Le vittime

Quel figlio di puttana.

Avrei potuto alzarmi e ignorarlo, girarmi dall’altra parte e fare come se non esistesse, così come faceva più dei tre quarti della gente che lo incrociava sulla propria strada.

Erano le sette e mezzo di mattino. Quel tipo di orario in cui non hai la minima voglia di parlare né tantomeno che ti venga rivolta la parola. Nello stomaco una dose tripla di caffè. Sulla panca in cemento della stazione combattevo l’urgenza delle palpebre di calare come la serranda del kebabbaro vicino a casa quando scoppiava una lite tra egiziani esagitati da Ceres e fumo di copertone. Avevo dormito a malapena. L’intera nottata era passata con me chino sulla scrivania armato di evidenziatore e matita a ripassare immerso in un groviglio di libri, appunti e dispense. La sola fonte di energia a tenermi accesi i neuroni era l’ansia di dover dare uno degli esami più complicati del semestre. L’ultimo prima della tesi e del fanculo all’università.

E come ogni giornata difficile, non poteva che iniziare di merda: il treno era in ritardo e mi ero dimenticato a casa le cuffiette. L’unico modo rimasto per intrattenermi era dare fuoco a un drum dopo l’altro e controllare di minuto in minuto l’orologio appeso alla tettoia della banchina.

A popolare quel luogo fatto di attese, rimandi e corse dell’ultimo secondo, la calca di pendolari e studenti che si trascinava appesantita dalla quotidianità con la faccia di chi dice sempre che va tutto bene. Un miscuglio di malinconia e stoicismo che aspettava di essere stipato sui vagoni verso la propria meta.

«Ce li hai due euro?»

Impegnato com’ero a osservare il posto e succhiare feroce dal filtrino della tabaccata, la voce mi arrivò all’orecchio a stento, lontana, come quando cercano di svegliarti ma sei nel pieno della trama sconclusionata di un sogno.

«Due euro per il biglietto».

«Non ho moneta dietro, solo carta» risposi in automatico senza prestare attenzione.

«Anche cinque euro vanno bene».

L’insistenza sfacciata mi scosse dall’alienazione mattutina. E la risatina che seguì la frase mi diede così sui nervi che mi voltai per dare un aspetto concreto a quella voce.

«Fammi spazio che ho bisogno di sedermi».

Neanche il tempo di obiettare che aveva già spinto la tracolla coi libri premendomela contro la coscia e stava per appoggiare il culo rinsecchito sulla panchina.

«Aaah finalmente! Sono sveglio da tutta la notte» disse.

La maglia lurida di macchie di sudore incrostate e chissà che altro, la piazza pelata sul cranio dai cui lati scendevano ciocche unte e le braccia smilze e venose, coperte da strati di sporcizia e adornate dai segni bluastri dei buchi come a formare una costellazione.

Mi guardò con un sorriso cordiale di denti putrefatti e mancanti.

«A chi lo dici…» dissi pentendomi mentre ancora le parole mi uscivano dalla bocca.

Ecco perché, pensai. È per questo cazzo di modo di fare. È per questa faccia da bravo ragazzo e la totale incapacità di mandare a fare in culo qualcuno che sono un magnete per tipi strambi. Che sia al bar, in piazza o a una fermata. Tossici e ubriaconi, barboni sudici e scoppiati di ogni tipo mi si accollano come la merda sotto le suole.

Forse è una specie di dono divino – o maledizione – e invece di farmi il culo a biologia avrei dovuto buttarmi nel sociale e lavorare con questi poveri stronzi.

«Guardali,» il fetore del suo alito mi corrose le lenti degli occhiali, «come si affannano per cose inutili. Sono patetici. Rincorrono un premio che non li soddisferà mai. Io invece ho scelto di essere libero. L’unica preoccupazione che ho è procurarmi la prossima spada e farmi. Così come nell’antichità gli uomini non dovevano pensare ad altro che a trovare una preda da cacciare per sfamarsi».

Che cazzo, ci mancava solo l’eroinomane alla stazione che parla di scelte di vita. Il remake scarso di Trainspotting.

Mi feci un po’ più in là per scampare un minimo al tanfo ma non funzionò. Ripiegai sulla sigaretta per tenere la bocca occupata e non dargli corda.

«Tu sei uno studente, vero? Sì, si vede che sei un tipo sveglio. Lascia che ti racconti una storia».

Non risposi. Ero in dubbio. Volevo alzarmi e lasciarlo solo nel suo delirio. Ma aspettare in piedi l’arrivo del treno con la stanchezza che avevo addosso mi pareva intollerabile. Il male minore era ascoltarlo. Un modo come un altro per distrarre il cervello dall’incombenza dell’esame.

«Sentiamo» dissi.

Si strofinò le croste che gli marchiavano la faccia e tirò su col naso.

«Questa cambia tutto, capito?»

No, non avevo capito. Annuii.

«A quanto pare quando ero piccolo mio padre mi molestava. Non lo faceva per cattiveria. Poveretto. Il problema è che mia madre era frigida e non gliela smollava mai. Mai. Lei fumava Diana blu e lo guardava male. Credo che fossi la cosa più vicina alla sua fica a cui potesse ambire. Perché ero uscito da lì, ovviamente».

Fece una pausa a cercare la mia approvazione.

Porca troia. Quelle sinapsi bruciate dalla roba avevano subito preso una china imprevista.

Annuii di nuovo dissimulando la sorpresa come si parlasse dei risultati in campionato dell’Atalanta.

«Non mi ha mai sodomizzato o porcate del genere, eh. Ma quando la sera ci mettevamo sul divano a guardare la tele insieme, tirava fuori il cazzo e se lo menava mentre mi accarezzava la schiena e la testa poggiata sulla sua coscia. Non ci vedevo niente di male: credevo fosse un gioco. Il suo modo di coccolarsi. Visto che mamma non lo faceva».

Allungò la mano ossuta indicando la sigaretta e gli passai il mozzicone con gli ultimi tiri rimasti. Lo prese tra i polpastrelli di indice e pollice e succhiò famelico fino a scottarsi le labbra per poi schiacciarlo sotto gli stivaletti logori.

«Il problema, è che, una decina di anni fa, quando convivevo con la mia compagna, che ai tempi aveva già un figlio di quattro anni fatto con il suo ex, è successa una cosa del genere. Me ne stavo a cazzeggiare in salotto, il bimbo addormentato di fianco a me e io che giocherellavo coi suoi capelli tra le dita. In quel clima tranquillo ho pensato: perché no? Perché non farmi una bella sega rilassante? Mi segui?»

Guardai verso l’orologio per mascherare l’espressione di ribrezzo e vidi che mancava poco all’arrivo del treno.

«Mmh mmh» risposi.

«Ma proprio mentre me lo menavo su e giù con cautela, attento a non svegliare il piccolo, quella rientra in casa dal lavoro. E va fuori di testa. Mi dà del pervertito, del pedofilo, mi caccia di casa e dice che se mi avvicino di nuovo mi denuncia. Quella bastarda poi ha pure sparso la voce. Mi ha fatto passare per uno stupra bambini. I miei amici, i parenti, i conoscenti, tutti. Tutti hanno troncato i rapporti. Mi schifavano. Così un giorno ho detto: fanculo, sai che c’è? Che la smetto di sbattermi e preoccuparmi. E da quel momento ho iniziato a farmi. A farmi di brutto.»

Il capostazione annunciò dall’altoparlante l’arrivo del treno per Milano pregando di allontanarsi dalla linea gialla. La folla, al contrario, si avvicinò come un branco di tonni tra le correnti oceaniche.

Il tossico si alzò, strinse la cintura ai pantaloni stinti e mi guardò con un sorriso soddisfatto e un’espressione interrogativa negli occhi.

«Lo hai capito il punto?» chiese.

Sistemai sulla spalla la tracolla coi libri e rimasi a fissarlo per un istante.

«No, non l’ho capito».

Il suo sorriso si fece più largo, lasciando intravedere le gengive marce, come se si fosse tenuto il gran finale proprio per quell’esatto momento.

«Il punto è che non devi più darmi i cinque euro» disse in una risata soffocata accompagnata da un occhiolino.

Lo stridio acuto delle ruote sui binari come aghi nei timpani. Le voci sospese dall’incredulità prima e le urla isteriche poi. Il pianto dei bimbi aggrappati alle gambe delle madri. I volti deformati dal disgusto. Chi si affrettava a scappare via. Chi rimase inchiodato incapace di reagire. I brandelli di carne sulle felpe, sulle giacche e sui maglioni. Le budella riversate tra le carrozze e il bordo della banchina. Gli arti strappati dal busto. Le ossa spezzate a vista. Il cranio frantumato immerso in una poltiglia rosea. Gli schizzi di sangue che colava caldo e viscoso sui muri, sulle vetrate, sui bidoni, sulle persone, su di me. E il rumore sordo della collisione impresso per sempre nella memoria.

Quel tossico. Quel figlio di puttana. Aveva deciso di suicidarsi proprio lì. Davanti ai miei occhi.

Una frazione di secondo prima dell’arrivo del treno, dopo quella risposta enigmatica sui soldi, si era lanciato nel vuoto oltre la linea gialla, venendo travolto a mezz’aria dal macchinista ignaro.

La polizia arrivò a sigillare la stazione e a fare domande, i pompieri a ripulire i suoi resti con gli idranti e la protezione civile a fare qualunque cosa faccia la protezione civile. Le corse furono sospese fino a nuovo ordine e dovetti rimandare l’esame per cui mi ero fatto il culo al prossimo appello, perdendo l’ultima occasione che avevo di laurearmi in tempo.

Sulla strada di casa, col sonno, la rabbia, la tracolla e il suo sangue addosso, rimuginavo sul perché di quel gesto, del motivo dietro a quel cazzo di sorriso oppiaceo e beffardo che aveva stampato in faccia.

E poi mi fu chiaro.

Cristallino.

Non era altro che uno sfregio.

Aveva sfruttato la mia ingenuità per rovinarmi i piani così come lui si era rovinato la vita a causa della sua.

Opera di Chet Zar

La bambola

Aprì la porta di casa e fu sommerso dall’arancione torbido del sole al tramonto, incandescente oltre le vetrate del salotto mentre allentava la presa sulla città riarsa. Buttò la giacca del vestito sul divano e raggiunse in fretta il bagno, slacciandosi la cintura ancor prima di mettervi piede. Erano tre ore che resisteva.
Una volta liberatosi, con i gomiti appoggiati sugli adduttori grassi e la testa in bilico sugli avambracci, attese fino a che alla rilassatezza del corpo non seguì quella della mente.
Casa. Riposo. Svago. Si fece il bidè con le scarpe ancora ai piedi, canticchiando un motivetto che aveva sentito alla radio, poi si asciugò e si diresse in camera.
Digitò il codice sul tastierino numerico dell’enorme cabina armadio, che si dischiuse con un sibilo. In mezzo all’intrico di membra e indumenti, la scorse e sorrise.
«Eccola qui, la mia favorita».
Premette il bottone di scorrimento del nastro del guardaroba fino a che non se la ritrovò davanti. Con un braccio la cinse sotto le spalle e con l’altro le tenne alte le ginocchia, sfilandola dal sostegno. La adagiò sopra le lenzuola e la fissò rapito, disorientato dal moto di tenerezza che sentiva propagarsi nel petto.
«Non vedi che sorrido come un ebete solo per te, bambolina mia?»
Lo scomparto dell’interruttore alla base del collo era soltanto socchiuso e con delicatezza lo premette per ricreare l’illusione di una pelle omogenea. Oh, se era bella in lingerie… La sistemò sopra al letto sul fianco e le spostò una delle braccia sotto alla testa, accarezzandone la cascata di riccioli neri. Le piegò leggermente l’altro braccio e ne appoggiò la mano – piccola farfalla di velluto – sopra all’anca, per poi proseguire a tracciare con il dito tozzo e carnoso la traiettoria della gamba fino alla caviglia. Si sdraiò di fronte a lei e le sfiorò le labbra semiaperte e il margine degli occhi spenti. («E questo nasetto quanto è carino?») Poi di nuovo giù fino alla gola e al seno minuto. Il nero le donava, rifletté, il pizzo non molto. La bambola perse l’equilibrio precario nel quale l’aveva posta e gli cadde quasi addosso, sprofondando con il viso tra i cuscini.
«Quanta fretta» ridacchiò lui. «Un po’ però ti capisco, birichina che sei».
Pigiò il portellino dello scomparto all’altezza della clavicola, che si aprì rivelando una minuscola leva. L’uomo la abbassò e richiuse in fretta. Il volto femminile si animò.
«Ciao» proferì la bocca in un sorriso deliziato. «Era da un po’ che non venivi a trovarmi».
Non era vero, ma lui stette al gioco. «Lo so. Al lavoro sono settimane di inferno. Ma oggi ho insistito per staccare prima. Solo per te».
Lei rise e iniziò a strofinargli il cavallo dei pantaloni con la mano. «Mi sei mancato, fagottino».
Lui non poté fare a meno di chiedersi che cosa vedessero quegli occhi dalla pupilla lattiginosa. Espirando emise un gemito e si rese conto che la sua erezione era già tenace. Lei scese in basso e si mise ad armeggiare con la cintura. Non appena riuscì a sbottonargli i pantaloni gli afferrò il membro e iniziò a massaggiarlo con una mano, mentre con l’altra toccava se stessa.
«Vieni qui» disse allargando le gambe e scostando di lato le mutandine, e guidò il pene ingrossato dell’uomo dentro di sé.
Che cosa vedeva mentre lui la penetrava? Vedeva davvero qualche cosa? Scopandola se lo chiese diverse volte, anche quando lei si mise a pecorina e lo supplicò di prenderle il culo, fino a che non si chiese più niente e le rovinò addosso ansimando, sfocato nell’esplosione umida dell’orgasmo.
La lasciò giocare con i suoi capelli per qualche minuto, poi la spense e le abbassò le palpebre.
Si raddrizzò e gettò uno sguardo fuori dalla finestra, dove il sole era scomparso dietro le gibbose alture del margine occidentale della città. Un lento imbrunire stava offuscando la verità dei corpi e della materia tutta, ma la luce artificiale dei lampioni avrebbe presto impedito loro di sciogliersi nel buio.
Recuperò sigarette e accendino dalla giacca in salotto e se ne accese una.
Si sedette sul letto con la schiena appoggiata alla testiera e rimase per un po’ a fissare la figura bronzea che giaceva inerte al suo fianco.
Sentì il telefono squillare e lo recuperò dal comodino, ma rifiutò la chiamata: chiunque lo stesse cercando non era nella sua rubrica. Il numero però chiamò subito una seconda volta, così si rassegnò a rispondere.
«Pronto?»
«Pronto, il signor Oliviero?»
A conoscerlo con quel nome erano soltanto i fittavoli delle palazzine e la voce non gli era nuova.
«Chi parla?»
«El Amein. Sono la moglie di El Amein Khaleb».
Il nome portò con sé una faccia, poi un’altra. Lui alto, barbuto e macilento, spezzato già prima dell’ingresso in Italia e della vita di espedienti che conduceva. Lei bassa, naso schiacciato, all’inizio corpacciuta, ma prosciugata dalle chemio per il cancro al seno.
«Signora El Amein, qual buon vento! Come vanno le terapie? Presumo che chiami perché ha qualcosa di nuovo da dirmi sugli arretrati. Sbaglio?»
«Sì, signor Oliviero, per gli arretrati».
Figuriamoci. Dove sarebbe mai andato a prenderli quel buono a nulla del marito? Tra pigione e cure mediche erano un mucchio di soldi.
«Può versarli entro la fine della settimana?»
«Tutti gli arretrati no. Entro fine settimana no, ma mio marito ha trovato lavoro. Fra due settimane gli danno lo stipendio. Possiamo…».
«… e allora» la interruppe quasi con sollievo «direi che è il caso di parlarne tra due settimane, non crede?»
«Ma lo stipendio arriva. Ma…» l’uomo udì un rantolo e poi nulla per una decina di secondi. Aspirò una boccata di fumo e spostò il posacenere dal comodino alla schiena della bambola.
«Mi dica per favore, signor Oliviero… Yasmin sta bene? La mia Yasmin sta bene?»
Lui passò le dita della mano libera tra le natiche del corpo immobile. Vai a sapere…
«Mai stata meglio» rispose nel suo tono più rassicurante.
Poi riattaccò.

Opera di Iya Consorio – Barrioquinto

Mezzanotte a Marrakech – Seconda parte

” QUESTI SONO GLI ULTIMI NAZISTI”

«Si sono radunati a Marrakech?»  chiede Pedrita, a bassa voce, quasi senza voce. Lei muove le dita dei piedi e gli dà sempre ragione.
I manuali di regime la chiamano “folie à deux” e pare sia una rara sindrome psichiatrica nella quale un sintomo di psicosi (spesso una convinzione delirante, di tipo paranoica) viene trasmessa da un individuo all’altro.
Tom ode come un colpo di pistola al silenziatore.
Si guarda intorno, come per cercare conforto, e vede Pedrita seduta immobile con gli occhi vitrei e tanti ragazzi scalzi, ignari di essere capitati nella rete di un’organizzazione mondiale di nazisti.
E Bachir, laggiù in fondo, un cane, anche lui fa parte del complotto di questa maledetta setta.
Torna a guardare Pedrita e bisbiglia: «Ssst…tenteremo di metterci in salvo. Johnny, quel Giuda, ci ha traditi. Porteremo Bachir con noi come ostaggio e testimone. È  l’unica via d’uscita.»
Lui è un campione nell’organizzare strategie di fughe, non a caso ha preso Spartacus, Alessandro il Grande e Napoleone Bonaparte come suoi modelli di vita e di azione.
Intanto un ragazzo con gli occhi a mandorla, un giapponese seduto accanto a lui, gli passa una zolletta di zucchero.
Tom la considera con gravità un minuto buono come se non riuscisse a capire che roba sia, poi deciso dice: «Thanks», e la prende con due dita.
«It eats!» gli fa il giapponese, e lui la butta giù.
Quella roba che gli scivolava in bocca dolce dolce era LSD.
Mentre succhia la zolletta di zucchero si mette a osservare un capellone che, salito sulle spalle di due compagni, avvita una lampadina per illuminare il patio. La lampadina si accende e Tom sente una scarica elettrica nel cervello. Poi una girandola di colori incandescenti e lampi. Afflitto dai lampi stringe i denti. Infine una colata di fuoco nel cervello. “Sarò forte”. E stringe ancora i denti.
È fatto così, è il suo temperamento: stringendo il capo di una corda con un altro tizio all’altro capo che tira, preferirebbe rompersi il muso piuttosto che lasciare la presa e c’era per esempio quella storia di braccio di ferro in cui faceva piegare i più forzuti, benché a ben guardare la taglia delle sue braccia non fosse particolarmente muscolosa, ma a curarsi e a irrobustirsi ci avrebbe pensato dopo essere sfuggito al delirio.
Spiccato il volo, ha visioni di facce facce facce, tante facce che s’accumulano sotto le palpebre, facce mai viste prima, con zigomi spettrali, occhi scintillanti che, aperti, gli sembrano chiusi e, chiusi, gli sembrano aperti… Tom comincia ad avere così visioni palpebrali di facce venute da fuori, dal nulla. Quando ecco all’improvviso un volto conosciuto: lo spettro di suo padre morto e stramorto, con la faccia di diavolo che fa: “Ti ricordi di me?”, e gli dà uno schiaffo.
Poi arriva una specie di vescovo o di papa con chele di granchio che gli dà una puncicata ai coglioni e gli mostra il suo certificato di battesimo e anche un foglio di via.
Intanto, in un grande sssssssss, come il ronzio che si sente tra molte api, una voce gli ricorda che i veri uomini non si lasciano mai andare ma pisciano contro i muri a gambe larghe e pensano a tenere alto lo stendardo della Resistenza.
A tale proposito ricorda che una volta, quando era al Liceo di Trapani, ha scritto anche una poesia, che faceva così:

O Venere Afrodite,
levo a te, o Dea, e libo,
e pervaso da Priapo
tendo la nerchia tremula
ricurva
al tuo ovario,
perché compiaciuta di me
e di quanti
così intensamente ti adoriamo,
tu conceda l’Eroe
che ci conduca
per aspera ad astra.

“Idiota” aveva pensato Johnny, quando la lesse.
E ora Tom fa tutta una storia per non lasciarsi andare e non mollare, perché questo non è un acid party nel mellah, ma una notte che non somiglia alle altre notti ma sa di fuga e d’imboscata.
Una voce sonnacchiosa, che proviene da un grande sipario trapunto di stelle che brillano chiare, quasi frenetiche, ha appena finito di dire: “Al diavolo dio. Viva il diavolo e viva la minchia”.
E lui cavalca, e impugna la scimitarra, facendo appello all’antica tradizione dei masculi di Saracenia.
Perché questa è una notte elettrica, che, nei suoi pensieri, è La Notte in cui Lee vuole metterlo alla Prova.
Gli farà vedere chi è Tom Gambino: un osso duro che alla fine pianterà sulla vetta la propria bandierina.
Quando si è braccati da una banda di nazisti che vogliono usarti come cavia per i loro mostruosi esperimenti occorre resistere resistere resistere.
Resistere a cosa? Non lo sa bene ma continua a stringere i pugni ed ecco il freak out.
E troppo concentrato su sé stesso. E più cerca di resistere all’acido più entra in una  appuntita foresta di difese.
Come se stesse in una classe alza due dita in aria e chiede il permesso di andare sul terrazzo.
Nessuno ci fa caso, e lui si alza barcollando; scorge una scala stretta e unta, e sale su, di slancio, come una capra.
Sbuca così sul tetto della casa, una terrazza bianca di calce illuminata dal chiarore della luna di traverso al cielo.
Nel panico si affaccia su Marrakech e vede palazzi da Mille e una notte, sfolgoranti di marmi, di cristalli e di luci sotto un cielo di panni stesi ad asciugare.
Com’è possibile, fra tanta bellezza, che i vescovi e i nazisti si stiano preparando a fargli la festa? È veramente una follia, ma c’è anche qualcosa di dolce, una musica, come la voce di Pedrita che lo sta abbandonando. Come mai? “Semplice: l’anagramma di PEDRITA non è forse PERDITA?”.
Lo sente che l’avrebbe persa e a dirglielo è la stessa voce di sua madre che già lo aveva abbandonato, per quell’altro.
Tutti siamo stati abbandonati, ma abbiamo voluto dimenticarlo. Lui invece deve ricordarsene e procurare piacere a tutte le donne e riparare a tante ingiustizie. E questo il suo karma perché lui ha questa missione dongiovannesca e ce l’ha pure duro grosso, perché da piccolo lo hanno nutrito con testicoli di toro e rognoni, per cui resiste e deve resistere, con “nerchia tremula”, a quel lavaggio del cervello.
Mai avute sensazioni così. Da convincerlo che qui c’è una vera presenza a capo di quei bodhisattva nazisti e mostruosi androgini laggiù. Il pensamento di Tom? “Certamente mi stanno sottoponendo a una prova di tipo sciamanico”.

RONDINI ELETTRICHE SULLA TERRAZZA

Sta per albeggiare, una sensazione di fresco e quasi di gelo. Si vede Tom, sciamannato, disteso supino su un materasso in un angolo, accanto a una tettoia sotto la quale è legata a un palo una capra con oggi gialli, da pazzo.
Ogni tanto da degli strattoni alla corda, e raschia il suolo con le unghie: forse sa che tra poco verrà sgozzata, la testa rivolta verso la Mecca, per la festa dell’Aid el Kebir.Non c’è festa senza sangue?, sembra chiedergli la povera capra.
Tom alza gli occhi al cielo e vede due rondini elettriche volare in un cielo fosforescente e blu.
All’improvviso una delle rondini ha le ali in fiamme, non si sa come sia potuto accadere una cosa del genere: lo scoppio di una malattia veramente mortale e contagiosa.
La rondine zirlisce e sbatte follemente le ali: una vera tortura gratuita, astratta e caduta dal cielo, e l’altra rondine, una specie di gemello con la faccia di Johnny si posa su un cornicione della terrazza e la guarda fare.
La compagna brucia, si contorce, si vive da sola quel melodramma e la sua fine imminente… batte le ali e tende il becco e batte le ali alla velocità di un aeroplano, proprio quel che non bisogna fare per via delle fiamme… che aumentano, crepitano, tuonano e l’avvolgono fino al becco. La rondine lancia crepando un tenero e quasi inaudibile zi-zi.
C’è un po’ di fumo e un leggero mucchio di ceneri che cade sul terrazzo in finissima polvere roteante.
Tom rovista quella polvere con la punta della babbuccia e vede che non c’è che il becco di solido e l’altra rondine vola via e poi Tom ha di nuovo un’apparizione del Diavolo aureolato da un suo caratteristico sex appeal spettrale.
In un silenzio di morte Tom sente la Voce di Lucifero tuonare nel cielo di Marrakech diventato una cupola di fuoco scarlatto-ardente.
E sorge una specie di meraviglia, di verità ultima che il discorso non può contenere, forse perché il discorso di Lucifero è incompatibile con le menzogne rassicuranti e le illusioni che ci permettono di vivere.
Solo vuota cornice di spavento.
Anche perché Tom non ha più la testa né i bronchi o i polmoni, e tuttavia sente voglia di fumare.
E Lucifero gli parla in dialetto siciliano, nella lingua dolce di sua madre vestita di nero, ma non raggiunge la testa: gli parla nel petto. E quando le tristissime parole fatali arrivano alla testa rimbalzano indietro, perché al posto della testa c’è una placca metallica.
Tom si distende supino in un angolo detta terrazza, su un materasso pataccato, lacerato, impidocchiato e incimiciato.
Ci sono lampi dappertutto.
Questa violenza che gli fa la Voce di Lucifero dura non più di due ore, che a lui sembrano però un’eternità.
Intanto, da una terrazza contigua un gruppo di ragazzi di strada avvinazzati lo sta osservando.
Tre o quattro di loro si danno di gomito: «Guardate chi c’è laggiù. La mamma mi ha detto che gli hippià mangiano i gatti”.
Scavalcano un muretto bianco di calce; gli abbassano il seroual, e messolo sottosopra se lo scopano a turno.
Si chiama “faire touiza”, una pratica di solidarietà tradizionale nel mondo rurale maghrebino caratterizzata dal principio di aiuto reciproco nel lavoro dei campi.
Poi se ne andranno vantandosene per tutti i vicoli della medina come se avessero compiuto chissà quale virile performance ai danni di uno sciumunito di kafirun, un infedele che ha osato penetrare nel loro territorio.
Sono cose che accadono quando dalle crepe di una compagine civile riaffiora la forma più arcaica di assembramento umano: la “muta di caccia” appresa dai branchi di lupi e pronta a sbranare un grosso animale, specialmente se debole e ferito.

IL DEMONE DEL RAMADAN

Il mattino, quando Bachir accompagna Tom all’hotel Huriyyat al Ganna, Pensione Paradiso delle Urì, non è bello a vedersi. Desolato e abbattuto da quei turpi eventi, si lascia condurre per le vie di una città dove aleggia il grande silenzio che segue le battaglie.
Dopo quelle ore frenetiche in cui i muezzin hanno lanciato le loro lunghe e gracchianti invocazioni nell’etere della notte, seguite dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere, e dopo le musiche, le feste, i pasti, le visite da una casa all’altra, si è installato il Ramadan.
Molti magazzini sono chiusi. Sarà difficile trovare un caffè aperto. A piazza Jamaa el Fna solo l’Ere Nouvelle serve gli occidentali venuti a prendere la loro prima colazione. I maghrebini siedono davanti a tavolini vuoti e attendono, gli occhi persi nel vuoto perché questi sono giorni in cui non si deve mangiare niente, bere niente, non fumare, non avere relazioni sessuali dall’alba al tramonto. E i muezzin si fanno sentire più del solito.
Molti sono malati e alquanto nervosi. Tutti hanno la nausea prima di abituarsi al nuovo regime fatto di digiuno durante il giorno e di festini a base di datteri di Zagora, di harira bollente e di dolci al miele durante le agapi notturne.
Stanchezza, fame, sete, calore, niente da fare tutto il giorno, non musica, una distanza ancora più grande tra i sessi durante il giorno, impressione di un tempo sospeso, arrestato e pesante come uno straccio bagnato, impressione di vuoto e di inutilità.
Questo è il clima della città nordafricana quando Tom viene accompagnato da Bachir fuori dal mellah. Bachir lo regge da un lato e Lee dall’altro.
Ha sempre quei larghi pantaloni bianchi da harem, il seroual, ma con le gambe che gli arrivavano una alla caviglia, l’altra al ginocchio, e la barba arruffata, gli occhi da maniaco e la bocca impastata.
Avanza barcollando come dopo un terremoto, uno tsunami o un luna park, e prova una sensazione di grasso gelido. Non può far nulla contro quell’allucinazione collettiva che gli pare il Ramadan.
Il sangue dei caproni sgozzati dai padri di ogni famiglia del quartiere musulmano scorre a rivoli lungo i marciapiedi e sbiadisce mescolandosi all’acqua che scivola nei tombini formando qua e là pozzanghere iridescenti fra la brina e la rugiada della notte.
Nessuna parola comune si adatta al ritmo della città, nessuna scala darà mai un senso al diavolo del Ramadan che gli è apparso quella notte.
Non sa se stava sulla scala che portava al Paradiso o se stava per andare diritto all’inferno.
Ma ecco che una piccola onda batte contro di lui, come contro uno scoglio scivoloso. Ecco Pedrita. Completamente succube, con i capelli scarmigliati, cerca di parlargli. Una bella coppia di zombi.
I due mabùl vengono portati in processione attraverso il mellah, l’Attarine e piazza Jamaa el Fna, fino a derb Sidi Bouloukate dove sorge l’hotel Huriyyat al Ganna.
Muhammad, il padrone dell’hotel che ai tempi del Protettorato aveva ospitato con più decoro ufficiali francesi, li accoglie dicendo: «Io ve l’avevo detto.»
Tom Gambino e Pedrita sembrano due cavie sopravvissute a qualche mostruoso esperimento, appena uscite dal laboratorio del dottor Test, il primario del manicomio di Berrechid, quello sulla via di Casablanca dove all’inizio della stagione turistica la polizia di re Hassan II porta tutti i mendicanti, gli storpi e i vagabondi che riesce ad acchiappare qua e là, per ripulire un po’ la piazza dei Trapassati.
E il mattino presto e nel cortile dell’hotel della città rossa si odono voci concitate e rauche.
«È il mio turno, eh, mi vogliono fare.»
«Non so, penso di sì, cioè… »
«Tu sei Pedrita ? »
«S-sì. »
«Allora sei Pedrita perduta? »
«Hmm, hmmm, ma che cazzo stai dicendo? »
«Sicuro! Tu sei Pedrita e loro ci hanno raggiunti fin qui a Marrakech.»
«Chi, gli emissari dei vescovi del Vaticano?» chiede Johnny intromettendosi con finta aria innocente.
Appena sente la parola “Vaticano”, Tom si agita furiosamente.
Un indemoniato. La testa piena di Ginn. Gli affrits! I Parassiti! Parassiti astrali.
Il trambusto sveglia tutto l’hotel e fa uscire i capelloni e le loro donne e i loro gitoni dalle camere.
«Serve il Mom per le piattole?» chiede dottor Dick affacciandosi al ballatoio con uno sbadiglio, grattandosi l’inguine attraverso uno slip nero.  «Niente Annika, dormi; l’italiano è in freak out, eppure abbiamo organizzato tutto seguendo il manuale per la riduzione del danno.»
«Gli passerà» sentenzia Otis Cook detto Lee.
«Zitto, tu!» intima Tom. E ricomincia a parlare di nazisti e di complotti.
Diventa noioso, e Lee esclama: «You took a bad trip in your own head, and now what?»
Dottor Dick scruta Tom con occhi da vero intenditore. «Mmmm, se non ha un ritorno di acido dopo, gli passerà presto.»
«Beh! – annuncia Johnny – Io vado al cafè l’Ere Nouvelle qui all’angolo a fare colazione. C’è qualcuno che vuole un bel caffè caldo? Magari Tom ne vuole un po’, con la cannella.»
«Con la cannella?»  obbietta giudiziosamente dottor Dick – «Adesso pure la cannella gli vuoi dare. Ma non dategli più niente, neanche una fanta, non lo vedete com’è conciato?»
Tra i ragazzi dell’hotel Huriyyat al Ganna, distesi sui sacchi a pelo, inizia un dibattito sulle virtù delle spezie.

ABITATO DAI GINN

E non finisce qui. Perché Tom se ne sta chissà da quanto tempo addossato con aria stremata a un muro del cortile bianco di calce.
Una macchia di sole impercettibilmente si sposta sempre più verso l’alto di quella parete troppo bianca e Tom non la smette più di delirare per tutta la mattinata di rondini elettriche e di vescovi.
Mentre i freaks discutono sull’opportunità di bere o meno caffè con la cannella, e qualcuno magnifica le virtù psicoattive della noce moscata, raccomandando peraltro di bere solo acqua in bottiglia sigillata perché quella del pozzo dell’hotel deve certamente pullulare di amebe, ebbene mentre il collettivo organizza il dibattitto, sorge il problema di Tom che, balzato improvvisamente su come un misirizzi, ora cerca di arrampicarsi sul banano che sorge al centro del cortile dell’hotel con le sue larghe foglie color verde cupo.
Non esistono solo dibattiti, esistono anche i problemi.
Annika, che da poco ha preso alloggio all’hotel Huriyyat al Ganna passa dal cortile per salire su in terrazza a spandere un paio di lenzuola tenebrose appena lavate in un secchio igienico di età indefinibile. Quando vede Tom penzolare dal banano strabuzza gli occhi e affretta il passo verso la scaletta stretta e unta, con i gradini cosparsi di polvere rossa, di mozziconi di candele, teste di pesce e bucce d’arancia.
Dal terrazzo la si sente chiacchierare con Aisha, la donna delle pulizie, e con le altre donne delle terrazze confinanti.
«Sì, oggi all’hotel abbiamo un maskun, un italiano “abitato” dai ginn»  racconta Aisha. «Probabilmente è un ginn ebreo, se l’è beccato nel mellah vi dico.»
«Ma non è che per caso qualcuna di voi gli ha fatto lo tseur» chiede Lalla Mimouna, una vicina sempre velata della quale i ragazzi dei vicoli dicono che ha i denti tutti d’oro e che non porta niente sotto, solo potenti amuleti antimalocchio nella giarrettiera.
«Non è che gli avete fatto la fattura che solo noi donne di Marrakech sappiamo fare così bene?»
La macchia di sole sul muro troppo bianco è ormai scomparsa, si sente già il gracchiare del muezzin dall’altoparlante, seguito dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere, quando verso sera Tom Gambino sembra calmarsi.

«Adesso, Pedrita, mi… mi sento già meglio.»
Da un altoparlante del minareto si leva il canto del muezzin.
«Che cosa hai detto?» domanda Pedrita, mettendosi una mano a coppa dietro l’orecchio. E Lui: «Me-meglio… adesso mi p-pare di stare un p-po’ me-meglio.»
In cortile si diffonde un odore di cannella, di kif e di peperoni farciti. E la colonna sonora è offerta dalla chitarra di Johnny.

Papà, la nostra bambina se n’è andaaata,
come ha potuto farci una cosa simile?

«Non ditemi che adesso quei na-nazisti si sono me-messi a preparare il cuscus… »  bofonchia Tom dando inquieti sguardi in giro.
Chissà se si è davvero calmato, non per via delle smorfie che ancora fa con la faccia, ma perché potrebbe facilmente subire qualche altra crisi. Un temibilissimo “ritorno di acido”, come ha paventato Dottor Dick.

TOM FA UNA PORCATA

Tutti sorvegliano Tom con la coda dell’occhio, ma egli è più scaltro dei freaks.
Aspetta che Muhammad esca per andare alla moschea, e poi scappa via.
Dove va? Va a denunciare il complotto degli ultimi nazisti a Marrakech al commissariato di Polizia di piazza Jemaa el Fna.
Racconterà di essere stato sottoposto al-lavaggio-del-cervello-da-una-banda-di-nazisti. Dirà anche che Johnny, il suo amico con in testa un berrettino da paggio, è un agente-dei-servizi-perché-sa-troppe-cose.
E aggiunge anche di sospettarlo di essere andato a letto con Pedrita.
Il commissario Driss ben Ali, conosciuto sulla piazza con il soprannome di Rambo, sbraita qualcosa in un linguaggio gutturale tipo “Kurghss! Karrà! Karra! Andate, andate” ai poliziotti anch’essi strafatti o stoned per il digiuno, il kif e tutto quel ramadan.
Gli sbirri partono di malavoglia verso il mellah con le camionette bianche e un manipolo di merdah. Dal francese “merde“, i merdah sono guardie ausiliarie armate di grossi bastoni in caucciù chiamati zarouatà. Sono l’incubo del popolo minuto, specialmente dei venditori abusivi.
Giunti nel mellah, a casa di Lee, gli sbirri sequestrano tutte le pipe da kif: è inutile cercare di nasconderle nei calzini, ti frugano dappertutto.
Hanno circondato l’intero quartiere del mellah tra il fuggi fuggi generale, tra hippies tedeschi urlanti che cercano di nascondere lo shit, piccoli olandesi in mutande, americani disertori del Viet Nam che saltano dalle finestre perché non hanno il permesso di soggiorno in regola.
Le donne del quartiere salgono sui tetti a modulare iulii e zagharid come nel film La battaglia di Algeri.
«Documentacìon, bandes de cons, merde, quoi!»
E sulla porta di casa appare Lee, l’americano barbuto grande e grosso, che tuona: «O.K. man, le passeport… C’est ça que vous voulez?… le passeport!»
In Nepal, pochi mesi prima, quel colosso ha già resistito una settimana a un generale nepalese e a un’intera armata gurkha che, come già detto, lo volevano sloggiare e buttar giù dall’Annapurna.
Si diffonde la voce che Bachir, il nero con gli occhi di leopardo, è stato arrestato e condotto dai mastini al commissariato della piazza dei Trapassati. Dicono che dopo averlo spogliato nudo e appeso a una trave con la testa in giù e il culo sollevato, gli hanno dato tanti colpi di zerouatà sotto la pianta dei piedi, affinché provasse molto dolore ma non restassero segni.
Si sa che i colpi dati alle piante dei piedi si ripercuotono come scariche elettriche direttamente al cervello e ti lasciano con un gran mal di testa.
Uno sbirro burlone propone anche d’infilargli nel culo il collo di una bottiglia di Coca Cola.
«No-o-o-o» fa il commissario Driss ben Ali, e scuote il capo come a sottolineare il diniego.
«No! Balèk! Attenzione, lascia stare… in questa vicenda sono coinvolti degli occidentali, che potrebbero riferirlo ai giornali.»
Sono i tempi della Morte, della Droga e della Tricontinental con il progetto guevarista di creare dieci, cento, mille Viet Nam. E tra gli studenti comunisti della città rossa, non ancora convertiti all’islamismo, si mormora di giovani ribelli mai più rivisti tra i banchi dei licei, prelevati nottetempo e fatti scomparire nell’Oceano Atlantico, o forse nella polvere del deserto.
Alcuni abitanti d’Hiroshima hanno lasciato la loro ombra atomica sui muri della loro città al momento dell’esplosione. Resta più del loro passaggio che di quello di Bachir con gli occhi di leopardo. Non resta nessun segno, neanche uno straccio nell’aria, né l’odore acre e un po’ ambrato dei calumet di kif che facevano sognare intere Baghdad e Andalusie e Sheerazade.
Intere vite di energia fluiscono in pochi istanti. E il resto è silenzio.

MA LA GENTE CHIACCHIERA

Naturalmente la voce di quanto accaduto nel mellah si diffuse in un lampo in tutti i quartieri, anche i più lontani, della città rossa. Il tam tam arabo. Si diede corso alle chiacchiere. Cos’è veramente accaduto? E soprattutto, cosa mai aveva spinto un uomo di così belle speranze come Tom in un così infimo stato e a un gesto così infame come quello di denunciare agli sbirri i propri compagni? Be’, la risposta per il commissario Driss ben Ali, amici, è in una corta e tremenda parolina, in due sole sillabe, usate e abusate: “Droga!”
Per Muhammad, invece, se le cose erano andate storte non poteva che essere colpa dei sionisti.
Convocato anche lui in Commissariato, di cui era confidente, come lo erano tutti i gestori degli alberghi della città rossa, continuava a raccontare la storia di Tom ai poliziotti, arricchita di particolari inesistenti o francamente inventati.
Lo stesso faceva con i vicini e con chiunque volesse sentirlo nelle caffetterie di piazza Jamaa el Fana: ogni volta raccontava una versione diversa.
Dottor Dick gli diceva: «Ma esisterà pure una verità obiettiva!»
«Nà», diceva testardo Muhammad «la verità è come uno sente, e io ti dico che tutto questo è successo perché i sionisti gli hanno fatto lo tseur, una fattura.»
«Ma no, si è trovato l’acido nel bicchiere, forse non era pronto.»
«Sì, ti dico: le donne dei sionisti hanno preso dei pezzetti d’unghia, dei capelli, dei semi di quella pianta che si chiama sdak jmil, mandibola di cammello, la datura con quei fiori bianchi, oblunghi, a forma di labbra di cammello, non so se hai presente… »
«I semi di datura, quei piccoli semi neri? »
Muhamad rotea le pupille, in finto atto di resa.
«E che ne so io di quello che certe donne usano per preparare i loro intrugli, solo Allah lo sa.»
Be’, la conclusione era che al pover Tom qualcuno, o più probabilmente qualcuna, aveva fatto lo tseur e glielo aveva messo nella fanta.
Muhamad ammicca, tra il dire e il non dire, e non dice altro.
Difficile, quasi impossibile farlo parlare altrimenti che a mezze parole. Fa capire di sapere molte cose sulla pratica dello tseur e della magia nera, ma resta irremovibile, non vorrà mai dire altro che frasi allusive, informazioni che non si possono verificare.

Così si viveva a Marrakech, come fantasmi! Chi conosce il Marocco (gli stranieri che vi hanno vissuto molti anni, con una punta d’ironia vengono detti “Anciens combattants“, ed è tutta gente un po’ speciale) sa che laggiù niente è mai certezza, e che ogni verità si carica di vuoti, di sussurri, sottintesi, leggende e  affabulazioni.
Qui non bisogna mai discendere al fondo delle cose, perché il reale non prova mai niente di definitivo, sicché tutto sembra evolvere unicamente nello spazio del verbo e del pensiero.
Non predominano le linee rette e squadrate come nelle nostre piazze e i nostri grattacieli a forma di ascia rovesciata: ma le linee curve, i ghirigori, gli arabeschi, che a guardarli più che idee suggeriscono l’incastro di sogni in infiniti altri sogni.
È forse quando ci si accorge di sognare che ci si sveglia veramente. Ma quel che voglio dire è che in Marocco urtare di fronte a fatti, cifre, dati apparirà ben presto una impertinenza, un vezzo da “khafir” occidentale.
La vera storia di quanto accadde a Tom, forse si trova nei verbali degli interrogatori, negli archivi della polizia di re Hassan II. Fatto sta che dopo aver passato un paio di giorni nelle prigioni della città rossa, con l’idea di avere una lampadina nel cervello e la convinzione che nelle sue disgrazie ci fosse lo zampino dei vescovi, se non della magia nera di Marrakech, Tom raccolse il cervello, il borsello con il dentifricio e Pedrita, e partì da Marrakech, quella tetra palude, con il pesante passo di un indiano ebbro di danza.
E, che io sappia, non è mai più tornato all’hotel Huriyyat al Ganna, dove ci lasciò Johnny in eredità, raccomandando a Lee e agli altri di prendersi cura di lui, e soprattutto di non combinare anche al suo amico qualche brutto scherzo.

LA CARTOLINA

All’hotel Huriyyat al Ganna, a pensione da Muhammad e dalle Urì, tutto sembra essersi rinchiuso sull’assenza di Tom come l’acqua scivolata sulle piume di una papera. Al punto che quando, due mesi dopo, ci arrivò una sua cartolina, ci fu un momento di attesa, di sorpresa e quasi di fastidio.

«Una cartolina? E di chi è?»
«È di Tom che ci scrive da… da Sidney» squittisce Johnny.
Si era fatto vivo da tanto lontano! Ora si trovava in Australia dove faceva molti bagni, così scriveva, pesca subacquea.
Annunciava che stava per aprirsi l’era spaziale, e che avremmo tutti trovato fortuna emigrando sulla Luna.
E ci dava notizie di sé: “Mi sono convertito all’Islam perché permette la poligamia”.
Di sbieco, a un lato della cartolina raffigurante una riproduzione del “Giudizio universale” di Hieronymus Bosch, aveva aggiunto un P.S.: “Paranoia quasi completamente scomparsa”.
Fu quel “quasi” che ci fece rabbrividire.
Le ultime sue parole, scritte a lettere maiuscole, contenevano i saluti e una raccomandazione rivolta a tutti noi: “CIAO COCCHI, METTETE LA TESTA A POSTO”.
«Ecco finalmente delle parole chiare» esclamò Johnny.

Opera di Anna Allworthy

Mezzanotte a Marrakech – Prima parte

Tom Gambino era un leader dei refrattari, un capellone sempre pronto a menar le mani, la faccia congelata in una smorfia perenne contro il “Sistema”. Oggi è sbarcato nella città rossa e si fa chiamare mister August Strindbnerg per depistare i servizi segreti. Gli sbirri, così crede lui, lo seguono da Milano – dov’è conosciuto come il Profeta bianco per aver guidato le manifestazioni contro la Bomba atomica, vestito con pantaloni bianchi in fibra di juta a zampa d’elefante, regalatogli dal commesso froscio di un negozio di abiti beat.
Il Profeta, nato durante la guerra, era di qualche anno più anziano dei suoi giovanissimi seguaci, e aveva anche cercato di costruire una tendopoli beat alla periferia della metropoli lombarda, elegantemente battezzata dai giornali di regime Nuova Barbonia, poi rasa al suolo con i lanciafiamme del S.I.D., Servizio Immondizie Domestiche del Comune di Milano.
Fuggito in Nordafrica con la compagna, la bionda Pedrita con una toppa su un occhio, e l’amico Johnny con in testa un cappellino da paggio, lo vediamo sedere solo in un caffè arabo proibito alle donne e ai bambini. Pur non capendo una parola sta studiando i gesti delle persone.
Le notti africane sono calde, febbrili. E ci sono tutti questi adolescenti refrattari che rollano spinelli e indossano pantaloni troppo stretti e magliette regalate loro dagli stranieri come se fossero trofei, scalpi. C’è qualcosa d’inaudito nell’aria e troppe cose nuove da ordinare nella mente.
A inquietarlo sono soprattutto gli uomini incappucciati seduti ai tavoli, chini come monaci in un refettorio, con in mano un cucchiaio di legno e il coltello nascosto nei calzini.
Gli emissari della CIA e del Mossad inviati a Marrakech per sorvegliarlo fanno finta di mangiare l’harira: una zuppa calda di lenticchie e vermicelli, una purea liquida, resa acidula dal pomodoro, profumata di coriandolo, bollente e molto piccante. Si puliscono il grugno con il rovescio della mano e lo fissano volgendo uno sguardo verso di lui, poi le pupille glissano come palline di mercurio e fingono di soffermarsi ad osservare il grande ritratto del re Hassan II che troneggia a una parete, sull’alto della cassa. Schizzi di zuppa e sguardi obliqui come coltellate.
Ma come cazzo hanno fatto a raggiungerlo fin qui nella città rossa? Dal giorno in cui Tom Gambino ha inventato la Contestazione Globale, invitando i giovani a lasciare la famiglia, la scuola, il partito e l’oratorio, e costretto De Gaulle a dare le dimissioni, i servizi lo seguono ovunque. E ciò che in un primo momento gli era apparsa calma e apatia orientale, ben presto gli sembra una maschera, dietro la quale avverte un’irrequietezza, un’eccitazione anzi, che egli riesce a spiegarsi molto bene. “Vogliono farmi fuori, per ordine del Vaticano e dei poteri occulti, ecco tutto”.
Tom esce precipitosamente dal caffè arabo. E per la strada tutto è cosi differente, diverso da prima, ci deve essere qualche cosa. Un passante ha uno sguardo cosi penetrante, forse è un detective. Poi passa un cammello che pare ipnotizzato, è come un cammello di gomma, come se fosse mosso da un meccanismo.
C’è tanta gente per la strada, ma non si vedono donne: solo uomini e cammelli, forse c’è qualche macchinazione, una realtà parallela di cui solo lui ha scoperto l’inganno. Tutta la gente fa rumore con gli zoccoli e lui camminando controcorrente di questo fiume umano ha la sensazione (niente di erotico, o forse sì) che ognuno abbia uno zob e che tutti questi zob, mentre li supera, siano allineati come un oggetto prodotto in serie ritmicamente impresso da uno stampo.
Deve esserci dietro qualcosa di non naturale. Gli uomini sono “mischiati”, essi sono “comparse”, hanno tutti un aspetto non naturale. E le insegne sulle case sono storte, le strade della medina hanno un aspetto così poco rassicurante.
Il minareto della Kutubia, tozzo e quadrangolare, sempre visibile da ogni punto della piazza Djemaa el Fna, l’Assemblea dei Trapassati, si erge nella notte sotto la mezzaluna come un grande indice ammonitore. Una volta qui il Sultano faceva esporre sui ganci alle porte della medina le teste mozzate ai ribelli, messe sotto sale e avvolte in carta stagnola luccicante.
Ovunque lo sguardo di Tom si posi, sorgono gli inevitabili riflessi della colpa o dell’innocenza. C’è tanta violenza invisibile, nell’aria. E ogni minimo fruscio al passaggio di una gellaba o di un paio di pantaloni produce nello straniero come un attrito, un fremito che pare comunicarsi a tutta la piazza dei Trapassati. Ginn, caproni, satiri e tori. Non si vede una donna in giro. Solo ginn, caproni, satiri e tori. La cintura della Bestia! Cose da uccidere l’infanzia e l’innocenza in un attimo.
Nella piazza sale da sotto i tavoli e i piedi caprini di quelle “comparse” una polvere rossastra che odora di sangue coagulato, di sterco d’asino e di paglia sminuzzata. La polvere e i vapori diventano così spessi al crepuscolo, nell’ora della grande frenesia, che le cose assumono un’aria fantasmagorica da incubo.
Improvvisamente cala il buio e in piazza si vedono solo forme bianche circolare silenziosamente, non collegate alla realtà che dal rumore dei tamburini lontani, sempre più isolati e fiochi. E quando la luna sorge sulle sagome nere frastagliate delle palme sbilenche dei giardini della Kutubia, le muraglie della città rossa si bagnano di un etereo chiarore.
Tom non può camminare per le strade della medina senza occhieggiare ogni singolo pedone. Ecco che un uomo in gellaba gli passa accanto in un risucchio d’aria e lo fissa con sguardo penetrante: ha un volto bianco incorniciato da una barba a mezzaluna e senza baffi, ma forse non è altro che il pulviscolo, l’efflorescenza di un minareto enorme, tozzo, radicale.
Chissà cos’era quello sfavillìo negli occhi, quel voltaggio nelle tempie. Certamente era il capo di quei monaci che soli, di notte, quando in strada più non si vedono né le donne né i bambini, schiumano i vicoli e la piazza deserta, scomparendo come fantasmi alla svolta di un derb. Dove, nell’Islam, non esistono veli e vicoli tortuosi?

Finalmente arriva all’hotel Huriyyat al Ganna, Pensione Paradiso delle Urì.
Sotto l’arcata buia di un vicolo, accanto alle tenebre bollicanti di un orinatoio pubblico, vede come in una nebbia Johnny e Pedrita. Li sente dire: «Ma dove sei stato, ti cercano tutti.»
Quando si apprestano ad entrare nel loro albergo, la più lurida tana del Nordafrica, un uomo nero, il giovane Bachir, esce dall’orinatoio adiacente l’hotel Huriyyat al Ganna e, stringendo al petto una rosa sporca di polvere, chiede: «Vous etes spagnol? frances? Taliani? Ah, taliani spaghetti caffè ristretto cazzo duro tu qui trovato posto bueno per fottere.»
Gisela lo fissa stralunata, a Johnny si rizza il pelo sul collo; e Tom, agitando le mani come per scacciare un insetto fastidioso, Belzebù, o un satiro peloso, l’essere più lubrico che abbia mai visto, scuote la testa: «Nà! nà! io qui in missione speciale mica sono venuto per gustare il primitivo.»
Un discorso davvero presuntuoso e duro. Tra acri odori.
Poi, si rivolge a Pedrita che lo segue incespicando in una lunga tunica stampata a fiori enormi, tremendi: «E cammina, pirla!» Lui è fatto così, è molto geloso, anche perché è di origini siciliane.
Bachir si tocca l’inguine con gesto volgare, plebeo. E Johnny sorride.

UN FRATELLO DELL’AMORE ETERNO

Lo spettro di quello scocciatore di Bachir con in mano una rosa sporca di polvere non si è ancora dileguato, quando Tom incontra Otis Cook detto Lee, un hippie barbuto ex Hell Angel’s, anche lui appena sbarcato nella città rossa, che lo invita a un acid party.
«É un’occasione meravigliosa!» esclama Johnny.
E spiega che Lee, che somiglia a Rasputin, ha gettato alle ortiche il suo giubbotto con sopra il teschio con l’elmetto e le ali, e si è convertito alla cosa psichedelica. Ora proviene dal Nepal da dove lo hanno espulso; c’è voluta una unità della Brigata Gurkha per sbatterlo giù dall’Annapurna perché voleva edificare con un gruppo di fuggitivi un tempio al Sole proprio dove il governo preparava alberghi per i turisti.
Ora, battuto, sbattuto e beato, si proclama King of hippies; ed è passato a far visita ai freaks dell’hotel Huriyyat al Ganna, dove fa girare aggratis un ottimo acido. Ha affittato una grande casa, un riad nel mellah, il quartiere ebraico della città rossa, ed è sempre pieno di dollari, che va a ritirare all’Americ Express, seguito da una torma di adepti.
Tom ne è un po’ geloso, e i ragazzi dicono che Otis Cook detto Lee è un membro di The Brotherhood of Eternal Love: la “mafia hippie” dice l’ FBI, a caccia di un’organizzazione di consumatori e distributori di hashish e LSD che opera in tutto l’universo mondo e organizza baccanali a partire da Orange County, in California.
L’LSD è una nuova droga così euforica, espansiva e visionaria, ma anche un’impietosa pietra di paragone per diagnosticare i divorzi culturali tra chi è out e chi è in, come un arrosto di porco tra un cristiano e un musulmano, o un antenato cotto a puntino tra un cannibale e una suora missionaria.
Lee deve essere certamente un amico di Johnny; e anche di dottor Dick, un ragazzo olandese che va in giro in un caftano color albicocca suonata, agitando un lungo bastone stravagante comprato al moussem o fiera di Sidi Moulay Brahim, il re dei ginn.
Non è un vero dottore e vuole diventare un sufi. Prima di convertirsi all’Amore Universale, alla Pace Perpetua e ai Fiori Sempre Freschi è stato infermiere diplomato e porta con sé bende, tintura di iodio per le sbucciature e tanto tanto Mom per le piattole.
«C’è n’è per tutti, ragazzi, offre la nostra associazione Brotherhood of Eternal Love.»
Volendo può trapanarti il cranio per attivare la ghiandola pineale e far salire su la Kundalini, ma Tom è un po’ scettico: dice che, nelle sue condizioni di Wahnstimmung, cioè umore delirante, l’ultima cosa di cui ha bisogno è un buco in testa.
Ad ogni modo, dottor Dick è anche capace di cavarti un dente cariato o inciderti un bubbone per pochi dhiram.
A Marrakech la vita non è cara. E tutti sono invitati all’acid party.
Così una sera di Ramadan Tom si avvia con Pedrita verso la casa in cui Lee abita con la sua corte di freaks nel mellah, il quartiere ebraico. Per l’occasione ha comprato al suk un paio di babbucce gialle, un gilettino arabescato e un seroual, quei larghi pantaloni arabi da harem legati con un laccio alle caviglie. Ecco Tartarino in Africa.
«Nà, io non vengo » annuncia Johnny quando lo vede conciato a quel modo. «Nà, nà, sul serio…»
Muhammad, il padrone dell’hotel, disteso su una stuoia di rafia sul ciglio della strada a prendere il fresco sulla porta, accanto a un mucchio di passaporti di tutte le nazioni, o forse di nessuna, li osserva con curiosità.
«Asciumà! che vergogna» borbotta tra i denti, sgranando il suo rosario venuto dalla Mecca. «Europei tutte puttane, tutte finocchie, tutte sioniste! »
Dottor Dick insorge, facendo roteare il suo lungo bastone stravagante.
«Ehi, fratello! Qui ti paghiamo 4 dhiram a cranio e tu cosa ci servi, solo insulti e cazzate! Ma che razza di albergo è?»
Ci deve essere qualche cosa. Tom sbuffa, e seguito da Gisela avvolta in una specie di camicia da notte wagneriana, si avvia tutto penzolante all’appuntamento nel mellah.
Nella casa di Lee si svolgerà un acid party, un rinfresco piuttosto elettrico a base di kif, LSD e funghi sacri messicani portati da dottor Dick.

VERSO IL MELLAH

C’è da attraversare, ancora una volta, la piazza dei Trapassati; poi imboccare l’Attarine e addentrarsi in un dedalo inestricabile di stradine, di venuzze umide serpeggianti tra un muro e l’altro: corridoi coperti da tettoie di paglia da cui pendono miriadi di lampadine policrome: lunghi corridoi simili a sogni ramificati all’infinito e che vanno a perdersi nella massa confusa di case senza finestre e mura cieche oltre le quali non sai mai se si trovano giardini, scuderie, topaie o la tomba di qualche santo marabutto.
A poco a poco, Tom e Pedrita si trovano in uno spiazzo erboso con in fondo una fontana arabescata, dove gli artigiani hanno messo ad asciugare su tralicci di canne di bambù le lane colorate, appena tinte, fumanti di tinozza.
Tom ferma un ragazzo blu, una specie di Lucignolo in gellaba a righe metà gialle e metà fuksia e con in testa una casquette d’importazione con la scritta Hong Kong. Temendo di essere finito in uno dei soliti vicoli ciechi dell’Universo, chiede informazioni sul vicolo da imboccare a quel punto per arrivare nel mellah.
Il ragazzo gli risponde: «Moumtà, più in là.» Li scruta con attenzione e si offre di vendere loro del fumo o shit. In realtà si tratta di henné trattato con il caldo ferro da stiro della mamma per appiattirlo in bastoncini e farlo sembrare hashish.
Tom, che non è un turista sprovveduto, mangia la foglia e ringraziandolo cavallerescamente per l’offerta gli spiega, ancora una volta, come ha già fatto con Bachir, che lui è nella città rossa in missione speciale, non per gustare il primitivo.
Il ragazzo blu gira i tacchi, non senza voltarsi dopo pochi passi per gridargli dietro: «Sale juif.»
Seguitando a andare avanti e allungando il passo, con più impazienza che voglia, comincia a vedere caftani neri, papaline unte, volti lividi e smorti o con le guance colorate di un rosa di bambola. “Ma allora ci sono ancora gli ebrei! Non è vero che sono tutti emigrati in Israele o il Canada dopo la guerra dei sei giorni!”
Anche le stesse mercanzie, un frutto, un’arancia, un limone, una candela, i sacchi di zucchero, sembrano avere un’aria sporca e malata; e andando ancora, sempre per lo stesso derb, s’accorge d’essere ormai entrato nel mellah. In un mellah di altri tempi, forse è solo un’allucinazione.
Prova un certo ribrezzo a inoltrarsi, ma lo vince e controvoglia va avanti; ma più che s’inoltra, più il ribrezzo cresce, più ogni cosa gli dà fastidio. I cortili che intravede popolati da uomini, donne, bambini e animali gli rappresentano figure strane, deformi, mostruose. L’annoia un vegliardo cieco, seminudo, occupato a far girare una ruota nel fondo di una botteguccia illuminata dai fuochi verdi e gialli del rame che sta lavorando.
Lo stesso scrosciare delle sue babbucce nuove o il ticchettio che Pedrita fa camminando al suo fianco, hanno per il suo orecchio un non so che di odioso.
E andando giunge finalmente in fondo a una stradina improvvisamente buia.
Bussano a una porticina bassa e stretta, e Bachir li fa accomodare. “Ma allora è una trappola?” pensa Tom. Certo, Bachir ha bellissimi occhi di leopardo, è un tipo interessante eccetera. Ma quella situazione frocia è troppo per Tom.
Percorrono uno stretto corridoio e sbucano su un patio, con delle camere che si aprono tutt’intorno.
«Madame aussi! Tu portata anche signora bona bionda, tu forse volere divertire fack fack e nick nick ancora molto!» esclama Bachir, facendogli l’occhiolino. Clik!
“Ci siamo, pensa Tom. É il segnale convenuto”.
Dando inquieti sguardi in giro si dispone a varcare la soglia del patio, quando Bachir, che è preposto a questo ufficio, «Cinque dhiram!»  esclama. E, vedendolo tentennare e arrossire per la collera, gli ricorda, con sorriso indisponente, che tale prescrizione dipende dall’abitudine degli acid party organizzati da Lee: ognuno contribuisce con qualche dhiram, oppure porta il pane, la menta per il tè, gli acidi.
Certo, non è l'”altolà!” del Cherubino con spada fiammeggiante che impedisce l’accesso in giardino e fa gelare il sangue nelle vene, ma quella cosa gli secca, non gli proprio va giù. “Come, io debbo pagare per partecipare alla festa? Ma questi sono dei barbari, che invito è? “.
Fa la faccia scura, paga con aria infastidita, ed entra in una sala fiocamente illuminata da decine di candele, dove numerosi freaks, accovacciati su stuoie di rafia, tappeti e cuscini, si preparano al viaggio tra bastoncini d’incenso che bruciano, nuvole di kif dall’odore acre e un po’ ambrato, e i suoni bongo bongo bongo butù butù butù di alcuni irsuti giovanotti biondi che suonano tamburi e derbukà.

SBALESTRATO IN UN ALTRO MONDO

Now now now is the time time
time to be be be aware…

Nugoli di freaks, con i capelli irsuti alla Cristo, la fascia cingi-testa e i campanellini, sfarfalleggiano per la stanza: entrano, escono, battoni i piedi nudi sui tappeti.

… and flowing slightly from his toes
psychedelic nations fly.

Gli si avvicina una ragazza con i fiori nei capelli e, con aria da gattina, gli fa: «Chi sei, chi siamo, cosa stiamo facendo qui, siamo qui per fare la guerra o siamo qui per fare l’amore?… Ti va di ballare?»
Pedrita ha un tuffo al cuore e la guarda con sospetto.
«Sgomma», le dice. E, afferrata la mano del suo compagno, lo fa sedere accanto a sé, a gambe incrociate su un cuscino.
Tom si guarda intorno e osserva alla parete alcuni poster.
Sono inchiodati al muro con delle puntine di acciaio un po’ brunito e sono stati portati da Lee di ritorno dal suo viaggio in Nepal.
Sono dei buddha circondati da arcobaleni, dei bodhisattva seduti in meditazione su corolle di fiori di loto, bianchi dischi lunari e gialli dischi solari, troni di diamante sorretti da quattro leoni, aureolati da lingue di fiamme nere.
E nota le croci ruotanti che da un lato e dall’altro ornano i troni sfolgoranti. Pavritti e nirvritti. Evoluzione e involuzione.
La svastika ruotante verso destra rappresentava il flusso evolutivo dell’Universo, il sorgere o l’apparire della coscienza come reazione al sorgere dei sensi. Quella ruotante verso sinistra rappresentava il complementare flusso involutivo, il completamento, il ritorno della coscienza a sé stessa, al Sole Nero e al suo vuoto splendore.
Queste spiegazioni le si possono leggere studiando i libri che i freaks si portano negli zaini.
Ma a Tom non importa un fico secco del severo studio delle filosofie orientali, dello yoga o del Libro tibetano dei morti. Lui è un uomo d’azione, deve vendicarsi di tutti i padri e i professori del mondo e vuole fare tabula rasa, strappare tutti i libri e diventare sempre più ignorante, ridiventare innocente.
Certo vuole conoscere l’amore di cui Lee e i ragazzi vanno parlando in tutti i pisciatoi della Galassia, ma ha la paura di abbandonarsi e di fidarsi di un’altra persona. Teme l’intimità, fin da piccolo. E questa storia dell’avvento dell’Età dell’Acquario e l’elevazione del Nuovo Piano di Coscienza, di cui gli hanno parlato Lee e il dottor Dick, non lo convince, non molto.
Così, quando nota quelle svastike, ritirato in sé stesso, si stilla il cervello, perché mai le svastike gli erano state messe sotto gli occhi. Poi, dopo ha dato fondo a tutte le risposte possibili all’atroce questione, si gira verso Gisela e bisbiglia: «Uhm… c’è aria di cospirazione… questi sono nazisti.»
Del resto, quel Lee, il padrone di casa, non assomiglia forse a Charles Manson, l’assassino seriale statunitense divenuto celebre per essere stato il mandante del massacro di Sharon Tate e dei suoi amici a Cielo Drive? E Johnny, perché non ha voluto partecipare anche lui all’acid party?
Così, nel fumo del kif, il suono dei tamburi e tutte quelle luci policrome, vive la prima illuminazione o abbaglio di quella notte di Ramadan.
Proprio in questi termini: come se un estraneo, forse uno di quei migliaia di demoni o ginn che secondo la gnosi di Marrakech abitano fra cielo e terra, gli sia entrato nel cervello e stia usando la sua bocca.

In utero

 

Le dita minute si mossero accarezzando la stoffa. Lo smalto si intravedeva appena.

«Certo, ora sei una donnina» le aveva risposto quella volta la mamma, dandole il permesso di dipingersi le unghie mordicchiate.

«Sì, sono abbastanza grande» aveva ripetuto compiaciuta. «Tanto grande da fare un bambino, vero mamma?»

All’improvviso il volto della donna era caduto verso il basso. Gli occhi, le labbra, ogni cosa. L’espressione si era come liquefatta.

Stesa nel grigiore della sua cameretta, Daria ricordò i suoni della clinica. Il cigolare metallico dei carrelli che avanzavano nei corridoi. Il bip intermittente dei campanelli di chiamata. La luce di emergenza sempre accesa che proiettava ombre rossastre sui volti delle infermiere. Le voci. Il dolore.

Ricordò cosa si erano detti la mamma e il dottore mentre fingeva di dormire.

«Questa procedura è anomala. Asportare un utero perfettamente sano per scongiurare un’ipotetica gravidanza non è previsto da nessun protocollo, neppure nelle condizioni in cui è sua figlia.»

Daria non sapeva cosa significasse la parola ‘anomala’, né cosa fosse ‘un protocollo’, ma sapeva cosa fosse un utero.

Prese il libro posato sullo scaffale. I margini delle pagine erano anneriti per le tante volte che era stato sfogliato. Trovò il punto preciso in cui aveva ripiegato l’angolo del foglio formando un triangolo imperfetto: una sorta di segnalibro che le permetteva di ritrovare con facilità ciò che stava cercando.

Era l’immagine di un corpo di donna diviso a metà, per l’ennesima volta ne seguì i contorni. Una sezione verticale che ne mostrava l’interno, e lì focalizzò la sua attenzione; uno scrigno di carne che custodiva un esserino roseo e rannicchiato.

Ogni donna ne contiene uno, si disse con convinzione.

Lasciò per un attimo la siluette bidimensionale e iniziò a leggere sottovoce.

L’utero accoglie l’abbozzo cellulare destinato a divenire il feto. Il corpo della madre muta, per portare a termine la gravidanza e prepararsi al parto. L’utero raggiunge la sua posizione toccando quasi l’arco costale e gli organi hanno appena spazio sufficiente …

Daria non aveva compreso le parole del dottore ma sapeva cosa fosse un utero e cosa fosse una gravidanza.

La sua mano scese, soffermandosi sull’addome. La cicatrice in basso, nascosta tra la peluria, era un cordone frastagliato dal quale spuntavano, come zampe di ragno, i piccoli segmenti di filo nero con i quali era stata ricucita.

Una cosa aveva compreso bene, però: lì non c’era più nulla.

Un vuoto, infinito come un abisso, tanto profondo da non vederne la fine. Un buco che l’attraversava da parte a parte, o almeno così lei se lo immaginava.

Prese una penna e iniziò a disegnare sulla lucida carta di stampa. L’immagine che aveva abbozzato era semplice, pochi dettagli: un altro bambino, accanto al primo già contenuto nel grembo materno, e raffigurato sul libro. Al posto della bocca aveva un tratto netto, era un sorriso ma poteva sembrare una ferita. Poi la penna sembrò impazzire, guidata da una mano schizofrenica.

Le linee si sovrapposero, si intersecarono in diramazioni che correvano da una pagina all’altra. Poco dopo il disegno era divenuto un groviglio di segni neri e concentrici.

*

Fu svegliata da un sussurro. Non era la siepe di edera mossa dal vento, proprio fuori la sua finestra. Era un suono diverso, la voce di una bambina che la strappava dal sonno profondo.

Simona si mise a sedere sul letto, fu allora che vide una sagoma immobile nella lama di luce proiettata dal corridoio. Era troppo magra, la linea delle spalle inclinata verso destra.

Rimase a fissarla, tanto bastava per capire che si trattava di una presenza reale.

Daria. La consapevolezza fu una sorta di elettroshock. La ragazza fece un passo goffo nella sua camicia da notte bianca come intonaco, poi un altro, ciabattando sul parquet.

Prima di quel momento non si era mai accorta di quanto la veste da notte fosse divenuta corta, mettendo in mostra le gambe ossute in tutta la loro anatomia distorta.

Sua figlia la guardò con uno sguardo fisso, così inquietante da dubitare fosse lei. Anche il volto appariva bianco, e gli occhi erano solo due chiazze scure appese all’incarnato pallido.

La mia bambina, si disse Simona. Poi si ricordò che aveva diciannove anni, appena compiuti, ma i tratti del volto, stranamente adulti, conservavano un’ingenua crudeltà nello sguardo e nella piega sbilenca delle labbra.

«Daria… cosa c’è?» Simona sentiva su di sé una terribile espressione di vuoto, a un tratto la flanella della vestaglia era divenuta troppo leggera.

Daria avanzò ancora, la spalla destra sempre più bassa, e mentre lo faceva, la sua ombra si allungava. All’improvviso Simona sentì sua figlia vicina in un modo spaventoso. La ragazza le posò la testa in grembo, in un pauroso abbraccio. La guancia era fredda e umida come carne messa a scongelare.

La donna sentì stringersi i polmoni; il peso morto che aveva addosso rimaneva in attesa, auscultando il suo ventre. Quel pensiero la mise così tanto a disagio che cercò di sottrarsi, allontanandola da sé.

La ragazza barcollò all’indietro, rimanendo con le gambe leggermente divaricate e i piedi ritti, puntati ancora verso il letto.

«Non c’è più nulla qui» disse la ragazzina. Le dita dalle unghie rosicchiate, imbrattate di smalto color pervinca, sfiorarono il tessuto e scesero verso l’addome. E lì sostarono come le cinque zampe di un insetto pallido.

Simona riuscì a replicare con due o tre respiri profondi mentre la voce le rimaneva attaccata alla gola.

«Mamma dov’è il mio bambino?» le chiese Daria.

Fu come se l’avessero sepolta viva sotto la neve. Simona si ritrasse nel letto, le lenzuola erano divenute corde avviluppate alle cosce nude e le impedivano di alzarsi. Daria fece un altro passo in avanti.

La semioscurità invece di nasconderla rivelò un’altra parte di sé. Una parte che Simona non riconosceva, che non sentiva generata dal suo grembo.

La sua bambina non c’era più, era semplicemente svanita. Come se non ci fosse mai stata. Al suo posto vi era una giovane donna troppo magra, che si stagliava nel labile chiarore che entrava dalle tende tirate.

«Mamma dov’è il bambino…»

Nonostante la forma adulta e sottile, quasi spettrale, Simona poteva ancora riconoscere la voce infantile soffiata tra gli incisivi radi. L’aria spinta e risucchiata tra i denti produceva un breve sibilo, quasi un fischio di approvazione che le martellava le tempie.

Daria avanzò, questa volta rapida e ferina, con una mano protesa davanti a sé. Apparve uno scintillio, sottile come quello di una lama, grottesca appendice del suo arto.

Reggendo il coltello con entrambe le mani lo spinse a fondo nel ventre di Simona, appena sopra l’elastico delle mutandine, seguendo l’arco del pube rasato. Le parole e i respiri soffiati si unirono alle grida, tanto acute da sembrare ultraterrene.

Una ferita sottile, ricurva come un sorriso impreciso, si aprì nella pelle cadente.

Il corpo della donna fu agitato da un fremito improvviso. Si udì un suono strozzato, quasi un singulto, e poi un fiume scuro tinse le lenzuola.

Daria lasciò la lama. Infilò la mano nella cavità umorale e cercò in profondità, sondando parti dalla consistenza carnosa. Allargò l’incisione, slabbrandone i margini, e vi si immerse fino ai gomiti ossuti per cercare meglio. Nulla. Il ventre era vuoto.

La sua delusione si stemperò in una coltre fluida, qualcosa di diverso e inatteso che le lambiva la pelle, di cui le sembrava di conservare memoria. A un tratto fu accolta da un tepore denso e accudente. Materno. Uterino.

Daria pensò, che se fosse riuscita a entrarvi per intero, quell’antro avrebbe potuto accoglierla e custodirla di nuovo.

Shell- Incisione di Toshihiko Bito