Mindlag [Episodio 7]

Mindlag [Episodio 7]

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SCHIFOSO, LURIDO PARIA!

Come se si fosse sentita minacciata da Haß, la rosa fu attraversata da un fremito che ne rivelò la rozza struttura in pixel, poi i petali parvero dissolversi e ricomporsi per un istante e inutilmente: il fiore virtuale morì in una esplosione viola di scintille cubiche.

Bog si accorse dell’uomo che aveva creato l’ologramma. Stava curvo sul finestrino, fissava lui e il dirigente a bocca spalancata, in un’espressione palesemente idiota, pur avendo il volto seminascosto da un vecchio visore. Con una mano tremante e rattrappita, quel tizio porgeva loro un rolltab dallo schermo incrinato, già impostato su “Transazione di donazione.”

“Vuoi toglierti dai coglioni?” sbraitò Haß puntando un indice minaccioso contro il vetro che lo separava da quel Melancotech finito.

Il mendicante non si mosse, rimase piantato su quelle gambe rachitiche da marionetta, coperte da pantaloni neri troppo larghi. Bog si sentì spiato da dietro l’unica lente scura, intravide in quel visore il suo riflesso un secondo prima che da esso si sprigionasse un bagliore.

DARE TU QUALCOSINA A DEZ?

Le lettere olografiche fluttuarono iridescenti proiettate da quel congegno decrepito: il Melancotech lo portava sbilenco, dato che gli mancava una ventosa sulla tempia. L’uomo tentò di rimetterlo a posto, con un gesto rallentato quanto meccanico, riflessi da consumatore abituale di Synthab. Il visore ricadde inesorabilmente di lato, anche la scritta sussultò, poi tornò a fuoco, mentre un sorriso ebete a cui mancava più di un dente si faceva largo sul volto segnato da rughe e abusi.

“Sciò, miserabile!” ringhiò Haß, evidentemente indispettito perché con quel mendicante i suoi ordini non attaccavano e Bog avrebbe voluto dire qualcosa, fargli capire che quel tizio, Dez, o come si chiamava, era bruciato. Andato.

Non lo fece: l’istinto naturale di Haß era quello di trovare falle nel sistema, non era solo questione di lavoro, e per il Beta specchiarsi in quel rottame di visore, anche solo per un istante, era stato come vedere il futuro in una palla di vetro. Sarebbe finito come quell’uomo, quasi gli provocò un sorriso amaro constatare che un Humorpop e un Melancotech, due fazioni in lotta una manciata di anni prima, ora dovessero condividere il medesimo destino, oltre all’estinzione dei loro movimenti d’appartenenza.

La scritta scomparve in una nube di pixel e Dez ebbe un sussulto, poi si carezzò il cranio spelacchiato da cane rognoso e guardò in alto, con un’espressione corrucciata pur nella sua idiozia. Gli ci vollero altre gocce di pioggia perché si decidesse a fare ritorno sul marciapiede, fra il brulichio dei passanti. A Bog parvero rapide meduse in fase di migrazione, le loro toppe a campo di forza indossate sulla fronte respingevano l’acqua creando una cupola di vuoto attorno a loro.

Dez arrancò stringendosi nella giacca nera da Melancotech di due taglie sopra, l’incedere di un lavoratrone con qualche insanabile difetto di fabbrica: la sua figura rimase impressa negli occhi di Bog anche quando l’abitacolo venne invaso dalla luce color smeraldo del grande semaforo dinanzi alle vetture in coda.

Il Beta premette il grilletto dell’acceleratore quasi con rabbia, tanto da far trasalire Haß: tentò di ignorarlo, anche se percepì il suo sorriso maligno nell’oscurità, quasi gli parve di sentirne il rumore assordante, come quello della Monoruota truccata sotto i suoi piedi, in una gloriosa notte d’estate condivisa assieme a Lia e Ned.

Quella notte di venti anni prima la strada era libera per loro, Lia era su di giri, Ned non si stancava mai di gridare “Dritti al Gran Briccone!” e la notte era un abbraccio chiassoso di mille luci colorate.

“Le gocce lievi guarda cadere e suicidarsi”

Lo haiku mentale con la sua razionalità lo guidò fuori dal mindlag in cui la sua parte bruciata lo stava sprofondando e Bog, per costringersi a svegliarsi dal torpore, inspirò rumorosamente aria viziata. O forse lo fece per evitare ciò che un Humorpop avrebbe considerato il sacrilegio di lasciarsi appannare la vista dalle lacrime, anche se a questo punto poco importava. Intanto le gocce impattavano sul parabrezza e, illuminate dalle auto che avevano ripreso a muoversi, si rincorrevano in piccoli tizzoni liquidi.

La rosa olografica di Dez riapparve sullo schermo retrovisore incastonato al centro della cloche, lontana, ma improvvisamente venne fagocitata dai lampioni sul marciapiede, nel momento in cui spararono i loro vischiosi getti di luce biancastra.

Fu quasi un segnale, perché le vetrine degli empori ai lati della strada si illuminassero e i guardrail divenissero strisce color fluo nel buio piovoso della notte. Dez e il suo ologramma furono annichiliti da tale potenza di fuoco, cancellati, come se il Me-nimal fosse arrivato a regolare i conti anche con loro.

Del resto in quella parte della città il Me-nimal era già arrivato da un pezzo e quel viale appariva spoglio per quanto rinnovato. Uniformità e ordine lo avevano privato di anima, gli empori erano grigi riquadri che si impilavano nei palazzi: non cercavano più attenzioni attraverso gli ologrammi, non tentavano, né facevano più a gara per stupire.

Un tempo dalle vetrine si propagavano effimere figure di pixel: la signorina dei pasti precotti e il suo sorriso smagliante piroettava sul marciapiede con un vassoio che non le sfuggiva mai di mano, così piena di brio che nessuno ci passava in mezzo, per non rovinare la sua danza su un ghiaccio di cemento. Invece, Il lupo delle Installazioni Domotiche W.O.L.F. era un ologramma di quelli vecchi, bidimensionale, eppure era un’istituzione nella zona, una macchia verdastra che scodinzolava, mentre il gatto con gli stivali dell’olocinema per bambini eseguiva instancabile capriole e salti mortali: anche gli adulti si fermavano ad ammirarlo e strappava sempre un sorriso.

In una delle vie laterali, dove adesso si intravedevano i palazzi-alveare, i club avevano accompagnato la gioventù di Bog offrendo divertimento per tutti i gusti. Tendenze, sottogruppi e fazioni in quelle cattedrali degli stili di vita pianificavano rivoluzioni culturali e battaglie, in nome dell’essere quanto dell’apparire. Adesso tutto era sobriamente di basso profilo, i negozi erano ordinari, le insegne simili, non si facevano guerra, elencavano solo il tipo di merce trattata, che fosse cibo o congegni vari con il rigido font ufficiale del Me-nimal.

Era successo davvero? Sul serio insieme ai suoi amici aveva fatto un raid a bordo delle loro Monoruota al Midnight Club? C’era stato davvero un tempo in cui Bog non era B411?

Ricordava il vento che scompigliava il suo corno azzurro di capelli sul cranio rasato a pelle. Nessuno smarthole sulla nuca, nessuna acconciatura imposta: era libero e Lia gli rivolgeva il suo sorriso perenne, almeno lui pensava che intendesse rivolgerglielo, al di là dei tiranti intrazigomatici.

Bog la rivide i piedi in equilibrio sulla tavola, mentre la grossa ruota al centro emanava una luce fluo e tracciava dietro di sé una coda luminosa colma di allegra arroganza. Lei seguiva la cometa che Ned lasciava dietro di sé, zigzagando tra i passanti con agilità, per poi sparire nei vicoli bui e puzzolenti dove era l’unica fonte di illuminazione.

“Truppa, portiamo allegria ai tristi!” aveva gridato Ned: ecco il segnale convenuto, appena avevano avvistato l’insegna al neon del Midnight Club. Un drappello di Melancotech era in fila all’entrata, esibivano abiti neri e facce meste da funerale. All’unisono, Bog e i suoi amici avevano estratto le bombolette e avevano usato lo spray esilarante su quel manipolo di corvacci, senza alcuna riserva.

Peccato dover filare via subito e non godersi lo spettacolo, Bog per poco non era finito contro un lampione cieco per essersi voltato a vedere gli effetti della loro azione: i Melancotech che ridevano forzatamente, a crepapelle, chini o a rotolarsi per terra con le mani affondate nel ventre.

“Melancotech… ancora in giro!” Haß ruppe il silenzio, quando ormai anche il ricordo di Dez sembrava essere svanito: “Un tempo era pieno di quei degenerati!”

Il vecchio tacque un istante, come per attendere una risposta da Bog, ma aspettò invano, così riprese: “Drogati di arte, di irrazionalità…”

Il Beta si sforzò di dare qualche segno di vita all’Alfa, ma riuscì solo ad annuire. Sudore freddo gli imperlò la fronte, tanto da avere l’impressione che il parabrezza fosse inesistente, e di essere alla mercé di quella pioggia sparuta che non si decideva a sfogarsi in un temporale.

Haß distese le dita, quei minuscoli artigli da rapace sulla borsa e cominciò ad accarezzare la sintopelle con movimenti quasi impercettibili, quelli di chi pregusta la riuscita di una trappola: “E vede come sono finiti?”

“Male, direi, signore.” questa volta Bog riuscì ad articolare una risposta, che per quanto ovvia parve suscitare un’altra risatina sommessa dell’Alfa.

“Già, ma lei non ha idea di come si riduce certa gente oggi, uno scherzo a confronto di quei bohemien da strapazzo.” Haß si strinse nelle spalle, quasi parlasse a un idiota: “Eppure lei ha metà dei miei anni, B411, dovrebbe saperlo: lei era di sicuro già nato quando le fazioni di artistoidi si sfidavano anche per il territorio…” e il vecchio tracciò un cerchio invisibile nell’aria, con l’indice, che finì in un gesto di disprezzo, come se scacciasse un insetto: “Tutti vivevano di illusioni, di poesiole o altro ciarpame… si bruciavano pure le sinapsi a forza di combattimenti psico-olografici clandestini! Ogni fazione aveva la sua mania, il suo vizio in pillole o liquido, ma ora c’è una droga peggiore e può bruciare chiunque, no?”

L’Alfa tacque, reclinò leggermente la testa all’indietro, aspettando di nuovo un segno di vita dal Beta, che anche in questa occasione si limitò a tacere: “Le connessioni illegali, per la miseria!” sbottò infine il vecchio, come deluso dalla mancanza di reattività dell’altro: “Suvvia, non faccia finta di non saperlo: mi riferisco al Pervernet.”
Per un istante nella Triruote si udì solo il rumore della pioggia sul metallo del tettino. Un tamburellare ipnotico in crescendo, invece Il respiro di Bog si fermò a metà e dovette stringere la cloche con forza per nascondere il tremito delle mani.

“Ne ho beccato uno, proprio oggi.”

A quelle parole, il Beta si voltò di scatto, un movimento repentino che un lavoratrone del parcheggio avrebbe registrato immediatamente. Il suo corpo quasi non recepì il dolore alla nuca, lo registrò in background finché non divenne un formicolio.

Haß fissò il sottoposto con aria compiaciuta, lo ispezionava con gli occhi: “Non vuol sapere chi è?”

Bog emise una sorta di rantolo confuso, poteva essere uno schiarirsi la gola per prendere tempo quanto ammettere di aver accusato il colpo.

“Ha ragione” Haß giocherellò con la zip della borsa: “Lei è discreto, ma credo la riguardi da vicino.”

“Da vicino?” rispose il Beta in un debole sussurro e Haß annuì ridacchiando, la voce roca uno starnazzare gorgogliante in cui si poteva leggere una soddisfazione perfida, quella di un impotente che usa la sua autorità come sfogo sessuale.

Illustrazione di Giorgio Borroni.

Illustrazione di Giorgio Borroni.

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