La bambola

Aprì la porta di casa e fu sommerso dall’arancione torbido del sole al tramonto, incandescente oltre le vetrate del salotto mentre allentava la presa sulla città riarsa. Buttò la giacca del vestito sul divano e raggiunse in fretta il bagno, slacciandosi la cintura ancor prima di mettervi piede. Erano tre ore che resisteva.
Una volta liberatosi, con i gomiti appoggiati sugli adduttori grassi e la testa in bilico sugli avambracci, attese fino a che alla rilassatezza del corpo non seguì quella della mente.
Casa. Riposo. Svago. Si fece il bidè con le scarpe ancora ai piedi, canticchiando un motivetto che aveva sentito alla radio, poi si asciugò e si diresse in camera.
Digitò il codice sul tastierino numerico dell’enorme cabina armadio, che si dischiuse con un sibilo. In mezzo all’intrico di membra e indumenti, la scorse e sorrise.
«Eccola qui, la mia favorita».
Premette il bottone di scorrimento del nastro del guardaroba fino a che non se la ritrovò davanti. Con un braccio la cinse sotto le spalle e con l’altro le tenne alte le ginocchia, sfilandola dal sostegno. La adagiò sopra le lenzuola e la fissò rapito, disorientato dal moto di tenerezza che sentiva propagarsi nel petto.
«Non vedi che sorrido come un ebete solo per te, bambolina mia?»
Lo scomparto dell’interruttore alla base del collo era soltanto socchiuso e con delicatezza lo premette per ricreare l’illusione di una pelle omogenea. Oh, se era bella in lingerie… La sistemò sopra al letto sul fianco e le spostò una delle braccia sotto alla testa, accarezzandone la cascata di riccioli neri. Le piegò leggermente l’altro braccio e ne appoggiò la mano – piccola farfalla di velluto – sopra all’anca, per poi proseguire a tracciare con il dito tozzo e carnoso la traiettoria della gamba fino alla caviglia. Si sdraiò di fronte a lei e le sfiorò le labbra semiaperte e il margine degli occhi spenti. («E questo nasetto quanto è carino?») Poi di nuovo giù fino alla gola e al seno minuto. Il nero le donava, rifletté, il pizzo non molto. La bambola perse l’equilibrio precario nel quale l’aveva posta e gli cadde quasi addosso, sprofondando con il viso tra i cuscini.
«Quanta fretta» ridacchiò lui. «Un po’ però ti capisco, birichina che sei».
Pigiò il portellino dello scomparto all’altezza della clavicola, che si aprì rivelando una minuscola leva. L’uomo la abbassò e richiuse in fretta. Il volto femminile si animò.
«Ciao» proferì la bocca in un sorriso deliziato. «Era da un po’ che non venivi a trovarmi».
Non era vero, ma lui stette al gioco. «Lo so. Al lavoro sono settimane di inferno. Ma oggi ho insistito per staccare prima. Solo per te».
Lei rise e iniziò a strofinargli il cavallo dei pantaloni con la mano. «Mi sei mancato, fagottino».
Lui non poté fare a meno di chiedersi che cosa vedessero quegli occhi dalla pupilla lattiginosa. Espirando emise un gemito e si rese conto che la sua erezione era già tenace. Lei scese in basso e si mise ad armeggiare con la cintura. Non appena riuscì a sbottonargli i pantaloni gli afferrò il membro e iniziò a massaggiarlo con una mano, mentre con l’altra toccava se stessa.
«Vieni qui» disse allargando le gambe e scostando di lato le mutandine, e guidò il pene ingrossato dell’uomo dentro di sé.
Che cosa vedeva mentre lui la penetrava? Vedeva davvero qualche cosa? Scopandola se lo chiese diverse volte, anche quando lei si mise a pecorina e lo supplicò di prenderle il culo, fino a che non si chiese più niente e le rovinò addosso ansimando, sfocato nell’esplosione umida dell’orgasmo.
La lasciò giocare con i suoi capelli per qualche minuto, poi la spense e le abbassò le palpebre.
Si raddrizzò e gettò uno sguardo fuori dalla finestra, dove il sole era scomparso dietro le gibbose alture del margine occidentale della città. Un lento imbrunire stava offuscando la verità dei corpi e della materia tutta, ma la luce artificiale dei lampioni avrebbe presto impedito loro di sciogliersi nel buio.
Recuperò sigarette e accendino dalla giacca in salotto e se ne accese una.
Si sedette sul letto con la schiena appoggiata alla testiera e rimase per un po’ a fissare la figura bronzea che giaceva inerte al suo fianco.
Sentì il telefono squillare e lo recuperò dal comodino, ma rifiutò la chiamata: chiunque lo stesse cercando non era nella sua rubrica. Il numero però chiamò subito una seconda volta, così si rassegnò a rispondere.
«Pronto?»
«Pronto, il signor Oliviero?»
A conoscerlo con quel nome erano soltanto i fittavoli delle palazzine e la voce non gli era nuova.
«Chi parla?»
«El Amein. Sono la moglie di El Amein Khaleb».
Il nome portò con sé una faccia, poi un’altra. Lui alto, barbuto e macilento, spezzato già prima dell’ingresso in Italia e della vita di espedienti che conduceva. Lei bassa, naso schiacciato, all’inizio corpacciuta, ma prosciugata dalle chemio per il cancro al seno.
«Signora El Amein, qual buon vento! Come vanno le terapie? Presumo che chiami perché ha qualcosa di nuovo da dirmi sugli arretrati. Sbaglio?»
«Sì, signor Oliviero, per gli arretrati».
Figuriamoci. Dove sarebbe mai andato a prenderli quel buono a nulla del marito? Tra pigione e cure mediche erano un mucchio di soldi.
«Può versarli entro la fine della settimana?»
«Tutti gli arretrati no. Entro fine settimana no, ma mio marito ha trovato lavoro. Fra due settimane gli danno lo stipendio. Possiamo…».
«… e allora» la interruppe quasi con sollievo «direi che è il caso di parlarne tra due settimane, non crede?»
«Ma lo stipendio arriva. Ma…» l’uomo udì un rantolo e poi nulla per una decina di secondi. Aspirò una boccata di fumo e spostò il posacenere dal comodino alla schiena della bambola.
«Mi dica per favore, signor Oliviero… Yasmin sta bene? La mia Yasmin sta bene?»
Lui passò le dita della mano libera tra le natiche del corpo immobile. Vai a sapere…
«Mai stata meglio» rispose nel suo tono più rassicurante.
Poi riattaccò.

Opera di Iya Consorio – Barrioquinto

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