Mezzanotte a Marrakech – Prima parte

Tom Gambino era un leader dei refrattari, un capellone sempre pronto a menar le mani, la faccia congelata in una smorfia perenne contro il “Sistema”. Oggi è sbarcato nella città rossa e si fa chiamare mister August Strindbnerg per depistare i servizi segreti. Gli sbirri, così crede lui, lo seguono da Milano – dov’è conosciuto come il Profeta bianco per aver guidato le manifestazioni contro la Bomba atomica, vestito con pantaloni bianchi in fibra di juta a zampa d’elefante, regalatogli dal commesso froscio di un negozio di abiti beat.
Il Profeta, nato durante la guerra, era di qualche anno più anziano dei suoi giovanissimi seguaci, e aveva anche cercato di costruire una tendopoli beat alla periferia della metropoli lombarda, elegantemente battezzata dai giornali di regime Nuova Barbonia, poi rasa al suolo con i lanciafiamme del S.I.D., Servizio Immondizie Domestiche del Comune di Milano.
Fuggito in Nordafrica con la compagna, la bionda Pedrita con una toppa su un occhio, e l’amico Johnny con in testa un cappellino da paggio, lo vediamo sedere solo in un caffè arabo proibito alle donne e ai bambini. Pur non capendo una parola sta studiando i gesti delle persone.
Le notti africane sono calde, febbrili. E ci sono tutti questi adolescenti refrattari che rollano spinelli e indossano pantaloni troppo stretti e magliette regalate loro dagli stranieri come se fossero trofei, scalpi. C’è qualcosa d’inaudito nell’aria e troppe cose nuove da ordinare nella mente.
A inquietarlo sono soprattutto gli uomini incappucciati seduti ai tavoli, chini come monaci in un refettorio, con in mano un cucchiaio di legno e il coltello nascosto nei calzini.
Gli emissari della CIA e del Mossad inviati a Marrakech per sorvegliarlo fanno finta di mangiare l’harira: una zuppa calda di lenticchie e vermicelli, una purea liquida, resa acidula dal pomodoro, profumata di coriandolo, bollente e molto piccante. Si puliscono il grugno con il rovescio della mano e lo fissano volgendo uno sguardo verso di lui, poi le pupille glissano come palline di mercurio e fingono di soffermarsi ad osservare il grande ritratto del re Hassan II che troneggia a una parete, sull’alto della cassa. Schizzi di zuppa e sguardi obliqui come coltellate.
Ma come cazzo hanno fatto a raggiungerlo fin qui nella città rossa? Dal giorno in cui Tom Gambino ha inventato la Contestazione Globale, invitando i giovani a lasciare la famiglia, la scuola, il partito e l’oratorio, e costretto De Gaulle a dare le dimissioni, i servizi lo seguono ovunque. E ciò che in un primo momento gli era apparsa calma e apatia orientale, ben presto gli sembra una maschera, dietro la quale avverte un’irrequietezza, un’eccitazione anzi, che egli riesce a spiegarsi molto bene. “Vogliono farmi fuori, per ordine del Vaticano e dei poteri occulti, ecco tutto”.
Tom esce precipitosamente dal caffè arabo. E per la strada tutto è cosi differente, diverso da prima, ci deve essere qualche cosa. Un passante ha uno sguardo cosi penetrante, forse è un detective. Poi passa un cammello che pare ipnotizzato, è come un cammello di gomma, come se fosse mosso da un meccanismo.
C’è tanta gente per la strada, ma non si vedono donne: solo uomini e cammelli, forse c’è qualche macchinazione, una realtà parallela di cui solo lui ha scoperto l’inganno. Tutta la gente fa rumore con gli zoccoli e lui camminando controcorrente di questo fiume umano ha la sensazione (niente di erotico, o forse sì) che ognuno abbia uno zob e che tutti questi zob, mentre li supera, siano allineati come un oggetto prodotto in serie ritmicamente impresso da uno stampo.
Deve esserci dietro qualcosa di non naturale. Gli uomini sono “mischiati”, essi sono “comparse”, hanno tutti un aspetto non naturale. E le insegne sulle case sono storte, le strade della medina hanno un aspetto così poco rassicurante.
Il minareto della Kutubia, tozzo e quadrangolare, sempre visibile da ogni punto della piazza Djemaa el Fna, l’Assemblea dei Trapassati, si erge nella notte sotto la mezzaluna come un grande indice ammonitore. Una volta qui il Sultano faceva esporre sui ganci alle porte della medina le teste mozzate ai ribelli, messe sotto sale e avvolte in carta stagnola luccicante.
Ovunque lo sguardo di Tom si posi, sorgono gli inevitabili riflessi della colpa o dell’innocenza. C’è tanta violenza invisibile, nell’aria. E ogni minimo fruscio al passaggio di una gellaba o di un paio di pantaloni produce nello straniero come un attrito, un fremito che pare comunicarsi a tutta la piazza dei Trapassati. Ginn, caproni, satiri e tori. Non si vede una donna in giro. Solo ginn, caproni, satiri e tori. La cintura della Bestia! Cose da uccidere l’infanzia e l’innocenza in un attimo.
Nella piazza sale da sotto i tavoli e i piedi caprini di quelle “comparse” una polvere rossastra che odora di sangue coagulato, di sterco d’asino e di paglia sminuzzata. La polvere e i vapori diventano così spessi al crepuscolo, nell’ora della grande frenesia, che le cose assumono un’aria fantasmagorica da incubo.
Improvvisamente cala il buio e in piazza si vedono solo forme bianche circolare silenziosamente, non collegate alla realtà che dal rumore dei tamburini lontani, sempre più isolati e fiochi. E quando la luna sorge sulle sagome nere frastagliate delle palme sbilenche dei giardini della Kutubia, le muraglie della città rossa si bagnano di un etereo chiarore.
Tom non può camminare per le strade della medina senza occhieggiare ogni singolo pedone. Ecco che un uomo in gellaba gli passa accanto in un risucchio d’aria e lo fissa con sguardo penetrante: ha un volto bianco incorniciato da una barba a mezzaluna e senza baffi, ma forse non è altro che il pulviscolo, l’efflorescenza di un minareto enorme, tozzo, radicale.
Chissà cos’era quello sfavillìo negli occhi, quel voltaggio nelle tempie. Certamente era il capo di quei monaci che soli, di notte, quando in strada più non si vedono né le donne né i bambini, schiumano i vicoli e la piazza deserta, scomparendo come fantasmi alla svolta di un derb. Dove, nell’Islam, non esistono veli e vicoli tortuosi?

Finalmente arriva all’hotel Huriyyat al Ganna, Pensione Paradiso delle Urì.
Sotto l’arcata buia di un vicolo, accanto alle tenebre bollicanti di un orinatoio pubblico, vede come in una nebbia Johnny e Pedrita. Li sente dire: «Ma dove sei stato, ti cercano tutti.»
Quando si apprestano ad entrare nel loro albergo, la più lurida tana del Nordafrica, un uomo nero, il giovane Bachir, esce dall’orinatoio adiacente l’hotel Huriyyat al Ganna e, stringendo al petto una rosa sporca di polvere, chiede: «Vous etes spagnol? frances? Taliani? Ah, taliani spaghetti caffè ristretto cazzo duro tu qui trovato posto bueno per fottere.»
Gisela lo fissa stralunata, a Johnny si rizza il pelo sul collo; e Tom, agitando le mani come per scacciare un insetto fastidioso, Belzebù, o un satiro peloso, l’essere più lubrico che abbia mai visto, scuote la testa: «Nà! nà! io qui in missione speciale mica sono venuto per gustare il primitivo.»
Un discorso davvero presuntuoso e duro. Tra acri odori.
Poi, si rivolge a Pedrita che lo segue incespicando in una lunga tunica stampata a fiori enormi, tremendi: «E cammina, pirla!» Lui è fatto così, è molto geloso, anche perché è di origini siciliane.
Bachir si tocca l’inguine con gesto volgare, plebeo. E Johnny sorride.

UN FRATELLO DELL’AMORE ETERNO

Lo spettro di quello scocciatore di Bachir con in mano una rosa sporca di polvere non si è ancora dileguato, quando Tom incontra Otis Cook detto Lee, un hippie barbuto ex Hell Angel’s, anche lui appena sbarcato nella città rossa, che lo invita a un acid party.
«É un’occasione meravigliosa!» esclama Johnny.
E spiega che Lee, che somiglia a Rasputin, ha gettato alle ortiche il suo giubbotto con sopra il teschio con l’elmetto e le ali, e si è convertito alla cosa psichedelica. Ora proviene dal Nepal da dove lo hanno espulso; c’è voluta una unità della Brigata Gurkha per sbatterlo giù dall’Annapurna perché voleva edificare con un gruppo di fuggitivi un tempio al Sole proprio dove il governo preparava alberghi per i turisti.
Ora, battuto, sbattuto e beato, si proclama King of hippies; ed è passato a far visita ai freaks dell’hotel Huriyyat al Ganna, dove fa girare aggratis un ottimo acido. Ha affittato una grande casa, un riad nel mellah, il quartiere ebraico della città rossa, ed è sempre pieno di dollari, che va a ritirare all’Americ Express, seguito da una torma di adepti.
Tom ne è un po’ geloso, e i ragazzi dicono che Otis Cook detto Lee è un membro di The Brotherhood of Eternal Love: la “mafia hippie” dice l’ FBI, a caccia di un’organizzazione di consumatori e distributori di hashish e LSD che opera in tutto l’universo mondo e organizza baccanali a partire da Orange County, in California.
L’LSD è una nuova droga così euforica, espansiva e visionaria, ma anche un’impietosa pietra di paragone per diagnosticare i divorzi culturali tra chi è out e chi è in, come un arrosto di porco tra un cristiano e un musulmano, o un antenato cotto a puntino tra un cannibale e una suora missionaria.
Lee deve essere certamente un amico di Johnny; e anche di dottor Dick, un ragazzo olandese che va in giro in un caftano color albicocca suonata, agitando un lungo bastone stravagante comprato al moussem o fiera di Sidi Moulay Brahim, il re dei ginn.
Non è un vero dottore e vuole diventare un sufi. Prima di convertirsi all’Amore Universale, alla Pace Perpetua e ai Fiori Sempre Freschi è stato infermiere diplomato e porta con sé bende, tintura di iodio per le sbucciature e tanto tanto Mom per le piattole.
«C’è n’è per tutti, ragazzi, offre la nostra associazione Brotherhood of Eternal Love.»
Volendo può trapanarti il cranio per attivare la ghiandola pineale e far salire su la Kundalini, ma Tom è un po’ scettico: dice che, nelle sue condizioni di Wahnstimmung, cioè umore delirante, l’ultima cosa di cui ha bisogno è un buco in testa.
Ad ogni modo, dottor Dick è anche capace di cavarti un dente cariato o inciderti un bubbone per pochi dhiram.
A Marrakech la vita non è cara. E tutti sono invitati all’acid party.
Così una sera di Ramadan Tom si avvia con Pedrita verso la casa in cui Lee abita con la sua corte di freaks nel mellah, il quartiere ebraico. Per l’occasione ha comprato al suk un paio di babbucce gialle, un gilettino arabescato e un seroual, quei larghi pantaloni arabi da harem legati con un laccio alle caviglie. Ecco Tartarino in Africa.
«Nà, io non vengo » annuncia Johnny quando lo vede conciato a quel modo. «Nà, nà, sul serio…»
Muhammad, il padrone dell’hotel, disteso su una stuoia di rafia sul ciglio della strada a prendere il fresco sulla porta, accanto a un mucchio di passaporti di tutte le nazioni, o forse di nessuna, li osserva con curiosità.
«Asciumà! che vergogna» borbotta tra i denti, sgranando il suo rosario venuto dalla Mecca. «Europei tutte puttane, tutte finocchie, tutte sioniste! »
Dottor Dick insorge, facendo roteare il suo lungo bastone stravagante.
«Ehi, fratello! Qui ti paghiamo 4 dhiram a cranio e tu cosa ci servi, solo insulti e cazzate! Ma che razza di albergo è?»
Ci deve essere qualche cosa. Tom sbuffa, e seguito da Gisela avvolta in una specie di camicia da notte wagneriana, si avvia tutto penzolante all’appuntamento nel mellah.
Nella casa di Lee si svolgerà un acid party, un rinfresco piuttosto elettrico a base di kif, LSD e funghi sacri messicani portati da dottor Dick.

VERSO IL MELLAH

C’è da attraversare, ancora una volta, la piazza dei Trapassati; poi imboccare l’Attarine e addentrarsi in un dedalo inestricabile di stradine, di venuzze umide serpeggianti tra un muro e l’altro: corridoi coperti da tettoie di paglia da cui pendono miriadi di lampadine policrome: lunghi corridoi simili a sogni ramificati all’infinito e che vanno a perdersi nella massa confusa di case senza finestre e mura cieche oltre le quali non sai mai se si trovano giardini, scuderie, topaie o la tomba di qualche santo marabutto.
A poco a poco, Tom e Pedrita si trovano in uno spiazzo erboso con in fondo una fontana arabescata, dove gli artigiani hanno messo ad asciugare su tralicci di canne di bambù le lane colorate, appena tinte, fumanti di tinozza.
Tom ferma un ragazzo blu, una specie di Lucignolo in gellaba a righe metà gialle e metà fuksia e con in testa una casquette d’importazione con la scritta Hong Kong. Temendo di essere finito in uno dei soliti vicoli ciechi dell’Universo, chiede informazioni sul vicolo da imboccare a quel punto per arrivare nel mellah.
Il ragazzo gli risponde: «Moumtà, più in là.» Li scruta con attenzione e si offre di vendere loro del fumo o shit. In realtà si tratta di henné trattato con il caldo ferro da stiro della mamma per appiattirlo in bastoncini e farlo sembrare hashish.
Tom, che non è un turista sprovveduto, mangia la foglia e ringraziandolo cavallerescamente per l’offerta gli spiega, ancora una volta, come ha già fatto con Bachir, che lui è nella città rossa in missione speciale, non per gustare il primitivo.
Il ragazzo blu gira i tacchi, non senza voltarsi dopo pochi passi per gridargli dietro: «Sale juif.»
Seguitando a andare avanti e allungando il passo, con più impazienza che voglia, comincia a vedere caftani neri, papaline unte, volti lividi e smorti o con le guance colorate di un rosa di bambola. “Ma allora ci sono ancora gli ebrei! Non è vero che sono tutti emigrati in Israele o il Canada dopo la guerra dei sei giorni!”
Anche le stesse mercanzie, un frutto, un’arancia, un limone, una candela, i sacchi di zucchero, sembrano avere un’aria sporca e malata; e andando ancora, sempre per lo stesso derb, s’accorge d’essere ormai entrato nel mellah. In un mellah di altri tempi, forse è solo un’allucinazione.
Prova un certo ribrezzo a inoltrarsi, ma lo vince e controvoglia va avanti; ma più che s’inoltra, più il ribrezzo cresce, più ogni cosa gli dà fastidio. I cortili che intravede popolati da uomini, donne, bambini e animali gli rappresentano figure strane, deformi, mostruose. L’annoia un vegliardo cieco, seminudo, occupato a far girare una ruota nel fondo di una botteguccia illuminata dai fuochi verdi e gialli del rame che sta lavorando.
Lo stesso scrosciare delle sue babbucce nuove o il ticchettio che Pedrita fa camminando al suo fianco, hanno per il suo orecchio un non so che di odioso.
E andando giunge finalmente in fondo a una stradina improvvisamente buia.
Bussano a una porticina bassa e stretta, e Bachir li fa accomodare. “Ma allora è una trappola?” pensa Tom. Certo, Bachir ha bellissimi occhi di leopardo, è un tipo interessante eccetera. Ma quella situazione frocia è troppo per Tom.
Percorrono uno stretto corridoio e sbucano su un patio, con delle camere che si aprono tutt’intorno.
«Madame aussi! Tu portata anche signora bona bionda, tu forse volere divertire fack fack e nick nick ancora molto!» esclama Bachir, facendogli l’occhiolino. Clik!
“Ci siamo, pensa Tom. É il segnale convenuto”.
Dando inquieti sguardi in giro si dispone a varcare la soglia del patio, quando Bachir, che è preposto a questo ufficio, «Cinque dhiram!»  esclama. E, vedendolo tentennare e arrossire per la collera, gli ricorda, con sorriso indisponente, che tale prescrizione dipende dall’abitudine degli acid party organizzati da Lee: ognuno contribuisce con qualche dhiram, oppure porta il pane, la menta per il tè, gli acidi.
Certo, non è l'”altolà!” del Cherubino con spada fiammeggiante che impedisce l’accesso in giardino e fa gelare il sangue nelle vene, ma quella cosa gli secca, non gli proprio va giù. “Come, io debbo pagare per partecipare alla festa? Ma questi sono dei barbari, che invito è? “.
Fa la faccia scura, paga con aria infastidita, ed entra in una sala fiocamente illuminata da decine di candele, dove numerosi freaks, accovacciati su stuoie di rafia, tappeti e cuscini, si preparano al viaggio tra bastoncini d’incenso che bruciano, nuvole di kif dall’odore acre e un po’ ambrato, e i suoni bongo bongo bongo butù butù butù di alcuni irsuti giovanotti biondi che suonano tamburi e derbukà.

SBALESTRATO IN UN ALTRO MONDO

Now now now is the time time
time to be be be aware…

Nugoli di freaks, con i capelli irsuti alla Cristo, la fascia cingi-testa e i campanellini, sfarfalleggiano per la stanza: entrano, escono, battoni i piedi nudi sui tappeti.

… and flowing slightly from his toes
psychedelic nations fly.

Gli si avvicina una ragazza con i fiori nei capelli e, con aria da gattina, gli fa: «Chi sei, chi siamo, cosa stiamo facendo qui, siamo qui per fare la guerra o siamo qui per fare l’amore?… Ti va di ballare?»
Pedrita ha un tuffo al cuore e la guarda con sospetto.
«Sgomma», le dice. E, afferrata la mano del suo compagno, lo fa sedere accanto a sé, a gambe incrociate su un cuscino.
Tom si guarda intorno e osserva alla parete alcuni poster.
Sono inchiodati al muro con delle puntine di acciaio un po’ brunito e sono stati portati da Lee di ritorno dal suo viaggio in Nepal.
Sono dei buddha circondati da arcobaleni, dei bodhisattva seduti in meditazione su corolle di fiori di loto, bianchi dischi lunari e gialli dischi solari, troni di diamante sorretti da quattro leoni, aureolati da lingue di fiamme nere.
E nota le croci ruotanti che da un lato e dall’altro ornano i troni sfolgoranti. Pavritti e nirvritti. Evoluzione e involuzione.
La svastika ruotante verso destra rappresentava il flusso evolutivo dell’Universo, il sorgere o l’apparire della coscienza come reazione al sorgere dei sensi. Quella ruotante verso sinistra rappresentava il complementare flusso involutivo, il completamento, il ritorno della coscienza a sé stessa, al Sole Nero e al suo vuoto splendore.
Queste spiegazioni le si possono leggere studiando i libri che i freaks si portano negli zaini.
Ma a Tom non importa un fico secco del severo studio delle filosofie orientali, dello yoga o del Libro tibetano dei morti. Lui è un uomo d’azione, deve vendicarsi di tutti i padri e i professori del mondo e vuole fare tabula rasa, strappare tutti i libri e diventare sempre più ignorante, ridiventare innocente.
Certo vuole conoscere l’amore di cui Lee e i ragazzi vanno parlando in tutti i pisciatoi della Galassia, ma ha la paura di abbandonarsi e di fidarsi di un’altra persona. Teme l’intimità, fin da piccolo. E questa storia dell’avvento dell’Età dell’Acquario e l’elevazione del Nuovo Piano di Coscienza, di cui gli hanno parlato Lee e il dottor Dick, non lo convince, non molto.
Così, quando nota quelle svastike, ritirato in sé stesso, si stilla il cervello, perché mai le svastike gli erano state messe sotto gli occhi. Poi, dopo ha dato fondo a tutte le risposte possibili all’atroce questione, si gira verso Gisela e bisbiglia: «Uhm… c’è aria di cospirazione… questi sono nazisti.»
Del resto, quel Lee, il padrone di casa, non assomiglia forse a Charles Manson, l’assassino seriale statunitense divenuto celebre per essere stato il mandante del massacro di Sharon Tate e dei suoi amici a Cielo Drive? E Johnny, perché non ha voluto partecipare anche lui all’acid party?
Così, nel fumo del kif, il suono dei tamburi e tutte quelle luci policrome, vive la prima illuminazione o abbaglio di quella notte di Ramadan.
Proprio in questi termini: come se un estraneo, forse uno di quei migliaia di demoni o ginn che secondo la gnosi di Marrakech abitano fra cielo e terra, gli sia entrato nel cervello e stia usando la sua bocca.

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