoncini e farlo sembrare hashish.
Tom, che non è un turista sprovveduto, mangia la foglia e ringraziandolo cavallerescamente per l’offerta gli spiega, ancora una volta, come ha già fatto con Bachir, che lui è nella città rossa in missione speciale, non per gustare il primitivo.
Il ragazzo blu gira i tacchi, non senza voltarsi dopo pochi passi per gridargli dietro: «Sale juif.»
Seguitando a andare avanti e allungando il passo, con più impazienza che voglia, comincia a vedere caftani neri, papaline unte, volti lividi e smorti o con le guance colorate di un rosa di bambola. “Ma allora ci sono ancora gli ebrei! Non è vero che sono tutti emigrati in Israele o il Canada dopo la guerra dei sei giorni!”
Anche le stesse mercanzie, un frutto, un’arancia, un limone, una candela, i sacchi di zucchero, sembrano avere un’aria sporca e malata; e andando ancora, sempre per lo stesso derb, s’accorge d’essere ormai entrato nel mellah. In un mellah di altri tempi, forse è solo un’allucinazione.
Prova un certo ribrezzo a inoltrarsi, ma lo vince e controvoglia va avanti; ma più che s’inoltra, più il ribrezzo cresce, più ogni cosa gli dà fastidio. I cortili che intravede popolati da uomini, donne, bambini e animali gli rappresentano figure strane, deformi, mostruose. L’annoia un vegliardo cieco, seminudo, occupato a far girare una ruota nel fondo di una botteguccia illuminata dai fuochi verdi e gialli del rame che sta lavorando.
Lo stesso scrosciare delle sue babbucce nuove o il ticchettio che Pedrita fa camminando al suo fianco, hanno per il suo orecchio un non so che di odioso.
E andando giunge finalmente in fondo a una stradina improvvisamente buia.
Bussano a una porticina bassa e stretta, e Bachir li fa accomodare. “Ma allora è una trappola?” pensa Tom. Certo, Bachir ha bellissimi occhi di leopardo, è un tipo interessante eccetera. Ma quella situazione frocia è troppo per Tom.
Percorrono uno stretto corridoio e sbucano su un patio, con delle camere che si aprono tutt’intorno.
«Madame aussi! Tu portata anche signora bona bionda, tu forse volere divertire fack fack e nick nick ancora molto!» esclama Bachir, facendogli l’occhiolino. Clik!
“Ci siamo, pensa Tom. É il segnale convenuto”.
Dando inquieti sguardi in giro si dispone a varcare la soglia del patio, quando Bachir, che è preposto a questo ufficio, «Cinque dhiram!»  esclama. E, vedendolo tentennare e arrossire per la collera, gli ricorda, con sorriso indisponente, che tale prescrizione dipende dall’abitudine degli acid party organizzati da Lee: ognuno contribuisce con qualche dhiram, oppure porta il pane, la menta per il tè, gli acidi.
Certo, non è l'”altolà!” del Cherubino con spada fiammeggiante che impedisce l’accesso in giardino e fa gelare il sangue nelle vene, ma quella cosa gli secca, non gli proprio va giù. “Come, io debbo pagare per partecipare alla festa? Ma questi sono dei barbari, che invito è? “.
Fa la faccia scura, paga con aria infastidita, ed entra in una sala fiocamente illuminata da decine di candele, dove numerosi freaks, accovacciati su stuoie di rafia, tappeti e cuscini, si preparano al viaggio tra bastoncini d’incenso che bruciano, nuvole di kif dall’odore acre e un po’ ambrato, e i suoni bongo bongo bongo butù butù butù di alcuni irsuti giovanotti biondi che suonano tamburi e derbukà.

SBALESTRATO IN UN ALTRO MONDO

Now now now is the time time
time to be be be aware…

Nugoli di freaks, con i capelli irsuti alla Cristo, la fascia cingi-testa e i campanellini, sfarfalleggiano per la stanza: entrano, escono, battoni i piedi nudi sui tappeti.

… and flowing slightly from his toes
psychedelic nations fly.

Gli si avvicina una ragazza con i fiori nei capelli e, con aria da gattina, gli fa: «Chi sei, chi siamo, cosa stiamo facendo qui, siamo qui per fare la guerra o siamo qui per fare l’amore?… Ti va di ballare?»
Pedrita ha un tuffo al cuore e la guarda con sospetto.
«Sgomma», le dice. E, afferrata la mano del suo compagno, lo fa sedere accanto a sé, a gambe incrociate su un cuscino.
Tom si guarda intorno e osserva alla parete alcuni poster.
Sono inchiodati al muro con delle puntine di acciaio un po’ brunito e sono stati portati da Lee di ritorno dal suo viaggio in Nepal.
Sono dei buddha circondati da arcobaleni, dei bodhisattva seduti in meditazione su corolle di fiori di loto, bianchi dischi lunari e gialli dischi solari, troni di diamante sorretti da quattro leoni, aureolati da lingue di fiamme nere.
E nota le croci ruotanti che da un lato e dall’altro ornano i troni sfolgoranti. Pavritti e nirvritti. Evoluzione e involuzione.
La svastika ruotante verso destra rappresentava il flusso evolutivo dell’Universo, il sorgere o l’apparire della coscienza come reazione al sorgere dei sensi. Quella ruotante verso sinistra rappresentava il complementare flusso involutivo, il completamento, il ritorno della coscienza a sé stessa, al Sole Nero e al suo vuoto splendore.
Queste spiegazioni le si possono leggere studiando i libri che i freaks si portano negli zaini.
Ma a Tom non importa un fico secco del severo studio delle filosofie orientali, dello yoga o del Libro tibetano dei morti. Lui è un uomo d’azione, deve vendicarsi di tutti i padri e i professori del mondo e vuole fare tabula rasa, strappare tutti i libri e diventare sempre più ignorante, ridiventare innocente.
Certo vuole conoscere l’amore di cui Lee e i ragazzi vanno parlando in tutti i pisciatoi della Galassia, ma ha la paura di abbandonarsi e di fidarsi di un’altra persona. Teme l’intimità, fin da piccolo. E questa storia dell’avvento dell’Età dell’Acquario e l’elevazione del Nuovo Piano di Coscienza, di cui gli hanno parlato Lee e il dottor Dick, non lo convince, non molto.
Così, quando nota quelle svastike, ritirato in sé stesso, si stilla il cervello, perché mai le svastike gli erano state messe sotto gli occhi. Poi, dopo ha dato fondo a tutte le risposte possibili all’atroce questione, si gira verso Gisela e bisbiglia: «Uhm… c’è aria di cospirazione… questi sono nazisti.»
Del resto, quel Lee, il padrone di casa, non assomiglia forse a Charles Manson, l’assassino seriale statunitense divenuto celebre per essere stato il mandante del massacro di Sharon Tate e dei suoi amici a Cielo Drive? E Johnny, perché non ha voluto partecipare anche lui all’acid party?
Così, nel fumo del kif, il suono dei tamburi e tutte quelle luci policrome, vive la prima illuminazione o abbaglio di quella notte di Ramadan.
Proprio in questi termini: come se un estraneo, forse uno di quei migliaia di demoni o ginn che secondo la gnosi di Marrakech abitano fra cielo e terra, gli sia entrato nel cervello e stia usando la sua bocca.