Mindlag [Episodio 5]

Mindlag [Episodio 5]

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Era un’imponente sala dalla pianta rotonda, una moquette su cui erano ricamate scene erotiche tra esseri metà animali, metà umani ricopriva il pavimento. Le pareti curve erano tinte di rosso vivido, si confondeva con il colore scarlatto dei sette drappi di velluto dietro a cui si celavano le sette porte del vizio. Bog non era abituato a quello Skinavatar munito di gambe così lunghe ed esili, ma aveva trovato un modo goffo per correre alla prima porta, eppure ciò non gli importava, perché adesso non era più Bog, ma Slavus Maximus.

Si era messo a perlustrare gli ambienti, aggirandosi per ogni angolo tematico di perversione. Zoofili dalle teste di animali, Maniaci dello Skincrossdressing, angeli stuprati e mutilatori si erano susseguiti in quella che era stata una ricerca spasmodica, impaziente come era di invocare il perdono di Domina Strix, quanto di sapere se il suo aspetto l’avrebbe compiaciuta. Aveva attraversato l’inferno dalle fiamme gelide dei dannati volontari, penetrati da esseri caprini, i quali avevano cessato i loro convulsi movimenti per ammirare il suo nuovo corpo. Anche nella stanza dalle colonne dorate da bordello di bassa lega, alcuni veterani del vizio, dai loro Skinavatar che parevano di gomma consunta, lo avevano rimirato stupiti: il suo aspetto da livello Premium li aveva spinti smetterla di cercare qualcuno da fustigare e a pregarlo di percuoterli, porgendogli le loro fruste o i manganelli chiodati.

July “Anal” Großebecken, l’insaziabile puttana dai mille sfinteri, aveva tentato di sottrarsi all’amplesso di tre gommosi superdotati per seguirlo, ma fortunatamente era rimasta impalata ai loro membri asinini. Quella ci provava sempre, era una patetica wannabe con cui aveva chiuso dopo aver incontrato Domina Strix. Aveva respinto tacitamente approcci, aveva strattonato via mani, tibie da mantide o artigli che si protendevano da quella massa di supplici ed era avanzato con più sicurezza nei suoi arti nuovi, forse per la confidenza acquisita con la pratica. Forse guidato dalla brama.

Nessun gemito attorno, nessun lamento, nessuna ipocrita frase d’amore o di insulto. La riverenza verso il suo Skinavatar Premium, anche se a saldo, aleggiava nel silenzio, eppure lui l’aveva ignorata, perché era lì per essere Slavus Maximus, era lì per servire. E una persona soltanto.

Così aveva continuato la sua ricerca nel silenzio assoluto, perché nel Pervernet era buona norma non parlare o perfino emettere qualsiasi suono. I picchi vocali potevano essere rubati a scopo di ricatto, invece crackare e distruggere gli Skinavatar era complicatissimo e per questo garantivano la privacy, almeno fino alla loro scadenza.

Ritornato nella Hall in preda alla frenesia e la disperazione dell’astinenza, il lemuroide aveva sollevato il drappo che copriva l’unica porta da varcare. Una volta entrato era stato pervaso da una freschezza umida: la stanza era deserta, ed era di latte. Il candore delle pareti liquide in un primo momento lo aveva abbagliato, tanto che il suo passo si era fatto incerto mentre si dirigeva al centro del quadrilatero bianco, le palme pelose dei piedi infradiciate da gelido nettare color del niente.

Lei non c’era. Ma sarebbe arrivata, questo Slavus Maximus se lo sentiva, era il legame quasi gemellare sviluppato tra padrona e schiavo a dirglielo. Forse era solo nascosta e sarebbe bastato chiederle perdono prostrandosi. E così aveva fatto, si era messo in ginocchio, solo per poi sdraiarsi prono, le lunghe ed esili braccia spalancate come chi sta prendendo i voti. Aveva sentito il denso fluido che ricopriva il pavimento bagnargli la fronte, le grosse palpebre da lemure chiuse e frementi, in attesa, quindi, un gorgoglio improvviso gli aveva provocato un sussulto e aveva scomposto quella posizione da penitente. Dinanzi a lui, al suolo, una chiazza rossa era in ebollizione violando il candore e da quella era emersa lei, Domina Strix.

Quel giorno la sua padrona aveva scelto uno Skinavatar misto, ricavato da due o forse tre corpi Premium combinati insieme. Un elmo di polychitin piumato le copriva il capo, lasciando intravedere, atteggiate in un perfido sorriso, solo le labbra turgide e scarlatte, a contrasto della pelle candida. Mentre Domina Strix avanzava verso di lui, le piume violacee ondeggiavano lievi e asciutte, perché lei non si era bagnata anche se era ascesa da sotto il pavimento liquido. Il corpo era celato da enormi ali cartilaginee da chirottero, ma non ricoprivano le sue gambe agili e nude, umane fino ai piedi, al posto dei quali stavano due artigli da rapace. Lo aveva fulminato con due sfere oculari che risaltavano luminose dalla fessura dell’elmo, e con un cenno del mento gli aveva intimato di alzarsi. Lieto di ubbidire, come se gli avessero tolto un peso dall’anima, Bog si era tirato su allargando le lunghe braccia, nel goffo tentativo di farsi ammirare nel suo Skinavatar costatogli una fortuna, anche se sapeva di apparire come un dozzinale Last Minute agli occhi di lei.

Domina Strix aveva sorriso snudando le zanne ancora più bianche di quella stanza e aveva spalancato le ali. Per poco Slavus Maximus non si era lasciato sfuggire un gemito, quando si era reso conto che era vestita solo di un vello pubico viola come le piume sull’elmo. Qualcosa si era mosso da dietro le natiche toniche, poi Strix aveva allargato le gambe, lasciando che la coda si muovesse a toccargli il mento. Era stata una ruvida carezza squamosa, che però gli aveva fatto chiudere le palpebre e stirare quelle labbra flosce in un sorriso. Lei lo aveva stretto fra le braccia, le unghie affilate si erano fatte largo a solleticargli la schiena, i seni morbidi e pieni a contatto con la sua pelliccia pettorale. Lo aveva baciato sul collo, un morso delicato a dire il vero, dopodiché gli aveva afferrato il membro extra large.

Quando lo aveva guidato dentro di sé, il sesso di Strix era sbocciato come una rosa dai petali mielosamente roridi, lui non aveva fatto in tempo a stupirsi di come fosse calda e bagnata quella grotta elastica capace di fagocitarlo senza alcun intoppo o ad assaporare quell’attimo memorabile, perché la sua dominatrice aveva spiccato il volo, trascinandolo con sé. Aveva creduto che fosse l’inizio di un amplesso aereo, celestiale: il soffitto era scomparso, divenendo un cielo indistinto di una notte color nebbia, mentre le pareti erano divenute turbolente cascate di latte di cui non si scorgeva l’origine. Lei lo aveva portato in alto, tanto da indurlo a temere che lo avrebbe lasciato cadere, per provocargli una disconnessione secca da shock. Eppure il caldo respiro profumato di lei contro la sua giugulare lo avevano rassicurato. Lo schiavo lo sentiva, anche la sua padrona lo voleva, e lui sarebbe stato ancora una volta suo. Poi, repentino, era arrivato il dolore, quando Domina Strix lo aveva violato con la coda.

Il Lemuroide aveva chinato la testa in segno di resa, le gambe, penzoloni nel vuoto, si erano contratte per dimostrarle che il castigo aveva dato i suoi frutti, eppure tutto andava bene pur di rimanere lì con lei. Del resto, la punizione per il suo ritardo non lo aveva colto impreparato quanto il fatto che il suo Skinavatar non fosse dotato di un orifizio elastico come la vagina di Strix. O che il dolore potesse raggiungere ulteriori vette, nonostante si fosse prostrato immediatamente.

Si era sbagliato.

In un attimo le squame si erano aperte come mille coltelli affilati, Slavus Maximus aveva urlato e la sua voce era uscita graffiandogli le corde vocali: un grido di dolore e delusione, ma era accaduto nel mono, dove Bog si era ritrovato ansimante e inerme.

“Attento!” ringhiò Haß e Bog premette il grilletto del freno sulla cloche, poco prima che un Turborisciò sfrecciasse davanti alla sua vettura.

“N-Non l-lo avevo visto” balbettò il Beta, Haß si spalmò sul sedile e fece un ghigno malizioso: “Eh, io invece lo avevo visto, sa? Per sua fortuna.”

La Triruote rallentò docilmente, come tutte le vetture di fronte a loro e il ragazzino che guidava il rottame alzò una mano in segno di scuse, voltandosi appena. Al disopra della maschera antipolvere, Bog notò un paio di occhi a mandorla preoccupati, poi il Turborisciò si inoltrò fra un pachidermico Megabus e due Triruote che poco lontano avevano iniziato a procedere a passo d’uomo. “Prenotato”, la scritta olografica aleggiava rossa, sparata dal proiettore sul retro del rottame. Il ragazzino aveva il suo stesso problema: doveva affrettarsi ad andare a prendere un cliente, solo che aveva un mezzo più agile, per quanto malmesso. Poteva insinuarsi, poteva bypassare i blocchi di vetture che avevano iniziato a occupare la carreggiata, al contrario di lui.

Erano arrivati al punto in cui la Main diventava un imbuto, e il traffico aumentava. Anche Bog cominciò a procedere a passo d’uomo. L’incedere più lento e il non poter fare altrimenti che seguire il flusso di carrozzerie impolverate dai lavori gli fece notare che il cielo aveva assunto un tono scuro, quello dell’imbrunire. Non erano solo le nubi cariche di pioggia ad aver soffocato il sole: era trascorso del tempo.

Illustrazione di Giorgio Borroni.

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