Mezzanotte a Marrakech – Seconda parte

” QUESTI SONO GLI ULTIMI NAZISTI”

«Si sono radunati a Marrakech?»  chiede Pedrita, a bassa voce, quasi senza voce. Lei muove le dita dei piedi e gli dà sempre ragione.
I manuali di regime la chiamano “folie à deux” e pare sia una rara sindrome psichiatrica nella quale un sintomo di psicosi (spesso una convinzione delirante, di tipo paranoica) viene trasmessa da un individuo all’altro.
Tom ode come un colpo di pistola al silenziatore.
Si guarda intorno, come per cercare conforto, e vede Pedrita seduta immobile con gli occhi vitrei e tanti ragazzi scalzi, ignari di essere capitati nella rete di un’organizzazione mondiale di nazisti.
E Bachir, laggiù in fondo, un cane, anche lui fa parte del complotto di questa maledetta setta.
Torna a guardare Pedrita e bisbiglia: «Ssst…tenteremo di metterci in salvo. Johnny, quel Giuda, ci ha traditi. Porteremo Bachir con noi come ostaggio e testimone. È  l’unica via d’uscita.»
Lui è un campione nell’organizzare strategie di fughe, non a caso ha preso Spartacus, Alessandro il Grande e Napoleone Bonaparte come suoi modelli di vita e di azione.
Intanto un ragazzo con gli occhi a mandorla, un giapponese seduto accanto a lui, gli passa una zolletta di zucchero.
Tom la considera con gravità un minuto buono come se non riuscisse a capire che roba sia, poi deciso dice: «Thanks», e la prende con due dita.
«It eats!» gli fa il giapponese, e lui la butta giù.
Quella roba che gli scivolava in bocca dolce dolce era LSD.
Mentre succhia la zolletta di zucchero si mette a osservare un capellone che, salito sulle spalle di due compagni, avvita una lampadina per illuminare il patio. La lampadina si accende e Tom sente una scarica elettrica nel cervello. Poi una girandola di colori incandescenti e lampi. Afflitto dai lampi stringe i denti. Infine una colata di fuoco nel cervello. “Sarò forte”. E stringe ancora i denti.
È fatto così, è il suo temperamento: stringendo il capo di una corda con un altro tizio all’altro capo che tira, preferirebbe rompersi il muso piuttosto che lasciare la presa e c’era per esempio quella storia di braccio di ferro in cui faceva piegare i più forzuti, benché a ben guardare la taglia delle sue braccia non fosse particolarmente muscolosa, ma a curarsi e a irrobustirsi ci avrebbe pensato dopo essere sfuggito al delirio.
Spiccato il volo, ha visioni di facce facce facce, tante facce che s’accumulano sotto le palpebre, facce mai viste prima, con zigomi spettrali, occhi scintillanti che, aperti, gli sembrano chiusi e, chiusi, gli sembrano aperti… Tom comincia ad avere così visioni palpebrali di facce venute da fuori, dal nulla. Quando ecco all’improvviso un volto conosciuto: lo spettro di suo padre morto e stramorto, con la faccia di diavolo che fa: “Ti ricordi di me?”, e gli dà uno schiaffo.
Poi arriva una specie di vescovo o di papa con chele di granchio che gli dà una puncicata ai coglioni e gli mostra il suo certificato di battesimo e anche un foglio di via.
Intanto, in un grande sssssssss, come il ronzio che si sente tra molte api, una voce gli ricorda che i veri uomini non si lasciano mai andare ma pisciano contro i muri a gambe larghe e pensano a tenere alto lo stendardo della Resistenza.
A tale proposito ricorda che una volta, quando era al Liceo di Trapani, ha scritto anche una poesia, che faceva così:

O Venere Afrodite,
levo a te, o Dea, e libo,
e pervaso da Priapo
tendo la nerchia tremula
ricurva
al tuo ovario,
perché compiaciuta di me
e di quanti
così intensamente ti adoriamo,
tu conceda l’Eroe
che ci conduca
per aspera ad astra.

“Idiota” aveva pensato Johnny, quando la lesse.
E ora Tom fa tutta una storia per non lasciarsi andare e non mollare, perché questo non è un acid party nel mellah, ma una notte che non somiglia alle altre notti ma sa di fuga e d’imboscata.
Una voce sonnacchiosa, che proviene da un grande sipario trapunto di stelle che brillano chiare, quasi frenetiche, ha appena finito di dire: “Al diavolo dio. Viva il diavolo e viva la minchia”.
E lui cavalca, e impugna la scimitarra, facendo appello all’antica tradizione dei masculi di Saracenia.
Perché questa è una notte elettrica, che, nei suoi pensieri, è La Notte in cui Lee vuole metterlo alla Prova.
Gli farà vedere chi è Tom Gambino: un osso duro che alla fine pianterà sulla vetta la propria bandierina.
Quando si è braccati da una banda di nazisti che vogliono usarti come cavia per i loro mostruosi esperimenti occorre resistere resistere resistere.
Resistere a cosa? Non lo sa bene ma continua a stringere i pugni ed ecco il freak out.
E troppo concentrato su sé stesso. E più cerca di resistere all’acido più entra in una  appuntita foresta di difese.
Come se stesse in una classe alza due dita in aria e chiede il permesso di andare sul terrazzo.
Nessuno ci fa caso, e lui si alza barcollando; scorge una scala stretta e unta, e sale su, di slancio, come una capra.
Sbuca così sul tetto della casa, una terrazza bianca di calce illuminata dal chiarore della luna di traverso al cielo.
Nel panico si affaccia su Marrakech e vede palazzi da Mille e una notte, sfolgoranti di marmi, di cristalli e di luci sotto un cielo di panni stesi ad asciugare.
Com’è possibile, fra tanta bellezza, che i vescovi e i nazisti si stiano preparando a fargli la festa? È veramente una follia, ma c’è anche qualcosa di dolce, una musica, come la voce di Pedrita che lo sta abbandonando. Come mai? “Semplice: l’anagramma di PEDRITA non è forse PERDITA?”.
Lo sente che l’avrebbe persa e a dirglielo è la stessa voce di sua madre che già lo aveva abbandonato, per quell’altro.
Tutti siamo stati abbandonati, ma abbiamo voluto dimenticarlo. Lui invece deve ricordarsene e procurare piacere a tutte le donne e riparare a tante ingiustizie. E questo il suo karma perché lui ha questa missione dongiovannesca e ce l’ha pure duro grosso, perché da piccolo lo hanno nutrito con testicoli di toro e rognoni, per cui resiste e deve resistere, con “nerchia tremula”, a quel lavaggio del cervello.
Mai avute sensazioni così. Da convincerlo che qui c’è una vera presenza a capo di quei bodhisattva nazisti e mostruosi androgini laggiù. Il pensamento di Tom? “Certamente mi stanno sottoponendo a una prova di tipo sciamanico”.

RONDINI ELETTRICHE SULLA TERRAZZA

Sta per albeggiare, una sensazione di fresco e quasi di gelo. Si vede Tom, sciamannato, disteso supino su un materasso in un angolo, accanto a una tettoia sotto la quale è legata a un palo una capra con oggi gialli, da pazzo.
Ogni tanto da degli strattoni alla corda, e raschia il suolo con le unghie: forse sa che tra poco verrà sgozzata, la testa rivolta verso la Mecca, per la festa dell’Aid el Kebir.Non c’è festa senza sangue?, sembra chiedergli la povera capra.
Tom alza gli occhi al cielo e vede due rondini elettriche volare in un cielo fosforescente e blu.
All’improvviso una delle rondini ha le ali in fiamme, non si sa come sia potuto accadere una cosa del genere: lo scoppio di una malattia veramente mortale e contagiosa.
La rondine zirlisce e sbatte follemente le ali: una vera tortura gratuita, astratta e caduta dal cielo, e l’altra rondine, una specie di gemello con la faccia di Johnny si posa su un cornicione della terrazza e la guarda fare.
La compagna brucia, si contorce, si vive da sola quel melodramma e la sua fine imminente… batte le ali e tende il becco e batte le ali alla velocità di un aeroplano, proprio quel che non bisogna fare per via delle fiamme… che aumentano, crepitano, tuonano e l’avvolgono fino al becco. La rondine lancia crepando un tenero e quasi inaudibile zi-zi.
C’è un po’ di fumo e un leggero mucchio di ceneri che cade sul terrazzo in finissima polvere roteante.
Tom rovista quella polvere con la punta della babbuccia e vede che non c’è che il becco di solido e l’altra rondine vola via e poi Tom ha di nuovo un’apparizione del Diavolo aureolato da un suo caratteristico sex appeal spettrale.
In un silenzio di morte Tom sente la Voce di Lucifero tuonare nel cielo di Marrakech diventato una cupola di fuoco scarlatto-ardente.
E sorge una specie di meraviglia, di verità ultima che il discorso non può contenere, forse perché il discorso di Lucifero è incompatibile con le menzogne rassicuranti e le illusioni che ci permettono di vivere.
Solo vuota cornice di spavento.
Anche perché Tom non ha più la testa né i bronchi o i polmoni, e tuttavia sente voglia di fumare.
E Lucifero gli parla in dialetto siciliano, nella lingua dolce di sua madre vestita di nero, ma non raggiunge la testa: gli parla nel petto. E quando le tristissime parole fatali arrivano alla testa rimbalzano indietro, perché al posto della testa c’è una placca metallica.
Tom si distende supino in un angolo detta terrazza, su un materasso pataccato, lacerato, impidocchiato e incimiciato.
Ci sono lampi dappertutto.
Questa violenza che gli fa la Voce di Lucifero dura non più di due ore, che a lui sembrano però un’eternità.
Intanto, da una terrazza contigua un gruppo di ragazzi di strada avvinazzati lo sta osservando.
Tre o quattro di loro si danno di gomito: «Guardate chi c’è laggiù. La mamma mi ha detto che gli hippià mangiano i gatti”.
Scavalcano un muretto bianco di calce; gli abbassano il seroual, e messolo sottosopra se lo scopano a turno.
Si chiama “faire touiza”, una pratica di solidarietà tradizionale nel mondo rurale maghrebino caratterizzata dal principio di aiuto reciproco nel lavoro dei campi.
Poi se ne andranno vantandosene per tutti i vicoli della medina come se avessero compiuto chissà quale virile performance ai danni di uno sciumunito di kafirun, un infedele che ha osato penetrare nel loro territorio.
Sono cose che accadono quando dalle crepe di una compagine civile riaffiora la forma più arcaica di assembramento umano: la “muta di caccia” appresa dai branchi di lupi e pronta a sbranare un grosso animale, specialmente se debole e ferito.

IL DEMONE DEL RAMADAN

Il mattino, quando Bachir accompagna Tom all’hotel Huriyyat al Ganna, Pensione Paradiso delle Urì, non è bello a vedersi. Desolato e abbattuto da quei turpi eventi, si lascia condurre per le vie di una città dove aleggia il grande silenzio che segue le battaglie.
Dopo quelle ore frenetiche in cui i muezzin hanno lanciato le loro lunghe e gracchianti invocazioni nell’etere della notte, seguite dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere, e dopo le musiche, le feste, i pasti, le visite da una casa all’altra, si è installato il Ramadan.
Molti magazzini sono chiusi. Sarà difficile trovare un caffè aperto. A piazza Jamaa el Fna solo l’Ere Nouvelle serve gli occidentali venuti a prendere la loro prima colazione. I maghrebini siedono davanti a tavolini vuoti e attendono, gli occhi persi nel vuoto perché questi sono giorni in cui non si deve mangiare niente, bere niente, non fumare, non avere relazioni sessuali dall’alba al tramonto. E i muezzin si fanno sentire più del solito.
Molti sono malati e alquanto nervosi. Tutti hanno la nausea prima di abituarsi al nuovo regime fatto di digiuno durante il giorno e di festini a base di datteri di Zagora, di harira bollente e di dolci al miele durante le agapi notturne.
Stanchezza, fame, sete, calore, niente da fare tutto il giorno, non musica, una distanza ancora più grande tra i sessi durante il giorno, impressione di un tempo sospeso, arrestato e pesante come uno straccio bagnato, impressione di vuoto e di inutilità.
Questo è il clima della città nordafricana quando Tom viene accompagnato da Bachir fuori dal mellah. Bachir lo regge da un lato e Lee dall’altro.
Ha sempre quei larghi pantaloni bianchi da harem, il seroual, ma con le gambe che gli arrivavano una alla caviglia, l’altra al ginocchio, e la barba arruffata, gli occhi da maniaco e la bocca impastata.
Avanza barcollando come dopo un terremoto, uno tsunami o un luna park, e prova una sensazione di grasso gelido. Non può far nulla contro quell’allucinazione collettiva che gli pare il Ramadan.
Il sangue dei caproni sgozzati dai padri di ogni famiglia del quartiere musulmano scorre a rivoli lungo i marciapiedi e sbiadisce mescolandosi all’acqua che scivola nei tombini formando qua e là pozzanghere iridescenti fra la brina e la rugiada della notte.
Nessuna parola comune si adatta al ritmo della città, nessuna scala darà mai un senso al diavolo del Ramadan che gli è apparso quella notte.
Non sa se stava sulla scala che portava al Paradiso o se stava per andare diritto all’inferno.
Ma ecco che una piccola onda batte contro di lui, come contro uno scoglio scivoloso. Ecco Pedrita. Completamente succube, con i capelli scarmigliati, cerca di parlargli. Una bella coppia di zombi.
I due mabùl vengono portati in processione attraverso il mellah, l’Attarine e piazza Jamaa el Fna, fino a derb Sidi Bouloukate dove sorge l’hotel Huriyyat al Ganna.
Muhammad, il padrone dell’hotel che ai tempi del Protettorato aveva ospitato con più decoro ufficiali francesi, li accoglie dicendo: «Io ve l’avevo detto.»
Tom Gambino e Pedrita sembrano due cavie sopravvissute a qualche mostruoso esperimento, appena uscite dal laboratorio del dottor Test, il primario del manicomio di Berrechid, quello sulla via di Casablanca dove all’inizio della stagione turistica la polizia di re Hassan II porta tutti i mendicanti, gli storpi e i vagabondi che riesce ad acchiappare qua e là, per ripulire un po’ la piazza dei Trapassati.
E il mattino presto e nel cortile dell’hotel della città rossa si odono voci concitate e rauche.
«È il mio turno, eh, mi vogliono fare.»
«Non so, penso di sì, cioè… »
«Tu sei Pedrita ? »
«S-sì. »
«Allora sei Pedrita perduta? »
«Hmm, hmmm, ma che cazzo stai dicendo? »
«Sicuro! Tu sei Pedrita e loro ci hanno raggiunti fin qui a Marrakech.»
«Chi, gli emissari dei vescovi del Vaticano?» chiede Johnny intromettendosi con finta aria innocente.
Appena sente la parola “Vaticano”, Tom si agita furiosamente.
Un indemoniato. La testa piena di Ginn. Gli affrits! I Parassiti! Parassiti astrali.
Il trambusto sveglia tutto l’hotel e fa uscire i capelloni e le loro donne e i loro gitoni dalle camere.
«Serve il Mom per le piattole?» chiede dottor Dick affacciandosi al ballatoio con uno sbadiglio, grattandosi l’inguine attraverso uno slip nero.  «Niente Annika, dormi; l’italiano è in freak out, eppure abbiamo organizzato tutto seguendo il manuale per la riduzione del danno.»
«Gli passerà» sentenzia Otis Cook detto Lee.
«Zitto, tu!» intima Tom. E ricomincia a parlare di nazisti e di complotti.
Diventa noioso, e Lee esclama: «You took a bad trip in your own head, and now what?»
Dottor Dick scruta Tom con occhi da vero intenditore. «Mmmm, se non ha un ritorno di acido dopo, gli passerà presto.»
«Beh! – annuncia Johnny – Io vado al cafè l’Ere Nouvelle qui all’angolo a fare colazione. C’è qualcuno che vuole un bel caffè caldo? Magari Tom ne vuole un po’, con la cannella.»
«Con la cannella?»  obbietta giudiziosamente dottor Dick – «Adesso pure la cannella gli vuoi dare. Ma non dategli più niente, neanche una fanta, non lo vedete com’è conciato?»
Tra i ragazzi dell’hotel Huriyyat al Ganna, distesi sui sacchi a pelo, inizia un dibattito sulle virtù delle spezie.

ABITATO DAI GINN

E non finisce qui. Perché Tom se ne sta chissà da quanto tempo addossato con aria stremata a un muro del cortile bianco di calce.
Una macchia di sole impercettibilmente si sposta sempre più verso l’alto di quella parete troppo bianca e Tom non la smette più di delirare per tutta la mattinata di rondini elettriche e di vescovi.
Mentre i freaks discutono sull’opportunità di bere o meno caffè con la cannella, e qualcuno magnifica le virtù psicoattive della noce moscata, raccomandando peraltro di bere solo acqua in bottiglia sigillata perché quella del pozzo dell’hotel deve certamente pullulare di amebe, ebbene mentre il collettivo organizza il dibattitto, sorge il problema di Tom che, balzato improvvisamente su come un misirizzi, ora cerca di arrampicarsi sul banano che sorge al centro del cortile dell’hotel con le sue larghe foglie color verde cupo.
Non esistono solo dibattiti, esistono anche i problemi.
Annika, che da poco ha preso alloggio all’hotel Huriyyat al Ganna passa dal cortile per salire su in terrazza a spandere un paio di lenzuola tenebrose appena lavate in un secchio igienico di età indefinibile. Quando vede Tom penzolare dal banano strabuzza gli occhi e affretta il passo verso la scaletta stretta e unta, con i gradini cosparsi di polvere rossa, di mozziconi di candele, teste di pesce e bucce d’arancia.
Dal terrazzo la si sente chiacchierare con Aisha, la donna delle pulizie, e con le altre donne delle terrazze confinanti.
«Sì, oggi all’hotel abbiamo un maskun, un italiano “abitato” dai ginn»  racconta Aisha. «Probabilmente è un ginn ebreo, se l’è beccato nel mellah vi dico.»
«Ma non è che per caso qualcuna di voi gli ha fatto lo tseur» chiede Lalla Mimouna, una vicina sempre velata della quale i ragazzi dei vicoli dicono che ha i denti tutti d’oro e che non porta niente sotto, solo potenti amuleti antimalocchio nella giarrettiera.
«Non è che gli avete fatto la fattura che solo noi donne di Marrakech sappiamo fare così bene?»
La macchia di sole sul muro troppo bianco è ormai scomparsa, si sente già il gracchiare del muezzin dall’altoparlante, seguito dall’abbaiare di tutti i cani del quartiere, quando verso sera Tom Gambino sembra calmarsi.

«Adesso, Pedrita, mi… mi sento già meglio.»
Da un altoparlante del minareto si leva il canto del muezzin.
«Che cosa hai detto?» domanda Pedrita, mettendosi una mano a coppa dietro l’orecchio. E Lui: «Me-meglio… adesso mi p-pare di stare un p-po’ me-meglio.»
In cortile si diffonde un odore di cannella, di kif e di peperoni farciti. E la colonna sonora è offerta dalla chitarra di Johnny.

Papà, la nostra bambina se n’è andaaata,
come ha potuto farci una cosa simile?

«Non ditemi che adesso quei na-nazisti si sono me-messi a preparare il cuscus… »  bofonchia Tom dando inquieti sguardi in giro.
Chissà se si è davvero calmato, non per via delle smorfie che ancora fa con la faccia, ma perché potrebbe facilmente subire qualche altra crisi. Un temibilissimo “ritorno di acido”, come ha paventato Dottor Dick.

TOM FA UNA PORCATA

Tutti sorvegliano Tom con la coda dell’occhio, ma egli è più scaltro dei freaks.
Aspetta che Muhammad esca per andare alla moschea, e poi scappa via.
Dove va? Va a denunciare il complotto degli ultimi nazisti a Marrakech al commissariato di Polizia di piazza Jemaa el Fna.
Racconterà di essere stato sottoposto al-lavaggio-del-cervello-da-una-banda-di-nazisti. Dirà anche che Johnny, il suo amico con in testa un berrettino da paggio, è un agente-dei-servizi-perché-sa-troppe-cose.
E aggiunge anche di sospettarlo di essere andato a letto con Pedrita.
Il commissario Driss ben Ali, conosciuto sulla piazza con il soprannome di Rambo, sbraita qualcosa in un linguaggio gutturale tipo “Kurghss! Karrà! Karra! Andate, andate” ai poliziotti anch’essi strafatti o stoned per il digiuno, il kif e tutto quel ramadan.
Gli sbirri partono di malavoglia verso il mellah con le camionette bianche e un manipolo di merdah. Dal francese “merde“, i merdah sono guardie ausiliarie armate di grossi bastoni in caucciù chiamati zarouatà. Sono l’incubo del popolo minuto, specialmente dei venditori abusivi.
Giunti nel mellah, a casa di Lee, gli sbirri sequestrano tutte le pipe da kif: è inutile cercare di nasconderle nei calzini, ti frugano dappertutto.
Hanno circondato l’intero quartiere del mellah tra il fuggi fuggi generale, tra hippies tedeschi urlanti che cercano di nascondere lo shit, piccoli olandesi in mutande, americani disertori del Viet Nam che saltano dalle finestre perché non hanno il permesso di soggiorno in regola.
Le donne del quartiere salgono sui tetti a modulare iulii e zagharid come nel film La battaglia di Algeri.
«Documentacìon, bandes de cons, merde, quoi!»
E sulla porta di casa appare Lee, l’americano barbuto grande e grosso, che tuona: «O.K. man, le passeport… C’est ça que vous voulez?… le passeport!»
In Nepal, pochi mesi prima, quel colosso ha già resistito una settimana a un generale nepalese e a un’intera armata gurkha che, come già detto, lo volevano sloggiare e buttar giù dall’Annapurna.
Si diffonde la voce che Bachir, il nero con gli occhi di leopardo, è stato arrestato e condotto dai mastini al commissariato della piazza dei Trapassati. Dicono che dopo averlo spogliato nudo e appeso a una trave con la testa in giù e il culo sollevato, gli hanno dato tanti colpi di zerouatà sotto la pianta dei piedi, affinché provasse molto dolore ma non restassero segni.
Si sa che i colpi dati alle piante dei piedi si ripercuotono come scariche elettriche direttamente al cervello e ti lasciano con un gran mal di testa.
Uno sbirro burlone propone anche d’infilargli nel culo il collo di una bottiglia di Coca Cola.
«No-o-o-o» fa il commissario Driss ben Ali, e scuote il capo come a sottolineare il diniego.
«No! Balèk! Attenzione, lascia stare… in questa vicenda sono coinvolti degli occidentali, che potrebbero riferirlo ai giornali.»
Sono i tempi della Morte, della Droga e della Tricontinental con il progetto guevarista di creare dieci, cento, mille Viet Nam. E tra gli studenti comunisti della città rossa, non ancora convertiti all’islamismo, si mormora di giovani ribelli mai più rivisti tra i banchi dei licei, prelevati nottetempo e fatti scomparire nell’Oceano Atlantico, o forse nella polvere del deserto.
Alcuni abitanti d’Hiroshima hanno lasciato la loro ombra atomica sui muri della loro città al momento dell’esplosione. Resta più del loro passaggio che di quello di Bachir con gli occhi di leopardo. Non resta nessun segno, neanche uno straccio nell’aria, né l’odore acre e un po’ ambrato dei calumet di kif che facevano sognare intere Baghdad e Andalusie e Sheerazade.
Intere vite di energia fluiscono in pochi istanti. E il resto è silenzio.

MA LA GENTE CHIACCHIERA

Naturalmente la voce di quanto accaduto nel mellah si diffuse in un lampo in tutti i quartieri, anche i più lontani, della città rossa. Il tam tam arabo. Si diede corso alle chiacchiere. Cos’è veramente accaduto? E soprattutto, cosa mai aveva spinto un uomo di così belle speranze come Tom in un così infimo stato e a un gesto così infame come quello di denunciare agli sbirri i propri compagni? Be’, la risposta per il commissario Driss ben Ali, amici, è in una corta e tremenda parolina, in due sole sillabe, usate e abusate: “Droga!”
Per Muhammad, invece, se le cose erano andate storte non poteva che essere colpa dei sionisti.
Convocato anche lui in Commissariato, di cui era confidente, come lo erano tutti i gestori degli alberghi della città rossa, continuava a raccontare la storia di Tom ai poliziotti, arricchita di particolari inesistenti o francamente inventati.
Lo stesso faceva con i vicini e con chiunque volesse sentirlo nelle caffetterie di piazza Jamaa el Fana: ogni volta raccontava una versione diversa.
Dottor Dick gli diceva: «Ma esisterà pure una verità obiettiva!»
«Nà», diceva testardo Muhammad «la verità è come uno sente, e io ti dico che tutto questo è successo perché i sionisti gli hanno fatto lo tseur, una fattura.»
«Ma no, si è trovato l’acido nel bicchiere, forse non era pronto.»
«Sì, ti dico: le donne dei sionisti hanno preso dei pezzetti d’unghia, dei capelli, dei semi di quella pianta che si chiama sdak jmil, mandibola di cammello, la datura con quei fiori bianchi, oblunghi, a forma di labbra di cammello, non so se hai presente… »
«I semi di datura, quei piccoli semi neri? »
Muhamad rotea le pupille, in finto atto di resa.
«E che ne so io di quello che certe donne usano per preparare i loro intrugli, solo Allah lo sa.»
Be’, la conclusione era che al pover Tom qualcuno, o più probabilmente qualcuna, aveva fatto lo tseur e glielo aveva messo nella fanta.
Muhamad ammicca, tra il dire e il non dire, e non dice altro.
Difficile, quasi impossibile farlo parlare altrimenti che a mezze parole. Fa capire di sapere molte cose sulla pratica dello tseur e della magia nera, ma resta irremovibile, non vorrà mai dire altro che frasi allusive, informazioni che non si possono verificare.

Così si viveva a Marrakech, come fantasmi! Chi conosce il Marocco (gli stranieri che vi hanno vissuto molti anni, con una punta d’ironia vengono detti “Anciens combattants“, ed è tutta gente un po’ speciale) sa che laggiù niente è mai certezza, e che ogni verità si carica di vuoti, di sussurri, sottintesi, leggende e  affabulazioni.
Qui non bisogna mai discendere al fondo delle cose, perché il reale non prova mai niente di definitivo, sicché tutto sembra evolvere unicamente nello spazio del verbo e del pensiero.
Non predominano le linee rette e squadrate come nelle nostre piazze e i nostri grattacieli a forma di ascia rovesciata: ma le linee curve, i ghirigori, gli arabeschi, che a guardarli più che idee suggeriscono l’incastro di sogni in infiniti altri sogni.
È forse quando ci si accorge di sognare che ci si sveglia veramente. Ma quel che voglio dire è che in Marocco urtare di fronte a fatti, cifre, dati apparirà ben presto una impertinenza, un vezzo da “khafir” occidentale.
La vera storia di quanto accadde a Tom, forse si trova nei verbali degli interrogatori, negli archivi della polizia di re Hassan II. Fatto sta che dopo aver passato un paio di giorni nelle prigioni della città rossa, con l’idea di avere una lampadina nel cervello e la convinzione che nelle sue disgrazie ci fosse lo zampino dei vescovi, se non della magia nera di Marrakech, Tom raccolse il cervello, il borsello con il dentifricio e Pedrita, e partì da Marrakech, quella tetra palude, con il pesante passo di un indiano ebbro di danza.
E, che io sappia, non è mai più tornato all’hotel Huriyyat al Ganna, dove ci lasciò Johnny in eredità, raccomandando a Lee e agli altri di prendersi cura di lui, e soprattutto di non combinare anche al suo amico qualche brutto scherzo.

LA CARTOLINA

All’hotel Huriyyat al Ganna, a pensione da Muhammad e dalle Urì, tutto sembra essersi rinchiuso sull’assenza di Tom come l’acqua scivolata sulle piume di una papera. Al punto che quando, due mesi dopo, ci arrivò una sua cartolina, ci fu un momento di attesa, di sorpresa e quasi di fastidio.

«Una cartolina? E di chi è?»
«È di Tom che ci scrive da… da Sidney» squittisce Johnny.
Si era fatto vivo da tanto lontano! Ora si trovava in Australia dove faceva molti bagni, così scriveva, pesca subacquea.
Annunciava che stava per aprirsi l’era spaziale, e che avremmo tutti trovato fortuna emigrando sulla Luna.
E ci dava notizie di sé: “Mi sono convertito all’Islam perché permette la poligamia”.
Di sbieco, a un lato della cartolina raffigurante una riproduzione del “Giudizio universale” di Hieronymus Bosch, aveva aggiunto un P.S.: “Paranoia quasi completamente scomparsa”.
Fu quel “quasi” che ci fece rabbrividire.
Le ultime sue parole, scritte a lettere maiuscole, contenevano i saluti e una raccomandazione rivolta a tutti noi: “CIAO COCCHI, METTETE LA TESTA A POSTO”.
«Ecco finalmente delle parole chiare» esclamò Johnny.

Opera di Anna Allworthy

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