Mindlag [Episodio 9]

Mindlag [Episodio 9]

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La corsia Premium che scorreva nella galleria trasparente era spaziosa e l’asfalto liscio aveva una diversa presa sui pneumatici. Bog rilassò la presa sulla cloche e schiacciò al massimo il grilletto dell’acceleratore: anche se un’utilitaria non poteva competere con le sporadici bolidi che gli sfrecciavano accanto, provò piacere nel vedere i portali diventare una sorta di lastra luminosa a causa della velocità. La corsia dei poveri accanto era scomparsa, quasi fosse esistita solo in un incubo.

Haß ridacchiò, poi si sporse con fare complice verso Bog e gli diede una pacca sulla spalla. A quel contatto, tanto illecito quanto strano, il Beta si irrigidì e gli parve di continuare ad avvertire il tocco del capo sulla spalla, anche se il tutto non era durato che un istante.

“Lei ha una padrona?” domandò Haß sogghignando. Continuava a sporgersi verso di lui, come se volesse ascoltare una confessione, il suo alito cattivo sembrava ancora più fetido, perché emanato da una bocca atteggiata in un sorriso colmo di malizia.

“Prego?” Bog si voltò di scatto, l’Alfa rise ancora più forte a quella reazione.

“Ma sì, dico, c’è di mezzo una donna?” il vecchio tornò alla sua posizione di prima, con le mani sulla borsa e la schiena ben distesa sullo schienale: “Non è stato molto economico il suo gesto. Forse ha un test prematrimoniale in ballo?”

Il Beta scosse il capo: “Per ora no.”, il sorriso che gli sfuggì era forse il più genuino di quelli che aveva elargito durante la giornata, anche se tanto amaro da non poter essere decisamente Humorpop.

Haß batté il palmo sulla sua valigia, producendo un rumore secco: “Meglio! Così potrà concentrarsi sul lavoro.”

Bog gettò un’occhiata al capo con la coda dell’occhio e notò che lo stava fissando in modo strano, aveva gli occhietti malevoli ridotti a fessure: “Lei è puntuale”, il vecchio alzò un sopracciglio come ogni volta che esprimeva un dubbio, qualcosa che non rientrava nei suoi parametri: “Tuttavia non è abbastanza accurato, ultimamente.”

A quelle parole il Beta tacque, anche perché era innegabile. Una Tornado nera lo sorpassò poi gli si piazzò di fronte per una manciata di secondi, il tempo di fargli leggere il messaggio comparso sul lunotto posteriore: la scritta “Nullità!” lampeggiò un paio di volte, poi il bolide divenne un punto scuro inghiottito dal biancore dei neon.

“Esca alla prossima” sospirò Haß e Bog rallentò per centrare l’ottagono che lo risputò fuori come uno sfintere, sotto la pioggia battente. Tutto, sferzato da funi d’acqua, appariva come un turbinio di pixel, simile a quando la rosa di quel Melancotech si era dissolta. Il calamaro del Me-nimal, invece, era più vicino e più titanico, segno che erano quasi giunti a destinazione: ora incuteva timore e rispetto con i suoi tentacoli che si inarcavano lenti come a voler abbracciarla tutta la città.

Gli agglomerati di palazzi alveare erano scomparsi, attorno alla Triruote solo lussuose costruzioni a pinna dalle luci dorate. Non erano che alveari di lusso, disposti ordinatamente nel senso di una corrente invisibile, nell’oceano della notte. Haß si mosse sul sedile come se fosse stato pervaso da un prurito quando il Me-nimal Plaza, la pinna più alta, apparve di fronte a loro. Il mostro degli abissi sparato dal proiettore sulla punta di quell’ala fatta di esagoni luminosi adesso li sovrastava, tingendo tutto e tutti di verde. A terra, invece, gli Alfa attraversavano il parco attorno alla costruzione, entravano o uscivano dall’Hotel con le loro valigette in sintopelle: si davano un cenno di saluto e poi azionavano il campo di forza, divenendo meduse di pioggia respinta. Il parco del Plaza, era un crocevia di uomini e donne d’affari, fra gli alberi sintetici, dai rami spogli e dritti verso il cielo. al di fuori del suo perimetro, delimitato da un imponente cerchio olografico, le Tornado e le Hurakan di modelli che Bog aveva visto solo nei film si contendevano la strada, tuttavia il ronzio dei loro motori era lieve. Discreto.

Erano arrivati. Le gambe di Bog, un groviglio di nervi doloranti, si rilassarono e sulle sue spalle a sua volta calò la carezza della quiete. L’indice si staccò dal grilletto della cloche, di cui la carne aveva preso la forma e la Triruote rallentò, mentre Bog indugiò a rileggere la scritta olografica che fluttuava al centro del parco di alberi finti: “Me-nimal Plaza”.

“Si fermi!” gridò Haß e Bog artigliò di riflesso il grilletto del freno. La Triruote, prima di inchiodare, scivolò sull’asfalto. Il colpo di frusta fu doloroso, il Beta si lasciò sfuggire un gemito quando la sua nuca cozzò con lo schienale.

Dovette tradire il dolore con una smorfia, perché Haß lo fissò di sbieco, mentre si attaccava la toppa adesiva del congegno antipioggia sulla fronte. Bog riuscì a mantenere un sorriso tremolante, ma non era certo di riuscire a celare del tutto un’espressione di dolore: lo sentiva pulsargli dietro la testa, mentre il sangue caldo misto a pus gli colava dalla nuca sul colletto della camicia.

Haß alzò di nuovo un sopracciglio, ma evidentemente aveva troppa fretta per le sue indagini: “Meglio essere discreti, capisce, no? Faccio un po’ di strada a piedi.”

Le ultime parole gli erano arrivate distorte dal formicolio nella testa, dal bruciore che si estendeva fino alla base del collo. Rimase voltato verso il suo capo, per evitare che si accorgesse del sangue: ne era certo, il colletto era completamente inzuppato.

“Pervertito!” gli parve che Haß avesse esclamato, tanto che a Bog venne da balbettare un “C-Cosa?”

“Ho detto, ‘roba da pervertiti’ come diavolo fate?!” rispose l’Alfa strattonando la cintura di sicurezza per liberarsi. Poi arrivò il tonfo sordo dello sportello, forse il vecchio lo aveva salutato, forse no. Ma adesso Bog lo vedeva, una medusa d’acqua tra le altre, che si avvicinava all’entrata del Plaza. Sembrava l’andatura “discreta ma veloce” che lui adottava contro i lavoratroni.

Bog digrignò i denti e socchiuse gli occhi per scacciare la patina acquosa lasciatagli dal dolore alla nuca, dopodiché mise in moto. La Triruote partì agile leggera come se si fosse liberata da un peso.

“Posso farcela” pensò il Beta, ma mormorò: “Devo farcela.”

Il dolore dietro alla testa era divenuto un pulsare sordo, il bozzo sembrava aver acquistato le dimensioni di un uovo, ma il Beta riuscì a far passare ogni cosa in secondo piano, come un’interferenza fastidiosa eppure controllabile. Anzi, quella botta forse lo aveva risvegliato, era pronto a giurare di non essere più a rischio mindlag, non sentiva più voci conflittuali degli haiku sarcastici.

Quella zona un tempo non era di lusso, non era off limits. Lui la usava come scorciatoia per arrivare al quartiere dove viveva quando era un Humorpop e da lì sarebbe arrivato all’alveare dei Beta. Si concentrò per ricordare quelle strisce di scritte sulla parete-schermo che aveva fissato inutilmente e gli sembrò di non aver notato alcuna variazione di viabilità nel suo quartiere natale. O forse fu solo qualcosa a cui aggrapparsi, come la certezza che quel giorno fosse toccato alla testa di Cho cadere e non alla sua.

“Io stasera mi connetto ‘fanculo Haß!” pensò, era riuscito a fregarlo quella sera, quindi aveva ancora qualche cartuccia da sparare. “’Fanculo Cho! Non è stato furbo come me! Te lo sei metitato il ban!”

Magari Bog si sarebbe tolto quella roba dalla nuca al più presto, avrebbe chiuso con le connessioni.’Fanculo pure quella stronza stacanovista di G585, avrebbe lavorato il doppio di lei e il suo conto sarebbe tornato come prima. Che andassero affanculo anche a quegli invidiosi di…

Il Beta si bloccò un attimo prima di pensare a Ned e Lia, scosse il capo e decise che era meglio concentrarsi, meglio pensare al suo obiettivo immediato: la connessione. L’ultima, davvero. Non ascoltò quella voce razionale che gli suggeriva di non farlo, di chiudere con il suo vizio considerando le sfortunate coincidenze della serata e di lasciar evaporare il suo Skinavatar. Bog aprì il finestrino della Triruote, lasciando che l’aria umida del temporale portasse via i residui dell’alitosi di Haß, poi varcò l’arco olografico dorato che delimitava la fine del quartiere.

Doveva muoversi, e sperare di ricordarsi la strada, perché anche un solo minuto era prezioso e sul cruscotto i numeri tridimensionali parevano ribadirgli che mancava un’ora e mezzo alla fine del suo corpo virtuale.

Nel quartiere Humorpop i lampioni colorati a forma di tulipani erano stati sostituiti dalle fredde sfere Me-nimal, ma ancora i muri erano decorati dai graffiti osceni e satirici della sua gioventù. Haiku e fiori, bocche sorridenti lo accompagnarono per le vie deserte, le stesse che anni prima si animavano fino alle prime luci dell’alba di gente in festa, di creste colorate, luci strobo.

Per un attimo a Bog parve di vedere ancora Lia sulla sua Monoruota apparirgli di fronte e scodinzolare col suo didietro generoso, eppure tonico, sfoggiato quasi a dimostrare che nel parcheggio gli aveva giocato uno scherzo, con un travestimento.

Non doveva lasciare che accadesse, non doveva lasciarsi distrarre da un altro mindlag, così si avvicinò al finestrino e inspirò a fondo il petricore, finché il fantasma di ciò che era Lia non sparì, proprio mentre gli faceva segno di vittoria gridando il suo slogan. Rimasero i vicoli in stato comatoso e i palazzi dormitorio dalle finestre chiuse: tutto, però, sussurrava qualcosa alla memoria di Bog, tutto riaccendeva i suoi sensi annebbiati dalle assenze mentali. Pensò che in fondo quel posto lo sosteneva, anche in quel naufragio autoinflitto.

Un murales falloforme su una parete, le colonne ritorte di un club ormai chiuso, gli sussurravano la strada, gli suggerivano quando svoltare. Era al teatro Humorpop che lo conducevano, il luogo dei contest di haiku, della anarchica baldoria, il tempio consacrato al Gran Briccone. Qualcosa di quei brividi che il teatro gli aveva donato da giovane era rimasto per diventare qualcosa di diverso. Ora per Bog era solo il punto da raggiungere per la sua posizione favorevole, lo snodo cruciale della scorciatoia. Avrebbe tagliato la città in linea retta, si sarebbe connesso, sarebbe stato punito, e avrebbe riempito la voragine del suo vizio con una manciata di sollievo.

Illustrazione di Giorgio Borroni.

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